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Abitare

Giancarlo De Carlo



Si è conclusa il 18 settembre scorso la grande mostra monografica su Giancarlo De Carlo voluta dalla DARC presso il MAXXI di Roma. La scomparsa dell'architetto pochi giorni dopo l'inaugurazione ha fatto assumere all'iniziativa, involontariamente, il carattere di una retrospettiva. ARCH'IT presenta oggi alcuni estratti dalle riflessioni di De Carlo intorno ai temi individuati per la mostra Le ragioni dell'architettura, una nota sull'esposizione romana a cura di Laura Masiero e affida alle parole di Alessandro D'Onofrio (progettista con Enrico Di Munno dell'allestimento) un ricordo dell'architetto e del lavoro svolto in rapporto alle fasi di preparazione della mostra.



 
Io mi sono formato in un periodo in cui l'abitazione era il problema chiave dell'architettura. Tutti gli architetti che avevo conosciuto si dedicavano a studiarla. Un poco perché era l'unico argomento possibile in quel momento, i finanziamenti pubblici erano concentrati sull'abitazione anche a discapito di edifici pubblici importanti o servizi.
Bisogna dire anche che esisteva una ragione per questo; c'era una gran penuria di abitazioni, era scoppiata la guerra, c'erano stati tanti sfollati, ma una delle ragioni fondamentali era l'inurbamento formidabile e la campagna che stava per essere abbandonata. O lo era già stata in molti posti. Stavamo per passare dalla civiltà agricola alla civiltà urbana o, direi oggi, addirittura territoriale. Allora non si era consapevoli; tutti questi stravolgimenti non erano ancora stati esaminati da un punto di vista teorico, però la dimensione degli avvenimenti, il loro peso, influiva sulla formazione di un'ideologia.
Gli architetti hanno quasi sempre avuto bisogno di dare una veste ideologica ai loro obiettivi. E così il problema dell'abitazione è stato rivestito di una sacralità che lo ha reso non soltanto un modo per gli architetti di essere presenti sulla scena della costruzione, ma anche di dar loro la possibilità di identificarsi in un ruolo; ricostruendo l'abitazione a grande scala avrebbero avuto la possibilità di avere un ruolo importante. Ricostruivano la città. Cioè ricostruivano il mondo.

Si è visto, dopo tanti anni che il fiore degli architetti -europei soprattutto- si era dedicato a questo impegno, che: primo, le abitazioni non erano mai abbastanza; secondo, e questo forse è il punto più gravido di conseguenze, che allo scopo di produrre più abitazioni si sacrificava uno dei compiti fondamentali dell'architettura, che era quello di fare l'ambiente, il paesaggio. Prima della grande fuga sull'abitazione si progettava per paesaggi, non si progettava per blocchi edilizi, pieni e vuoti. La città preindustriale è una città tutta progettata per paesaggi. Hausmann, con molta intelligenza aveva già cercato di risolvere questo problema. Ha cercato di fare delle abitazioni che fossero belle, comode, confortevoli in rapporto agli standard; nello stesso tempo che si potessero produrre in grande numero, con afflusso di capitali, perché concedendo a chi possedeva i terreni, di costruire in anticipo, di costruire speculando -come del resto è sempre accaduto con l'architettura– si riusciva ad ottenere un buon livello. Dove invece si pensava, come è successo in Germania nel dopoguerra ad esempio, che l'abitazione dovesse essere una produzione prevalentemente di Stato e quindi che i fondi dovessero venire dal patrimonio statale, o da industrie a partecipazione statale, si è precipitati in uno standard di costruzioni piuttosto limitato. In Italia si è avuto uno standard intermedio per un certo tempo; le abitazioni costruite dalle case popolari sono decenti, prevaleva qui una cultura non solo socialista, ma anche umanista, che quindi ha mitigato un po' l'idea che la casa fosse soltanto uno strumento crudo; ma pochi anni dopo le cose sono cambiate, le abitazioni sono state viste nell'ambito dell'estetica di un edificio, cioè per blocchi, poi i blocchi sono cresciuti e quindi la loro capacità di svolgere un discorso che comprendeva tutte le possibilità dell'architettura -che sono anche quella di generare un ambiente gradevole per la collettività- sono state trascurate.

