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Il confine tra Israele/Palestina e Giordania. Quattro anni dopo...

Alessandro Petti



Quattro anni fa ho raccontato il viaggio che da Amman mi portò per la prima volta a Betlemme. Un viaggio in cui biografia personale, riflessione politica e analisi spaziale, erano strettamente collegate. Nel corso degli anni ho continuato ad attraversare gli stessi luoghi, li ho frequentati e amati-odiati. Ho imparato a riconoscerli, e ho osservato come si sono trasformati nel tempo. La "macchina del confine", che ho provato raccontare quattro anni fa, nel corso di questi anni è profondamente cambiata. Quello che segue sono alcune note sul suo nuovo funzionamento.

[11aug2006]
Tala, mia figlia, è nata a Betlemme in una bellissima mattina di primavera nel mese di febbraio. Ha visto la luce in un ambulatorio costruito con i fondi del governo giapponese ed è stata assistita da un infermiere palestinese che parlava un perfetto napoletano, dovuto probabilmente al lungo soggiorno di studi a Napoli. Dopo aver trascorso i primi giorni godendoci l'evento, ci siamo trovati davanti al dilemma: come potrà Tala attraversare il confine e uscire dai territori occupati? In che modo funzionerà per lei la macchina di confine avendo il padre italiano e la madre palestinese? Se Tala lascerà Betlemme da "italiana" potrà farvi ritorno solo come turista, se invece lascerà Betlemme da "palestinese", verrà trattata dall'esercito israeliano da palestinese, e cioè non potrà muoversi liberamente nei territori occupati e in Israele.

La macchina di confine è un'architettura interattiva, cambia a seconda della cittadinanza di appartenenza. Il prototipo, forse il più puro, di architettura biopolitica. È più o meno porosa a seconda dell'appartenenza nazionale. Un'architettura che si costruisce e decostruisce a seconda del rapporto che il singolo individuo ha con lo stato, dispositivo di regolazione tra nascita e nazione. Tala, nel suo essere per metà italiana e per metà palestinese mette in crisi l'ordine spaziale e sociale precostituito, mettendo a nudo la finzione dell'appartenenza nazionale e tutte le politiche che da essa seguono. Il solo pensiero di dover affrontare con Tala la macchina di confine con la Giordania, unica via di ingresso e di uscita per i palestinesi nei territori occupati, mi angosciava profondamente. La nudità a cui la frontiera ti costringe fa vacillare qualsiasi certezza di diritto e di esistenza.

Prenotiamo il solito taxi collettivo, Mercedes giallo scassato, unico mezzo che consente ai palestinesi di avvicinarsi alla frontiera con la Giordania. La preoccupazione del viaggio è aumentata dal destino incerto. Ho sentito più di una volta qui le persone lamentarsi non tanto e solo della loro condizione, ma del fatto che non sanno mai quali sono le regole. All'inizio chiedevo sempre, "ci sarà qualcuno che decide cosa si può fare e cosa non si può fare", poi ho scoperto che in realtà che questo vuoto è proprio una forma di governo. Prendiamo le strade ad esempio. Per motivi di sicurezza l'esercito israeliano può decidere di chiudere una determinata strada usata ogni giorno da migliaia di palestinesi. Il blocco viene fatto rispettare con la forza dall'esercito tramite pattugliamenti, posti di blocco e barriere. Anche se dopo qualche mese il posto di blocco viene rimosso, le persone per paura di incontrare soldati ed essere arrestati non utilizzano le strade che diventano così ad uso esclusivo dei coloni israeliani. È questo che rende il governo di Israele nei territori occupati diverso dall'apartheid Sudafricano.

La separazione qui non è imposta volgarmente da segnali come for whites only ma da un sistema molto più sofisticato, che fa in modo che i divieti vengano direttamente introiettati dalle persone. Nelle strade ad uso esclusivo dei coloni non troverete scritto "vietato ai palestinesi, solo per turisti e coloni". Il regime di proibizioni è attuato dall'esercito tramite comandi orali dati dai generali dell'esercito israeliano che controllano una certa parte di territorio. Se un palestinese viene trovato su una strada proibita o in una strada in cui occorre un permesso, rischia l'imprigionamento o la confisca del veicolo. È per questo che i palestinesi per spostarsi da un luogo ad una altro sono costretti ad utilizzare trasporti collettivi, che fanno la staffetta da un check point ad un altro. La macchina di confine non si trova quindi posizionata sulle frontiere statali, ma agisce direttamente sui confini della città e dei villaggi palestinesi. (Il regime delle strade proibite nei territori occupati è descritto lucidamente nel rapporto dell'associazione per i diritti umani israeliana B'tselem "Forbidden Roads. Israel's Discriminatory Road Regime in the West Bank, August 2004" www.btselem.org)

