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La città negata

Lucio Rosato



PREMESSA. PARLARE DI CITTÀ SIGNIFICA PARLARE DI SPAZIO E TEMPO; DEL RAPPORTO CHE SI VUOLE A TUTTI COSTI RENDERE COMPLESSO E CONFLITTUALE TRA UOMO ARCHITETTURA E NATURA.

Con l'architettura siamo sempre e comunque chiamati a intervenire sul paesaggio e a modificarne i profili e le prospettive, a limitarne o esaltarne gli orizzonti; ma l'intervento dell'uomo sul territorio va necessariamente considerato come qualcosa di naturale, in quanto è esso stesso parte del fenomeno natura; l'uomo modifica per necessità l'intorno adattandolo alle proprie esigenze, materiali e spirituali. Gli architetti dell'antica Grecia sono stati capaci di raggiungere equilibri oggi inimmaginabili modificando comunque il territorio (penso alla costruzioni delle acropoli e dei teatri). Così è stato per i Romani con la costruzione di acquedotti che segnano il paesaggio con razionale funzionalità, applicando tecnologie di una contemporaneità condivisa che dovrebbe portarci a vedere i viadotti delle autostrade non necessariamente come ferite ma come segno dell'attraversamento.

Quella che definiamo MANOMISSIONE DELLA CONFORMAZIONE NATURALE DEL TERRITORIO è ancora, per me, qualcosa di naturale. Penso al mare che modifica continuamente il profilo della costa, lavorando all'accumulazione dei sassi (non sono stati gli artisti francesi del neorealismo a lavorare sull'accumulazione?). L'intervento dell'uomo è ancora un mutamento naturale del paesaggio; più o meno pensato, ragionato, consapevole, o ancora casuale. L'uomo, come l'artista, continua l'opera della natura nella trasformazione. In questo senso l'uomo continua ad essere natura.


Lucio Rosato. Schizzo di studio per il concorso Europan 4 Costruire la città sulla città. Iraklion (Grecia), 1996. Progetto premiato.

La casualità è una componente fondamentale per la ricerca degli equilibri nella trasformazione del territorio che partecipa insieme alla programmazione, quindi alla razionalità, alla costruzione della città; per Renzo Piano la città "è una straordinaria emozione... una città non è mai disegnata, si fa da sola", questo significa vedere nella modificabilità casuale un segno di vitalità che adatta la città a esigenze sempre nuove, inventandone e provocandone immagini e forme di una diversità non programmabile. Considerazioni che mi spingono ad accettare il paesaggio casuale ma pur sempre voluto, vissuto, ricercato in continua mutazione che è la scena reale urbana con la quale come cittadini e come progettisti dobbiamo necessariamente instaurare il dialogo, per arrivare ad apprezzare la città come residuo di una favola mitologica.

Non mi fanno paura i viadotti così come non mi spaventano le metropoli; mi spingo a dire che mi affascinano le immagini fotografiche di Agrigento dove si accusa il contrasto tra la nuova città di speculazione ma anche di vita e le arcaiche memorie della valle dei Templi. Con questo non voglio confondere speculazione e trasformazione. Ho davanti agli occhi un flash televisivo di quello che accadeva a Sarno, in Campania, dove in seguito a forti piogge la montagna di fango riempiva un paese; all'istante ho vissuto l'evento come il manifestarsi di un'opera di Alberto Burri in diretta, e questo ha accentuato la drammaticità della ricezione dell'accaduto. Il ricordo della visita al cretto di Gibellina invade il mio campo visivo mentale, con la percezione nell'attraversamento delle voci assenti che sembravano affiorare nel silenzio cementato. Prima che sia la natura a riportare equilibrio riappropriandosi dei propri spazi con la tragicità degli eventi, cerchiamo di ritrovare il giusto rapporto tra uomo e natura. Tutta l'attenzione ad un'architettura biologica che in questi ultimi anni a ragione dilaga non è sufficiente a chiarire ragionamenti che vanno al di là delle tecniche e dei materiali. Sono sempre di più convinto che il ruolo dell'architetto nel nuovo millennio sarà quello di progettare e costruire i vuoti ricercando e inventando equilibri nuovi capaci di "ridisegnare" il paesaggio, rispettando l'architettura e la natura nella consapevolezza delle proprie autonomie.


