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Sull'architettura in Italia

Ugo Rosa



La Cornell University a Ithaca, New York, ha recentemente ospitato il convegno e la mostra Italy Now? Country Positions in Architecture curati da Alberto Alessi e volti all'investigazione di alcuni dei recenti orientamenti dell'architettura italiana. Ai partecipanti alla mostra sono state poste alcune domande. Le riportiamo qui di seguito insieme alle risposte di Ugo Rosa, invitato ad esporre insieme al Gruppo Itaca di Caltanissetta.



 
Come definite l'architettura? Cosa vuol dire fare architettura oggi?

L'architettura ha il suo nome, non ha bisogno d'altro. Vorremo piuttosto contrapporre due modi di indicarla, solitamente utilizzati come sinonimi: "Ars construendi vs ars aedificandi". L'edificare è per noi il modo in cui il costruire si rende inautentico: è l'aedis facere, il costruire templi enunciando enfaticamente la loro erezione e mutando un dono, in un "prodotto" intenzionalmente perseguito. Laddove, invece, costruire è lavorare in silenzio nella consapevolezza che all'architetto non è dato ipotecare il futuro e imporre alla pietra le sue metaforizzazioni indebite. Perché la costruzione ha una vita propria, che non appartiene all'architetto. Il tempio sarà, poi, se dovrà essere: non sta a noi "edificarlo" e non sta a noi "edificare" l'umanità, ci penserà il tempo, ci penserà un dio, se ancora ci sarà un dio a pensarci.

Chi costruisce non sa, in realtà, cosa abita ed abiterà (oltre a quest'uomo qui e a quella donna lì, che vedo e che tocco) la sua costruzione: non lo sa e, aggiungiamo, non deve saperlo perché quel che lui può pretendere di sapere, per quanto gli sembri titanico, sarà sempre spaventosamente insignificante e insulso. Il costruttore gotico, questo nomade che si allontanava indefinitamente da se stesso, sapeva bene d'essere strumento di qualcosa che lo trascendeva: l'architetto, nel corso della seconda metà del millennio, lo ha progressivamente dimenticato, oggi l'edificazione ha sgominato la costruzione. L'edificante "fa Arte" (fa il tempio) e sa perfettamente di fare Arte (maiuscolo), e con questa semplice illusione distrugge alla radice ogni possibilità d'arte (minuscolo); perché distrugge, in realtà, la stessa ragion d'essere di un artigianato, la sua dignità e la sua necessaria umiltà, quella che l'architetto dovrebbe imparare non appena prende in mano la sua prima matita. L'architetto edificante è, dunque, nell'uso che facciamo di questa parola, portatore di hybris e perciò fatalmente e diabolicamente sconfitto proprio quanto più si danna per vincere. Più l'architetto si autocertifica "artista", più vuole edificare, proclamando la sua libertà creativa e la sua indomita genialità, più urla l'importanza epocale di quello che fa e più fatuo, insulso, inutile, diviene il suo operare. Troviamo perciò auspicabile un'architettura non edificante anche se ci rendiamo perfettamente conto dell'inattualità di quest'auspicio.

Esiste un'architettura italiana? In che senso se ne può parlare? Cosa la caratterizza?

Certo che esiste. La caratterizzano: colorito vivace, sguardo sereno, sorriso serafico, nessun movimento. Sembra la mummia di Lenin quando era ancora viva e si faceva la fila per farci quattro chiacchiere. Mai che rispondesse. Parlare, però, se ne può parlare. Parliamone.

Ci s'insegna ultimamente (e lo si fa, se occorre, a colpi di mortaio) che in due cose serve credere: nel Mercato e in Dio (il nostro Dio, naturalmente). Il resto va da sé. L'ottimismo dei tempi, è evidente, deriva dall'identificazione del bersaglio con il suo diametro più esterno, in modo tale che solo al miope grave e al mentecatto sia consentito mancarlo. Dio e Mercato sembrano, del resto, un'ottima accoppiata. Esauriscono i bisogni dello spirito e anche quelli del corpo. In Italia, risparmiatori come siamo, abbiamo ulteriormente ridotto la possibilità di sbagliare il tiro rinunciando a Dio che, ad occhio e croce, è l'anello debole del duetto. La nostra plurisecolare tradizione cattolica e la presenza sorridente ma vigile della chiesa ci consentono queste deliziose forme d'oblio: l'Italia è il solo paese al mondo in cui si può benissimo fare a meno di credere in Dio restando perfettamente ortodossi.

