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Sopralluoghi

Sul confine tra Giordania e Israele/Palestina

Alessandro Petti



Arriviamo ad Amman in Giordania nel cuore della notte. Lungo la strada che ci porta verso casa, insegne luminose ruotano nel buio del deserto illuminando casualmente la terra arsa dal sole. In lontananza luci per club esclusivi. Il mattino ci svegliamo molto presto, davanti a noi si stende una dura giornata di attese e di sole.

[18aug2002]
Per arrivare in Palestina con Sandi mia moglie, e i suoi genitori Anwar e Monira (tutti e tre con passaporto palestinese), ho scelto di non arrivare comodamente da Tel Aviv, ingresso off limits per i palestinesi, ma di attraversare con loro il confine che i giordani chiamano Re Hussein bridge e gli israeliani Allenby. Ci sono tre luoghi in cui è possibile attraversare il confine tra la Giordania e la Palestina, Allenby/Re Hussein bridge è quello più vicino a Gerusalemme. È situato nel punto più basso della terra alla stessa altezza del Mar Morto. Durante il tragitto che ci porta verso il confine il caldo aumenta e la pressione diminuisce, le orecchie e il sudore provano a compensare. Il taxi che si avventura in questa terra disabitata è un vecchio Mercedes con una decina di posti, pronto a qualsiasi percorso. Eccoci sul confine dalla parte giordana.


Confine giordano.

Non parliamo molto, scendo dalla macchina, Sandi la madre e il padre proseguono poco metri più in là, nell'ingresso riservato ai palestinesi. Mi ritrovo da solo, le difese si alzano naturalmente e sto più attento. Un ragazzo mi prende il bagaglio, lo seguo di riflesso, non saprei dove altro andare, non c'è nessuna indicazione per me comprensibile, nessuno spazio che sia in grado di riconoscere. Il ragazzo ha all'incirca diciotto anni, mi porta davanti ad un rullo su cui poggia le valigie. Si gira verso di me, mi guarda, e io gli do qualche dinar. Capisco in qualche modo la mia prossima meta. Sono delle sedute che riposano all'ombra di questo spietato sole d'agosto. Mi siedo e mi guardo intorno, ma una voce alle mie spalle richiama la mia attenzione. Mi dirigo verso di lei e mostro il passaporto. Tutto OK. Dopo 5 minuti sono già in autobus dentro la terra di nessuno. Nastro d'asfalto, bordi recintati. Cartelli che indicano campi minati. Più avanti il check point israeliano. Due giovani ragazzi in tuta mimetica e mitra ci fanno scendere dall'autobus per controllarlo da cima a fondo. Poco dopo risaliamo sull'autobus ma solo per pochi metri. Altro check point. La bandiera di Israele sventola sull'unica collina in quest'arida pianura. Fermi per mezz'ora. Non so per quale motivo e nell'attesa di cosa. Improvvisamente una sbarra si alza noi proseguiamo e arriviamo dall'altra parte nel confine israeliano. Davanti ai nostri occhi si stende un verde paranoico: aiuole e palme. Welcome to Israel. Da Calcutta a Miami in soli 4 km.

Il confine non è una linea. È uno spazio con uno spessore. I materiali di cui è costituito sono gli stessi che esistono nelle città ma vengono utilizzati per scopi diversi. Ad esempio un muro di sostegno in cemento armato è utilizzato come sbarramento. All'interno del confine ci sono poche regole, ma fondamentali. Tutti i flussi sono rigorosamente sotto controllo. La frontiera è una macchina che decompone tutto quello che lo attraversa in singoli catalogabili elementi, per poi ricomporli alla bene e meglio alla sua uscita. Questo vale non solo per gli oggetti ma anche per le persone che lo attraversano.



Ad accogliermi una volta sceso dall'autobus sono ragazzi soldato dall'aspetto da teen-ager americani, calzoni scesi e maglietta larga. Mi avvicina una ragazza e mi chiede "Dove sei diretto?" Io rispondo "Vorrei visitare la Palestina e Israele" Lei risponde "Cosa?! Vorrai dire Israele, la Palestina non esiste almeno fino ad oggi. Prego, vieni con me". Cerco di farle notare che esiste più di una risoluzione dell'ONU che chiede ad Israele di ritirarsi dai territori occupati, ma pare non importarle proprio nulla, anzi mi guarda con aria di sfida. Mi fanno uscire dalla fila dei normali. Mi siedo in attesa della sicurezza. Un'altra ragazza soldato si avvicina e inizia a farmi delle domande, su dove sono diretto, da chi, quando tornerò indietro e dov'è il mio bagaglio. Le stesse domande riformulate per mezz'ora. Finito l'interrogatorio entro con un bel giovane israeliano in uno spogliatoio. Molto gentilmente mi chiede di spogliarmi. Mi controlla ogni cosa. Esce e porta via le mie scarpe. Mi ritrovo scalzo al punto di partenza. Sono già passate due ore da quando sono arrivato sul confine, e mi chiedo fino a quando dovrò rimanere qui.