Lucio Rosato (con D.Potenza). Schizzo di studio per il concorso nazionale Il lungomare dei Ciclopi. Acicastello, 1997.

L'architettura è natura se nasce dalla necessità dell'uomo di coprirsi ma anche di riconoscersi in un luogo, dalla necessità di affermare, attraverso il racconto di sé, la propria presenza sul territorio. Ricerco il rapporto nel contrasto apparente, più che nella simulazione di un'architettura che si affianca al paesaggio cercandone a tutti i costi, quindi a fatica, la mimesi; sento che dal contrasto possono nascere affascinanti fusioni nel rispetto reciproco di regole e principi che se applicate al progetto potranno disegnare nuovi territori.



SULLA FALSIFICAZIONE DELLA CITTÀ. Un approccio sbagliato al tema della città ha portato come esito la condizione tangibile del degrado in cui questa vive la contemporaneità negata. Siamo di fronte ad una città divisa dove due falsi territori si fronteggiano e si scontrano: da una parte il centro storico delimitato e protetto da pericolosi piani di recupero, dall'altra le nuove periferie affidate ad un caos programmato. Il fatto stesso che si continua a parlare di zone periferiche e di zone centrali è la dimostrazione che non si vuole modificare una tendenza in atto da troppi decenni impostata sui valori di mercato attribuiti. È questa condizione reale della città, ancora in espansione e sempre più volutamente separata dal centro storico, a negare l'essenza stessa di città che ha sempre affidato la sua ragione alla stratificazione che il tempo della vita porta attraverso la modificabilità continua in una trasformazione fortunatamente non sempre programmata.

LA CITTÀ SI È SEMPRE COSTRUITA SU SE STESSA, altrimenti oggi non potremmo godere dei felici connubi di impianti medioevali con palazzi rinascimentali in spazialità barocche. È stato così ancora fino agli anni cinquanta e sessanta del novecento. Poi l'attenzione al formalismo come integrità di un luogo, in nome del recupero e della salvaguardia, ha portato allo stravolgimento delle regole stesse dell'architettura che vedono nella coincidenza tra forma e contenuto la risoluzione del suo manifestarsi facendo perdere definitivamente i diversi equilibri che da sempre si sono consapevolmente e inconsapevolmente ricercati e voluti. Non si tratta di parlare di buona architettura o di cattiva architettura, ma di architettura e di non architettura; così come di città e di città negata. È sempre più difficile, soprattutto in Italia, incontrare l'architettura, spesso questa è destinata a rimanere sulla carta o ad emigrare in paesi più civili; così ci si abitua sempre più alla non architettura tanto da impaurirsi quando ci si discosta da questa per la costruzione della città, tanto da essere disorientati di fronte ad ogni innovazione.

È così che la città lentamente si nega, si deforma diventando inguardabile; la città lascia affiorare la falsificazione della città, con il suo odore di morte; la città morta ci asseconda. La città diventa una maschera di se stessa che non disturba l'occhio dell'imbecille ma ferisce in profondità l'anima degli onesti.

Nel 1958 Ernesto Rogers affermava in: "Gli elementi del fenomeno architettonico" che "conoscere la storia è essenziale per la formazione dell'architetto, dacché egli deve poter inserire la propria opera nelle preesistenze ambientali e tenerne, dialetticamente, conto". Un architetto è sempre chiamato a rapportarsi con il contesto, tanto da poter dire che uno dei principi fondamentali del fare architettura è proprio il rapporto con la preesistenza: ogni nuova architettura, per definirsi tale, si confronta con antichi tracciati, avvistamenti e percorsi della memoria, con allineamenti e angolazioni di luminosità solari e di ombre portate, per rispettarli e modificarli. Ma a distanza di venti anni, nelle scuole di architettura, lo studio della storia è diventato fine a se stesso, occupandosi solo di documenti e ipotesi di datazioni o attribuzioni perdendo così troppo spesso di vista il fine della conoscenza per la formazione al mestiere che dovrebbe portarci a guardare la storia come energia per il presente.