Per poter sperare di attraversare tutti i dispostivi di confine e uscire da territori occupati, partiamo da Betlemme alle 4,30 del mattino, sperando così di poter passare la frontiera con la Giordania aperta solo poche ore nell'arco di una intera giornata. Nei periodi più affollati accade spesso che molte persone rimangono per giorni e giorni a dormire sul confine in attesa di poter passare. Queste persone sono comunque fortunate, perché sono le uniche a cui Israele concede ancora la possibilità di far ritorno alle loro case di origine. Sono circa quattro milioni i palestinesi costretti all'esilio.

Il Mercedes a 8 posti fa il giro delle diverse case per collezionare tutte le persone necessarie a riempire la macchina. Tala per adesso dorme, per fortuna. Attraversiamo il primo check point chiamato il container senza grandi problemi. In macchina sono l'unico occidentale, uno dei pochi occidentali a fare le strade riservate ai palestinesi. Spesso i soldati ai check point mi hanno chiesto: "What are you fucking doing here?" Ed io sempre risposto "Actually, it's a long story"... e loro di solito presi dalla noia mi hanno fatto quasi sempre passare. Arriviamo ad Abu Dis, e immagino già un viaggio fortunato senza troppe rogne, ma mi sbagliavo. Ecco un check point volante. Ci fermano e ci dicono che di qui non si passa. Le persone in macchina iniziano ad agitarsi ed urlare, mostrando ai soldati i biglietti per aerei che partono da Amman. I soldati non ne vogliono sapere. Discutere non serve a nulla. Il tassista nervoso e scocciato gira la macchina, e dopo pochi metri si butta in una stradina di campagna. Tala si sveglia, la macchina ondeggia un po' troppo per essere scambiata per una dolce cullata. Stringo più che posso il suo seggiolino verso il mio petto. Tagliamo attraverso un bellissimo campo di olivi secolari. Dopo poco, siamo di nuovo sulla strada principale, con il check point alle nostre spalle, e i soldati che sorridono. La strada inizia a scendere, e sui finestrini appare il solito paesaggio straordinario, le colline del Mar Morto, abitate da colonie e villaggi di beduini. E il mio pensiero va alla città nomade disegnata Constant. Penso che la sua dimensione tragica, così poco discussa, qui trova la sua reale rappresentazione. La visione di un mondo al collasso, in costante conflitto, non tanto tra nomadi e sedentari, ma tra diverse concezioni di nomadismo. Guardo fuori dal finestrino e riconosco gli accampamenti e i nuovi ampliamente delle colonie. Preso dai miei pensieri non mi accorgo che il taxi invece di puntare dritto al confine con la Giordania, devia ed entra a Gerico. Ed eccomi arrivato davanti alla mutazione della frontiera che ho attraversato quattro anni fa.

La prima volta che arrivai dalla Giordania, incontrai rispettivamente, prima la polizia giordana e poi quella israeliana coadiuvata da una piccola cellula di polizia palestinese. Adesso, i palestinesi sono stati allontanati dal confine, e in un piccolo pezzo di terra di 50 metri per 150 hanno allestito un simulacro di frontiera di uno stato che non esiste. C'è una sbarra davanti alla macchina, scendiamo dal taxi e saliamo su un autobus che si ferma dopo pochi metri. Entrano poliziotti palestinesi che controllano documenti e bagagli. L'autobus riparte e si ferma di nuovo solo dopo pochi metri. Ci fanno scendere: riprendiamo le valige quasi nello stesso punto dove siamo entrati. Il confine palestinese è come una stazione di servizio, si entra e si esce nella stessa strada, non porta in nessun altro luogo. Mi sento attraversare da un senso di tristezza infinita. L'idea di sovranità palestinese qui sembra trovare la sua definitiva fine. Una sovranità esercitata su un fazzoletto di terra di 50m per 150m, al cui interno sono messi in scena tutti i passaggi di un vero confine che però non porta da nessuna parte. Il vero confine è a 50 km di distanza.

