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Sopralluoghi

Confini

Alessandra Bordieri



Il confine israeliano ha uno spessore che si estende nello spazio e nel tempo, un confine che si dilata oltre lo spazio fisico del territorio. Anche per chi arriva in aereo atterrando a Tel Aviv, l'attraversamento della frontiera è un'esperienza lunga che inizia addirittura prima di salire sull'aereo. Da qualsiasi aeroporto si parta, Milano Malpensa, Roma, Zurigo o New York, l'imbarco su un volo El-Al, la compagnia di bandiera israeliana, è già una frontiera. E non c'è differenza di passaporti in questo caso, europei e israeliani passano lo stesso confine.

Prima di salire sull'aereo si passa la sicurezza: "Dove va? Dove starà in Israele? Perché ci va? C'è già stata?"… Vado a Raanana e poi a Gerusalemme, starò da amici, vado a trovarli, sì sono già stata in Israele diverse volte… Le valigie le ho fatte io e nessuno mi ha dato nulla da portare, non ho armi, "Allora stai dai tuoi amici, e come si chiamano? Il loro indirizzo? E conosci qualcun altro in Israele, posso aprire la tua valigia?"… Si ho dei cugini, andrò anche da loro… un turbinio di domande e di risposte, che ritornano e si ripresentano sotto forme diverse, l'unico modo per capire se stai mentendo e se hai qualcosa da nascondere. Sono i primi passi verso un Paese dove la terra è una necessità assoluta, da difendere anche oltre confine. I primi passi possono durare cinque minuti o un'ora. Ma nulla stordisce in questa esperienza, non gli agenti che chiedono tre volte il nome degli amici, non quelli che controllano la valigia, nemmeno il passaggio sotto il metal detector o i ripetuti controlli via computer per vedere se il passaporto è segnalato. La prima frontiera è trascorsa, la valigia si avvia su un nastro trasportatore dove sarà ulteriormente controllata.

L'arrivo a Tel Aviv è più faticoso, il caldo e l'umidità si sentono forti già sulla pista dell'aeroporto, anche in piena notte. Appena sbarcati c'è un'altra fila da fare per mostrare il passaporto, altri controlli sul computer per verificare l'identità, altre domande a cui rispondere, ma alla fine si riesce a uscire e a entrare in Israele: "welcome to Middle East".

L'aeroporto di Ben Gurion è pieno di persone e animato a qualsiasi ora del giorno e della notte, non chiude mai e c'è sempre gente che aspetta un amico o un parente che viene da lontano, qualcuno attende di partire, qualcuno mangia cibi dai sapori e dai colori mediorientali, altri parlano al telefono, qualcuno gioca a backgammon, seduto per terra in attesa di chissà che cosa. Rumori, suoni, odori, alcuni familiari come i trilli dei telefonini, altri nuovi, i suoni delle lingue semitiche, tutti mescolati insieme accompagnano verso l'uscita. Prendere il taxi è come fare la spesa, bisogna recuperare un numero e dire prima la destinazione. Da qui le possibilità sono due, o dirigersi verso Gerusalemme o scendere verso la costa e arrivare a Tel Aviv.