Lucio Rosato. Schizzo di studio per il concorso europeo Nuovi spazi collettivi nella città contemporanea. Salonicco (Grecia), 1997.

L'immobilità urbana programmata, in Italia, ha negato alla città la ragione stessa della sua essenza, ossia la sua trasformazione in funzione della quotidianità e della vita. Oggi nelle nostre città nonostante l'attenzione e il rigore di studi teorici sui centri storici e sul recupero, così come sui nuovi criteri di urbanizzazione, passando per la grande attenzione all'architettura del paesaggio, si attuano piani che portano nel giro di poco tempo alla falsificazione della città. Mi riferisco soprattutto ai piani di recupero per i centri storici che precludono all'interno di un recinto tracciato con violenza sulle cartografie ogni nuovo segno, riducendo il ragionamento sul recupero ad una arida elencazione di vincoli e prescrizioni. È sotto i nostri occhi quello che sta accadendo nei piccoli e grandi centri storici della maggior parte delle regioni italiane dove, spesso anche con la nostra benevola approvazione, lentamente le false pietre si sostituiscono alle vere. Penso drammaticamente all'Umbria, interamente rivestita di pietra bianca e rosa; allo sterminio di un'identità territoriale attraverso nuovi quartieri, capannoni industriali, cimiteri, insediati troppo spesso sul territorio senza regole ma comunque rivestiti di pietra rosa con ricorsi in pietra bianca in nome della continuità con la tradizione "costruttiva" locale.

I piani di recupero portano a paradossi che finiscono per alterare le caratteristiche di un territorio; è quello che accade in molti paesi abruzzesi dove l'attuazione di questo strumento urbanistico ci obbliga ad usare canali e pluviali in rame in sostituzione dei vecchi e tipici, ma anche economici, canali in lamiera zincata verniciata a piombo, come per ogni nuova apertura archetti di mattoni e insensati e anacronistici ferri battuti per ringhiere e inferriate. Le pavimentazioni di mattoni o in porfido, oggi tanto di moda, sostituiscono i semplici massetti in cemento degli anni della ricostruzione o la bella pietra bianca della Maiella tipica di questo territorio, abolendo definitivamente l'accesso dei nuovi materiali nel centro storico. Le lampade in ghisa finto, antico anche in una città come Pescara, sostituiscono gli slanciati e affusolati pali in alluminio autentici originali degli anni Sessanta del novecento. Se impensabile e improponibile si vuole che sia una nuova costruzione, nel centro storico, sotto la voce ristrutturazione è tacitamente permessa anche l'intera demolizione a condizione che della vecchia si ricalchino nella ricostruzione allineamenti, modanature e materiali di finitura a coprire la "vergogna" di una struttura in cemento armato.


Lucio Rosato (con E. Flacco e N. Anzalone). Schizzo di studio per il concorso nazionale Spazi aperti tra i borghi storici e il torrente Morla. Bergamo, 1999. Progetto premiato.

È come un tornare indietro a quando si viveva la contraddizione dell'uso delle nuove tecnologie per costruire grattacieli che venivano poi vestiti come panettoni o eclettiche torri di Babele. Si finisce per dare importanza ad una pietra o casa/cosa del passato, rinunciando definitivamente alla possibilità di modificare, possibilmente migliorando, ma anche semplicemente trasformando, il luogo della quotidianità: in nome della conservazione. Al contempo, però, è permesso di alterare le tipologie e smantellare all'interno di antichi palazzi cappelle e stucchi, demolire volte che spesso supportano affreschi o decori per fare spazio a nuovi solai a misura degli standard minimi ammessi; alterando così completamente i rapporti tra pieni e vuoti nel disegno dei prospetti che finiscono per scimmiottare il vecchio e nobile edificio attraverso una maschera.