Io invece, in questa battaglia ho avuto un momento di dedizione e di entusiasmo molto forte, però abbastanza presto, forse dal secondo progetto che ho realizzato, ho cercato anche di trovare un modo di rendere più umana la presenza di un edificio per abitazioni nel territorio. Ho cominciato a rifiutare sia l'idea di "macchina per abitare", Le Corbusier è stato spesso frainteso, sia respingevo l'idea di "alloggio popolare", un concetto, secondo me, che introduceva una definizione classista in contraddizione con le sue stesse premesse. Dare a tutti un'abitazione significava dare a tutti un'abitazione eguale, non tanto nel livello economico ma anche nella dignità estetica. Una questione sulla quale bisognerebbe forse riflettere con attenzione.
L'idea di abitazione come idolo, la credenza che l'abitazione sia un puro fatto economico non ha demolito da un lato l'idea di città? Ancora peggio, non ha forse incrementato enormemente il culto dell'automobile?
Essiccato l'idea di città...oggi si comprano le case, gli alloggi, senza neanche andarli a visitare. Si dice che sono vicini alla metropolitana, al massimo e poi, se per caso si va a visitarli, si guarda com'è l'atrio delle scale... la forza rappresentativa è stata estirpata dall'abitazioni, dalla casa, non c'è più.
Non dico che sia solo questo il motivo, quello della banalizzazione, della demitizzazione dell'idea di alloggio. Contemporaneamente è crollata la famiglia, i fatti sono sempre un po' intrecciati. La gente non si incontra più nell'alloggio. Va a dormire, va a mangiare, ma non si relaziona più.

Io l'ho potuto riscontrare in questa esperienza di Beirut che ho fatto. Lì invece c'è ancora la voglia di incontrarsi, ma forse perché sono arretrati; io ho cercato nel mio progetto di fomentare la loro arretratezza in questo senso. La gente invece adora ormai –e mitizza– l'idea dell'automobile. La riempie di ninnoli, la cura come se fosse un bambino, si precipita a vedere qual è l'ultimo modello. Questo vuol dire che la macchina è stata caricata di valori rappresentativi che fino a pochi anni fa erano concentrati nell'alloggio. Questa secondo me è una perdita secca. Perché i valori rappresentativi concentrati nelle automobili sono fatui, non sono duraturi, sono individuali, individualisti, sono egoisti e non hanno più nessuna delle possibilità che invece in qualche modo l'alloggio forniva. Allora secondo me la seconda fase di questa battaglia per l'alloggio si può svolgere su due piani differenti.
Il primo è spendere più soldi per le abitazioni. La gente ha diritto ad avere l'alloggio, ma non quello della cucina di Francoforte, dove si faceva la frittata in pochi secondi, ma quello che ti dà la possibilità di sentirti in un ambiente collettivo ricco. Quello che ti dà la possibilità di pensare che tu, col tuo alloggio... che è dentro la tua casa... contribuisci all'arricchimento del paesaggio. Quindi spendere di più.
Il secondo punto è di ricaricare di valori che colpiscono la collettività, che le danno il senso di essere una espressione significativa... cioè smettere di pensare agli edifici di abitazione, ai quartieri di abitazione come dei sottoprodotti urbani.
Bisogna sforzarsi di vederli come componenti della città in grado di migliorare i suoi standard.

La terza cosa è prepararci al fatto che presto esisteranno solo città multietniche e quindi l'abitazione deve garantire si una frittata veloce, ma anche la possibilità di poter cucinare un kebab, il cuscus, o i vermicelli. Bisogna creare le premesse per un modo di abitare "estroverso", la definizione dell'alloggio deve diventare molto più flessibile, e molto più adattabile.