La seconda strada di notte è più interessante, è una sorta di freeway dalle dimensioni americane, per un paese che ha una superficie territoriale di 21 mila kmq circa (dopo l'armistizio con i paesi arabi nel 1949), pari quindi all'estensione di Marche e Abruzzo. L'autostrada serve una conurbazione che ormai si allunga lungo tutta la costa, da Gaza City a Rosh ha Niqrà. Più densa sulla costa nord, tra Tel Aviv e Haifa, più rarefatta a sud, verso i confini con i territori dell'Autonomia Palestinese e tra Gaza e Refah, sul confine egiziano. Ai tempi del mandato britannico sulla costa correva una ferrovia, era possibile da Haifa arrivare direttamente a Beirut. Oggi i confini hanno interrotto anche questa continuità, la ferrovia sopravvive in alcuni tratti, ma è stata soppiantata completamente dal trasporto su gomma. Di notte il territorio sembra appiattito dall'atmosfera umida, che ispessisce l'aria e confonde le distanze. Ma oltre il guard-rail si scorge un paesaggio completamente urbanizzato alternato a grandi spazi vuoti, torri dall'aspetto fortemente tecnologico spuntano in mezzo ad aree vuote, accanto solo un centro commerciale e stuoli di prefabbricati uno in fila all'altro, le baraccopoli dei nuovi immigrati dall'ex Unione Sovietica. Sulla freeway scorrono veloci le uscite per le cittadelle satelliti di Tel Aviv, alcune storiche, altre inventate negli ultimi decenni, per cercare di dare luoghi sicuri in cui vivere. Ramat Gan, Bnei Berak, Ramat ha Sharon, Raanana, aiuole verdi, piste ciclabili, case basse col giardino o condomini di lusso, centro commerciale e sporting club, oppure il mercato all'aperto, lo shuk, l'immigrato che suona per strada, le case non finite con i ferri dei pilastri ancora all'aria, edifici non intonacati e senza infissi, sono due facce del territorio urbano israeliano. Un'urbanizzazione avvenuta sempre sull'orlo dell'emergenza di dover accogliere profughi da ogni paese, pochi piani quindi e pochi disegni, se non per alcune parti. La stessa Tel Aviv era stata fondata da 250 persone che acquistarono il terreno dagli ottomani nel 1906 e negli anni Trenta doveva già accogliere 70 000 persone. Un'urbanizzazione che spesso ha un aspetto precario, come se torri e centri commerciali avessero in sostanza lo stesso valore dei prefabbricati che accolgono gli immigrati.

Ma il territorio israeliano ha anche aspetti solidi che contrastano con la precarietà dell'urbanizzazione contemporanea. Da un lato le forti mura di Gerusalemme, la pietra bianca con cui è costruita la cittadella, la spianata delle moschee, e poi la fortezza di Masada, il palazzo di Gerico, la tomba di Rachele, il monastero di San Giorgio, ovvero tutti i luoghi carichi di quella storia che si sente così forte in quest'area, una storia che si fa beffa dei labili confini geopolitici e delle differenze etniche, culturali e religiose, e ricopre di sé tutta la regione senza concedere via d'uscita a conflitti cristallizzati nel tempo.


Dall'altro lato il territorio "naturale", nella realtà così artificializzato dall'uomo per riuscire a ricavarne il sostentamento per la nazione. Dai pazienti esperimenti di Yoel De Malach, un ingegnere italiano immigrato in Israele che ha contribuito a rendere fertile il Negev, studiando stagione dopo stagione quali fossero le colture adatte per quel deserto e i metodi irrigui, fino alle tecniche studiate da Shlomo Aronson per la riforestazione della Giudea e alla progettazione della strada che attraversa il Negev. Atteggiamenti questi consapevoli del valore della terra e dell'ambiente naturale, nonché della necessità di considerare forme di sviluppo attente alla tutela del territorio, per quanto necessariamente in grado di rispondere alle esigenze mutevoli della collettività.

E forse è questo il vero confine che si sente tra i diversi territori, fisici e culturali, che formano la regione. Quando si percorre la frontiera tra Israele e il Libano del Sud, lungo la strada che parte da Rosh ha Niqrà e si snoda lungo tutto il confine, passando per i kibbutz, le comunità agricole che hanno coltivato il territorio, Sasa, Bar'am, e salendo verso Keryat Shmonà e Metulla, allora si scorge la differenza reale tra un territorio verde, coltivato e continuamente addestrato e, oltre confine invece, il giallo di una vegetazione brulla e il marrone di rocce che restano un deserto.

Alessandra Bordieri
a.bordieri@libero.it
[19sep2002]
 
> SOPRALLUOGHI: PETTI. SUL CONFINE...
 
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