Questa paura della realtà, di una contemporaneità dalla quale a tutti i costi rifuggire, nasconde, forse, un complesso di inferiorità nei confronti della storia determinato dall'impotenza intellettuale che vede nell'incapacità immaginativa e progettuale il facile rifugio nel già visto e collaudato. Un'opera nuova nella concezione dello spazio e nel rigore delle forme, come la chiesa di Santa Maria Maggiore a Lanciano, non si sarebbe mai realizzata se anche a quei tempi si fossero aggirati falsi intellettuali timorosi del futuro.


Lucio Rosato (con E. Flacco). Schizzo di studio per il secondo lotto del progetto di ristrutturazione e ampliamento dell'ex istituto attività marinare "Di Marzio" a Pescara, 2005.

Mi spingo ancora oltre: rimpiango gli orribili infissi in alluminio anodizzato che negli anni Sessanta del novecento sono entrati a far parte dell'immagine innovativa e funzionale di chi viveva ancora ostinatamente, per convinzione o più spesso per necessità, il centro storico; rimpiango le saracinesche in lamiera zincata che squarciavano i vecchi muri con travi di cemento precompresse a vista, distruggendo se necessario antiche modanature, troppo spesso anche di pregio. Sto parlando evidentemente per eccesso, ma tutto questo era comunque testimonianza dello sforzo individuale di sopravvivere in un luogo adattando l'inadatto alle nuove esigenze del tempo dell'automobile, alle regole di vita che il potere attraverso la pubblicità dettava, e ancora detta; questa trasformazione del centro storico che all'unanimità abbiamo condannato, oggi sono convinto essere l'ultima testimonianza autentica della presenza, dell'uomo e della vita, all'interno della città storica. Oggi stiamo vivendo una tendenza diametralmente opposta e ancora più eccessiva, a mio avviso molto più pericolosa proprio perché programmata, dettata dal falso principio di una conservazione fine a se stessa che troppo spesso finisce per perdere il senso critico nella valutazione storica, artistica, architettonica, e soprattutto etica. A fronte di tutto quello che accadeva spontaneamente nel tempo del libero arbitrio, è molto più terribile e ripugnante quello che si decide di far accadere oggi in nome della salvaguardia e del recupero.

Tutto questo, insieme agli elevati costi di un restauro specializzato, spinge i vecchi inquilini ad abbandonare le fatiscenti case del centro storico per trasferirsi nei nuovi quartieri dormitorio lasciando spazio ai nuovi ricchi o, come accade nei centri minori dell'entroterra, ai turisti del fine settimana che arrivano dalle città piene di traffico e cemento, ma anche piene di vita, per vivere l'illusione idilliaca e anacronistica di un passato ancora presente; è così che il centro storico diventa il luogo della favola, del sogno, della fiction.



PROVVISORIE CONCLUSIONI. LA CITTÀ DEVE CONTINUARE A COSTRUIRSI SU SE STESSA ancora oggi come sempre è stato nel tempo; una rigenerazione continua, nel pieno rispetto delle preesistenze e della memoria, che non porti le città a morire o a sopravvivere come musei a immagine e somiglianza di un turismo di massa usa e getta ma che le faccia vivere nella contemporaneità al servizio del benessere fisico e morale del cittadino. In questo modo non faremmo altro che riprendere ancora una volta insegnamento dal passato, da un passato lontano e libero da una visione ipocritamente romantica della città, dietro la quale a fatica si nasconde la logica del profitto. Il paradosso è davanti ai nostri occhi nel quotidiano vivere la città e il territorio, nel contrasto sempre più evidente tra una falsa attenzione alla storia e alla memoria della città e l'apparente disattenzione nel modo di costruire e progettare il nuovo: come se la città fosse altrove.

Lucio Rosato
lucio.rosato@tin.it
[18dec2005]
> ARCHITETTURE: ROSATO, FLACCO. MUSEOMARE PESCARA

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