Mi fanno entrare in un'altra stanza e mi chiedono di aprire le valigie che sono su tavoli di acciaio stile macellaio, facili da pulire. Aspetto seduto che ogni singolo oggetto sia aperto a controllato. A dire la verità mi ero preparato a questo trattamento, quindi resisto bene, anche quando mi dicono che posso rimettere la mia roba vivisezionata nella valigia: è la stessa sensazione di chi tornando a casa si accorge che un ladro è stato a fargli visita. Ci si sente violati, i vestiti sporchi, l'agenda aperta, tutto toccato da altre mani, mani che non si conoscono. Cerco di non perdere la mia umanità, e con molta calma e dignità ripiego tutto come prima di una partenza da un Grand Hotel. Quasi come provocazione rallento i gesti, cercando di essere il più elegante possibile nel laboratorio di vivisezione in cui mi hanno portato. Questo trattamento è riservato, oltre ovviamente ai palestinesi, a tutti coloro che in qualche modo hanno contatti con palestinesi.

I miei vestiti sono di nuovo in valigia. Penso di aver finito, ma dov'è il mio passaporto? Sostengono che devo ritirarlo in un ufficio vicino all'uscita. Lì mi chiedono di riempire l'ennesimo modulo e mi riformulano le ennesime domande. Quattro ore per attraversare il confine. Il confine non è una linea, non lo si supera con un passo.

Usciti dalla frontiera il caldo mi stringe la gola e la luce mi abbaglia gli occhi. Contrattiamo con un taxista sulla nostra meta e sul prezzo per raggiungerla. La discussione si prolunga più del previsto, ci sono problemi per arrivare a Betlemme. Per giungere Betlemme dobbiamo passare per Gerusalemme, questa in teoria sarebbe la via più semplice ma i palestinesi non possono andare a Gerusalemme. Il taxista non vuole tentare la fortuna per le strade di campagna, potrebbero esserci dei posti di blocco. Ci si accorda per una staffetta, il primo taxi ci porterà fino ai bordi di Gerusalemme, poi da li dobbiamo cambiare taxi.

Sulla strada che ci porta a Gerusalemme incontriamo insediamenti di coloni e tende di beduini. Due modi opposti di usare il territorio, l'uno stanziale l'atro nomade. Gli insediamenti hanno muri di recinzione scavati nel terreno, i beduini tende che si appoggiano sulla terra. Stanzialità contro nomadismo. Confini controllati contro libertà di movimento.


Accampamento di beduini.


Insediamento di coloni israeliani in costruzione nei territori occupati.

Arriviamo alla periferia di Gerusalemme alle 14.30. Alle 15.00 c'è il coprifuoco, dobbiamo sbrigarci. Un nuovo check point. Scendiamo dal taxi in mezzo alla fila di macchine che si accatastano l'una sull'altra. Saliamo su un altro taxi che torna indietro per un breve pezzo di strada. A questo punto sono preda dello sconforto e penso che non arriveremo mai. Ma ecco il genio dell'autorganizzazione che anche nelle situazione più tragiche si manifesta. All'istituzione di un nuovo posto di blocco da parte degli israeliani i taxisti palestinesi reagiscono pianificando una nuova strada per aggirarlo. Fanno una colletta e pagano l'affitto di un trattore che spiana appena qualche centinaio di metri prima del posto di blocco una nuova strada che riesce ad aggirare il check point. I soldati lo sanno. Ma queste sono le deliranti regole del gioco e i palestinesi non possono sottrarvisi.



Il tassista che ci accompagna è un profugo, rischia una multa che non potrebbe mai pagare e l'arresto, ma cosa gli importa? Questo è l'unico modo che ha per vivere. Dopo un percorso tortuoso arriviamo finalmente alle porte di Betlemme. Anwar mi descrive i luoghi che scorrono sui finestrini, cercando di riportarci all'atmosfera di una visita turistica piuttosto che di una fuga. Scesi dalla macchina siamo accolti da tutta la famiglia in festa. Nel cortile di casa festeggiamo con balli e canti il matrimonio celebrato a Roma tra me e Sandi poche settimane fa. Il mio pensiero per un attimo va ai cortili italiani, illuminati dal blu dei telegiornali che ogni anno mandano in onda le solite notizie sull'esodo e controesodo d'agosto e del solito mal tempo che rovina le vacanze.

Betlemme, Palestina, 3 agosto 2002

Alessandro Petti
alessandro.petti@tin.it
 
> SOPRALLUOGHI: BORDIERI. CONFINI
 
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