Allo stesso modo, nel nostro paese, si resta profondamente affezionati all'architettura pur perseguendo da decenni, con raffinata ferocia, il suo totale annientamento. Da noi i bookmakers avrebbero vita facile: la rosa dei professionisti che fanno incetta degli incarichi è nota da sempre e sono rarissimi i concorsi in cui, conoscendo i nomi della giuria e quelli dei partecipanti non si possa, con un minimo di conoscenza dell'ambiente, prevedere chi saranno i vincitori e chi i classificati. Non sono neppure necessarie particolari raccomandazioni, si procede per appartenenze e cordate. Lo stato della pubblicistica è pietoso: su dieci libri sette sono insulsa paccottiglia scritta per racimolare titoli accademici, il rimanente è quasi sempre pura sciatteria organizzata. Le riviste più blasonate soffocano per stupidità supponente: la loro infingardaggine si distingue per il compassato cinismo con cui è praticata. Ignorano chiunque non fa pendant con il loro gessato grigio o con il loro finto casual firmato. I fotografi d'architettura contribuiscono allegramente al macello. L'unico segno di vitalità lo danno le riviste online: speriamo in quelle.

Nuova, stabile, confortevole, condivisa, riconoscibile, eccitante, bella... A quali valori e obiettivi fate riferimento nel vostro fare architettura? Perché?

Utilitas, firmitas venustas. Per quanto si fa non se ne esce. L'architettura deve essere utile, deve essere solida e, se siamo molto, ma molto fortunati, può anche capitare che sia bella. Tutto il resto è inessenziale e, se s'immagina di poter fare a meno della triade vitruviana è l'architettura stessa che diventa inessenziale, cosa che sta puntualmente succedendo oggi che l'architetto è diventato una specie d'ingegnere disossato da consumarsi à la carte. Utilitas, prima di tutto. Quadri, sculture e canzoni non servono a nulla, l'architettura invece serve sempre a qualcosa. Questo fatto è così enorme che, alla fine, lo si trascura. E non si considera che l'utilitas ne intride ogni fibra, al punto da farci dubitare fortemente che un'architettura concepita per non servire a nulla possa ancora essere definita sensatamente architettura.

Quando Libeskind scrive "architecture is a comunicative art. All too often, however architecture, is seen as mute" non si sa se ridere o piangere e si finisce per fare ambedue le cose come i matti. Ma alle parole seguono i fatti e così dobbiamo prender atto di come queste superstar del circo mediatico hanno ridotto, a suon di frustate, l'architettura ad un fenomeno da baraccone, come il cavallo calcolatore e la foca parlante. Non esiste nulla di più ciarliero e comunicativo di ciò che loro spacciano per architettura: essa non fa che cicalare. Viene in mente Albert Caraco: "Sarebbe forse di moda la parola "comunicazione" se la comunione non fosse problematica? In verità siamo una miriade di solitudini eppure vaghiamo confusi, in preda a ciò che, mescolandoci, non cessa di isolarci". Purtroppo, senza comunione non c'è architettura, si dà solo quella scenografia che oggi ne ha preso il posto. "Non pensare al tetto, ma alla pioggia e alla neve" questa era l'esortazione di Loos, e mai esortato fu meno sollecito nell'eseguire. Oggi l'architetto non solo non pensa alla pioggia e alla neve, ma se ne infischia abbondantemente pure del tetto: l'unica cosa di cui si occupa con affettuosa sollecitudine è la sua autobiografia. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, non si costruisce più: si confeziona lingerie per le sfilate di moda, atteggiandosi ad Artisti e a Liberi Creatori. L'architetto, però, è la negazione vivente della "volontà d'arte" egli fa quello che può, quando può, come può e dove può mai quel che vuole, quando vuole, come vuole e dove vuole. Fare l'architetto non consiste in altro che nel selezionare impossibilità. Per questo occorre diffidare degli architetti presso i quali il dire e il fare coincidono: o non sanno quello che dicono oppure non sanno quello che fanno. In Italia ci si è specializzati, nel corso dei passati decenni, nella seconda tipologia. Oggi, in tutto il pianeta, la prima ha ormai sbancato il croupier.

Ugo Rosa
u.rosa@awn.it
[20apr2005]

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