[01nov2005]
TRA CITTÀ E TERRITORIO. Quella tra città e territorio è una conquista che il mio pensiero ha fatto alcuni anni fa. Avevo lavorato a Siena sul progetto di San Miniato, ai margini della città storica, un margine che avevo contribuito anch'io a formare con un mio progetto. Il quartiere da me realizzato aveva alcuni pregi, ma anche alcuni difetti.
Un difetto fondamentale è di averlo pensato come un fatto a se stante, come una conseguenza di altre cose. L'antica equazione del Movimento Moderno tornava dopo che io l'avevo sottoposta a critica piuttosto stringata, cioè alloggio uguale edificio. Il quartiere, la città, il territorio. In quest'ordine. Il territorio diventava il risultato quasi, di un esercizio sulla qualità che veniva fatto a partire dal quartiere.
Mi sono accorto che era esattamente il contrario. Per due motivi.
Prima di tutto perché il territorio ha già della grandissime qualità. E poi perché il territorio è la matrice di ogni cosa. Non esiste niente che non sia generato dal territorio e se non stabilisce delle relazioni immediate con il territorio.

Questo demolisce una serie di idee mica male... per esempio l'idea del quartiere... che cretinata è il quartiere? Si vuol fare delle piccole città per conto loro, autosufficienti, è un disastro... lo sappiamo lo abbiamo visto, è un disastro...
Un quartiere autosufficiente come un handicappato, che sta in carrozzella, non è autonomo perché non c'è niente che sia sufficiente nell'organizzazione dello spazio. I vantaggi che dà l'organizzazione dello spazio devono essere scoperti continuamente, di volta in volta... Allora mi sono dedicato al territorio, ho scritto una serie di articoli e ho fatto un piano, il secondo piano di Urbino, il cui titolo è, tanto per intenderci, "rovesciare il cannocchiale"... cioè mentre prima lo abbiamo guardato di qua adesso lo guardiamo di là, si parte dal territorio e ci si avvicina. Tra l'altro si parte dal più grande e si arriva al più piccolo e poi si torna indietro. Nel piano di Urbino si hanno questi movimenti congiunti, che si spostano, cioè se ci si occupa di territorio non ci si può occupare di un pezzettino, bisogna occuparsi di insiemi abbastanza grandi...
La progettazione del territorio è una progettazione per paesaggi, non è per blocchi. I blocchi vengono dopo eventualmente, se si può bisognerebbe farne a meno.

Allora ci si avvicina a una serie di problemi che tormentano la nostra epoca.
Uno è quello dell'ecologia. L'ecologia deve essere qualcosa compresa nell'architettura, perché altrimenti l'ecologia vuol dire riparare i danni fatti dall'architettura; si ammette che si compiano i danni. Se chi progetta è un buon architetto non commette dei crimini ecologici, li risolve, sa bene che cosa è dannoso per il paesaggio e che cosa invece è fertile. Allora non si commettono più errori, si parte dall'alto e si comincia a vedere cos'è il paesaggio, l'ecologia compresa, come sia concepibile la socialità. Quando mai c'è stata una teoria dell'architettura che pensava di andare contro gli esseri umani? Non ne conosco...
L'architettura è fatta per gli esseri umani e anche se lo si vuole negare non lo si può fare; l'architettura diventa architettura nel momento in cui ci sono dentro degli esseri umani. Uno spazio non diventa mai un luogo finché non ci sono degli esseri umani che lo esperiscono, che lo cambiano, che lo modificano.

Seguendo questi ovvi principi -io non ho scoperto niente– si arriva a una concezione dell'architettura e cioè dell'organizzazione della forma dello spazio, correlata alla realtà del materiale sul quale si lavora... e la realtà principale, non lo possiamo negare, è il territorio; non solo per la sua dimensione, ma perché è da lì che si genera tutto, le città sono punti di coagulazione degli interessi umani sul territorio. Il territorio suggerisce come risolvere questi punti di coagulazione. Nessuno che volesse difendersi dai nemici che lo attaccavano ha mai fatto una città in pianura... l'ha fatta dove c'erano alture, dove c'erano fiumi che potevano delimitare il territorio, ma anche dargli degli appoggi per la sua difesa.
Per me queste sono state grandi rivoluzioni, non lo so per gli altri, ma per me lo sono state...
Cioè ho sottoposto, continuo a sottoporre, la mia ricerca ad una costante critica, anzi si può dire che in questo momento sono impegnato in un lavoro revisionista.