Sono stupefatto dal vedere poliziotti e persone che recitano diligentemente la loro parte in questo teatrino. Tutti sanno che si tratta di una finzione, ma nessuno protesta. Di nuovo sull'autobus ripartiamo per il vero confine, in cui questa volta ci sono solo israeliani. Qui, ci sarei potuto arrivare con un taxi da solo. Sandi e Tala essendo palestinesi dovevano necessariamente entrare nel teatrino del confine palestinese. Questo viaggio, da Betlemme ad Amman, di appena 200 km dura normalmente più di otto ore, adesso con l'aggiunta del teatrino-confine vengo preso dallo sconforto. Immagino che un verrà giorno in cui le persone scenderanno dai loro autobus scassati, dalle macchine collettive piene di caldo e persone, e con un espressione rassegnata ma serena diranno rivolti agli israeliani: "Basta avete vinto. Il sogno di uno stato palestinese coltivato per così tanti non può essere questo. Non vogliamo un simulacro di stato, un simulacro di confine, vogliamo semplicemente avere i vostri stessi diritti: muoverci e vivere liberamente. Rinunciamo al nostro stato, adesso a voi la scelta, o un unico stato, oppure un regime di apartheid in cui israeliani e palestinesi non godono degli stessi diritti sulla stessa terra.

Riprendiamo il nostro viaggio questa volta verso il vero confine. Dopo ore di attesa per entrare nella zona di frontiera, ecco che arriva il momento di mostrare i nostri documenti. Molti occidentali con passaporti privilegiati non capiscono l'angoscia legata al mostrare il proprio passaporto sapendo di poter essere rispediti indietro. Il documento di viaggio palestinese è ancora una volta la rappresentazione parossistica di questo dispositivo di controllo. Non un passaporto, ma un documento di viaggio. Ho visto più volte in aeroporto poliziotti sgranare gli occhi e chiedere, e questo cos'è? Un documento di viaggio in cui non è scritta neanche la nazionalità. Chi l'ha concepito non ha avuto il coraggio di scrivere sotto la dicitura nazionalità la parola palestinese. La parola palestinese sta diventando come la parola ebreo, molti sono spaventati solo dal pronunciarla. Cattiva coscienza. Tala pur essendo "scritta" nel mio passaporto, è considerata dagli israeliani palestinese, quindi deve fare un percorso diverso dal mio, lo stesso che deve fare Sandi. Non protesto, dico solo al soldato israeliano di farmi andare insieme con loro, nel percorso riservato ai palestinesi, chiedo di rinunciare ai miei privilegi da occidentale, aria condizionata, pulizia e bibite fredde, e di seguire la mia famiglia negli affollati edifici e percorsi predisposti per i palestinesi. Il soldato mi dice che non è possibile, che io devo seguire il flusso predisposto per i turisti.

Ecco le domande che ricordo che mi vennero in mente: quanto, accettando questo trattamento, mi rendo corresponsabile di questa follia? Perché le mie letture non mi soccorrono per non farmi impazzire dalla rabbia? E penso a tutti quei ciccioni che in TV in Italia si riempiono la bocca di Israele-Palestina senza esserci mai stati... Per non disumanizzare i soldati che mi stanno davanti penso che dentro le divise e dietro il fucile possono esserci Nadav, Eyal, Ravit, Runit, e molti tanti altri dei miei amici israeliani. Strumenti che permettono alla macchina di funzionare. Per dirla alla Said, vittima delle vittime. Forse. Ricordo solo che soccombo, e inebetito vedo allontanarsi da me Sandi e Tala verso i percorsi predisposti per l'uso esclusivo dei palestinesi. Entro nel mio reparto per non-palestinesi. Aria condizionata e uomini in calzoncini corti. Mi vergogno di aver consentito che tutto ciò accadesse. Io qui con i turisti e loro lì a sperare di poter passare. Inebetito obbedisco ai loro ordini, paga qui, apri qua, alza qui, vai lì, scendi, sali, siediti... Dopo un paio d'ore passo il ponte, sono in Giordania. Cerco, subito l'uscita per i palestinesi, ma non è facile trovarla. Tutto l'edificio è costruito in modo che i flussi tra palestinesi e non palestinesi non si incontrino mai, meglio dei percorsi separati di un ospedale che dividono i malati dai sani. Cerco affannosamente tra i pigri poliziotti giordani e i sudati turisti la porta che connette la parte per non-palestinesi alla parte per palestinesi. La trovo, e prima di aprirla mi sento come Jim Carry, quando in The Truman Show scopre la porta, nascosta nel grande dipinto cielo blu, e che forse lo porterà alla vita reale.

Alessandro Petti
alepetti@statelessnation.org
> SOPRALLUOGHI: PETTI. SUL CONFINE...

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