  MISURARSI CON LA STORIA. Anche lì la mia eredità originale è nel movimento moderno, e si sa che gli architetti,ma anche gli artisti del movimento moderno odiavano la storia. Gropius era arrivato ad abolirla dai programmi di insegnamento della Bauhaus. Qualcuno potrebbe dire "ma che ignorante..." ma non è così...
Molte cose del movimento moderno vanno viste in rapporto alla situazione che c'era allora, molte cose erano una reazione quasi obbligata. La storia veniva sbrodolata dagli accademici, la pennellavano su qualunque portata facessero, tutto veniva giustificato dalla storia.
È una cosa che sta di nuovo avvenendo... il discorso sulla storia è ridiventato appiccicoso e equivoco, quasi come era una volta. Il nostro Sgarbi ha dato un forte contributo a questa contraffazione della storia.
Io però avevo la storia nel sangue e non potevo accettare che la si eliminasse. Non se ne può fare a meno perché è una relazione con l'ambiente nel quale si opera. Come si fa a costruire una casa a Baveno senza pensare qual è la tradizione storica dell'abitare a Baveno. Certo non deve essere una trasposizione piatta e pedante, il processo dell'architettura è un processo inclusivo deve includere tutto quello che viene dall'innovazione ma non può escludere quello che viene invece della tradizione culturale, deve anzi cercare di metterle insieme.

Ci sono tracce dello svolgimento di questo mio pensiero, già quando ero presidente dell'MSA; era un'epoca fortunata in cui almeno una volta alla settimana gli architetti si riunivano per discutere temi e erano i migliori architetti di Milano. Ho fatto un seminario sulla tradizione in architettura, concetto aborrito in quel periodo... Si discusse e vennero fuori delle cose molto interessanti; si capì che la tradizione non era da abolire ma da studiare. La tradizione era un crogiuolo di fatti e di pensieri che si erano accumulati e che potevano suscitare degli spunti straordinari per chi voleva inserirsi nella realtà della gente.
Nel progetto di Beirut -ma questo l'ho fatto per quasi tutti i miei progetti- mi sono molto preoccupato che il mio intervento venisse capito dalla gente; un'architettura se non viene capita dalle persone non entra nel contesto, non significa nulla, ha delle enormi difficoltà ad essere condivisa, amata.
Farsi capire è molto importante... cioè non si può parlare con un linguaggio incomprensibile, anche se pregiato, anche se colto. Perché non sa farsi ascoltare, non influenza nessuno.

Cosa deve fare allora l'architetto? In un dialogo sottile, che compie dentro se stesso, tra tradizione e innovazione, tra quello che c'è di nuovo e non è mai stato visto oppure spiegato e quello che invece è sempre esistito, che ha sedimentato i suoi valori, deve formare un nuovo linguaggio, che ha la possibilità di essere capito.
Nelle mie sedute tempestose di partecipazione sul problema degli alloggi, che sono soprattutto avvenute a Burano-Mazzorbo e a Terni, dedicavo molto tempo a spiegare in che cosa quel linguaggio corrispondeva alla loro cultura, che cosa avevano già visto di quel lessico, anche se era mescolato ad altre cose e rivoluzionato dal contatto con l'innovazione. A Terni, per esempio, capivano anche l'innovazione che tale metodo comportava, questa è la cosa importante. Quando sono arrivato a dire che forse si sarebbero potute fare le pareti in calcestruzzo e che gli abitanti potevano colorarle a loro piacimento c'è stato un momento di perplessità, poi hanno detto "giusto, perché no? Poi ce le coloriamo noi".

Giancarlo De Carlo
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"Giancarlo De Carlo. Le ragioni dell'architettura"
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