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Siamo diversi... ma siamo uguali. Il Padiglione Italiano alla 10. Biennale Architettura di Venezia

Giovanni Corbellini



Alla fine dell'estate 2005, una quarantina fra i maggiori architetti italiani, fra cui Gregotti, Portoghesi, Sottsass, hanno inviato alle più alte istituzioni statali un appello "Per lo sviluppo in Italia della nuova architettura" (1). Vi si evidenziava la drammaticità della nostra situazione in confronto ad altre realtà europee, più fortunate per la complessiva attenzione alla trasformazione ambientale in termini di investimenti, di attenzione da parte delle autorità, di organizzazione normativa e tecnologica. Tra i diversi aspetti sollevati dall'appello, l'argomento principale riguardava la discriminazione che gli architetti italiani -con le loro difficoltà a costruirsi un curriculum di realizzazioni interessanti- subirebbero nel nostro paese rispetto ai più prolifici colleghi stranieri. Una minaccia concretizzata dall'incremento di grossi incarichi assegnati a superstar internazionali e dalle sue conseguenze sul "naturale sviluppo della linea di ricerca" nata in Italia negli anni Trenta e considerata "di capitale importanza per lo sviluppo della modernità".

Il nutrito elenco di destinatari dell'appello si apriva con il presidente della Repubblica e si chiudeva con il presidente della Biennale di Venezia. Poco o niente si è saputo delle reazioni del primo, così come delle alte cariche governative che lo seguivano. La risposta dell'ultimo è stata viceversa immediata, con l'annuncio che la partecipazione italiana alla Biennale architettura del 2006 avrebbe avuto due distinti eventi principali -entrambi ospitati negli spazi dell'Arsenale- guidati rispettivamente proprio da due prestigiosi firmatari del testo: Claudio D'Amato Guerrieri -nominato curatore della sezione dedicata alle "Città di pietra" (2) - e Franco Purini, a cui si affidava allestimento e organizzazione di un nuovo padiglione italiano nelle "tese delle vergini" (3), essendo quello dei giardini ormai destinato a ospitare eventi sotto la direzione del responsabile generale della mostra. Non sorprende quindi che entrambi i curatori si siano focalizzati, sia pure con le necessarie differenze, sulla questione dell'identità nazionale e sul rapporto con gli anni Trenta, individuati come snodo cruciale e fondativo della nostra architettura di qualità.

La via all'"altra modernità" proposta da Claudio D'Amato fa dell'architettura fascista (soprattutto nella sua versione coloniale, pesante, muraria, retorica e rappresentativa di un potere assoluto) il punto dal quale gettare uno sguardo retrospettivo. Il destino della città mediterranea, dalle sue radici ellenistiche in avanti, viene nostalgicamente identificato con la gravità della pietra in un approccio che appare totalitario (basato com'è su un principio di autorità formale che si ripercuote nell'ossessiva simmetria dell'allestimento), cimiteriale (nella freddezza tombale con la quale è trattato il materiale evocato e nella celebrazione della "tendenza" con una specie di cenotafio alla memoria di Aldo Rossi) e, di fatto, accademico (per la coazione alla ripetizione linguistica dimostrata da molti dei progettisti selezionati, in netta prevalenza colleghi dell'università). Ne emerge un metodo letteralmente reazionario, teso ad affermare l'identità dell'architettura italiana in opposizione alle correnti che attraversano il dibattito internazionale, tanto da fare delle "Città di pietra" l'unico evento storicista di tutta la Biennale.

Pur condividendo alcune premesse dell'idea passatista di D'Amato, la concezione degli anni Trenta che emerge nell'operazione condotta da Franco Purini appare più problematica e progressiva. In breve, si riconosce nell'elaborazione linguistica di Libera, Terragni, Pagano e degli altri protagonisti della stagione razionalista, la capacità di importare la lezione astratta nordeuropea coniugandola con la tradizione costruttiva mediterranea, in un fecondo rapporto di impollinazioni incrociate tale da innescare, a quarant'anni e molti chilometri di distanza, le ricerche dei New York Five e altre importanti conseguenze nel dibattito internazionale. Di quelle vicende sono presi in considerazione soprattutto gli aspetti linguistici, compositivi, contestuali e tipologici, con i quali è evidente l'intenzione di istituire una continuità evolutiva, ma non manca il riconoscimento degli elementi processuali e delle potenzialità di ibridazione proliferativa fra diverse culture.

Lo strumento proposto da Franco Purini per monitorare/stimolare la capacità dell'architettura italiana di confrontarsi oggi con questa ipotesi di ricerca è la progettazione di una nuova città tra Verona e Mantova denominata Vema. Rispetto ad altre prove precedenti dello stesso autore (ad esempio la "Città uguale" esposta nel 2000, sempre in occasione di una Biennale veneziana) emerge qui il tentativo di innestare l'operazione fondativa all'intero di scenari di plausibilità economica e fattibilità generale, individuati con la collaborazione di Nomisma, unito a obiettivi "politicamente corretti" come quelli della sostenibilità e del contrasto alla città diffusa. Scenari e obiettivi che però non sembrano produrre conseguenze dirette sulle scelte insediative. Il rettangolo aureo che individua la nuova forma urbana appartiene ad esempio più al mondo delle idee che a un confronto con fenomeni e occasioni determinate: l'incrocio dei corridoi infrastrutturali europei, preso a evento primario per la fondazione della città, non produce infatti riverberazioni percepibili sullo schema. La collocazione a cavallo del confine regionale è piena di significati simbolici, ma altrettanto problematica dal punto di vista di una ipotetica gestione amministrativa. La densità territoriale proposta, di 36 abitanti per ettaro, supera di poco quella di Los Angeles (capitale mondiale della dispersione e dello spreco di risorse a essa collegato) mentre è inferiore di un quarto a quella londinese, della metà rispetto a Milano e di quasi cinque volte se confrontata a Barcellona (4). E la stessa intenzione di portare qui la "classe creativa" (gli scienziati, professionisti, informatici, artisti protagonisti di un famoso libro di Richard Florida (5)) trova una immediata confutazione nel lungo saggio di Saskia Sassen (6) che accompagna il catalogo generale di questa Biennale e nel quale si descrive la crescente attrazione esercitata dalle aree centrali delle grandi città metropolitane sui protagonisti della globalizzazione, siano essi le nuove iperpagate figure professionali o i disgraziati migranti che svolgono le numerose mansioni manuali da esse richieste.

Questo rapporto intermittente con la realtà, prima evocata e poi negata, viene apertamente rivendicato da Purini fin dai testi di presentazione dell'operazione progettuale su Vema. Vi si sottolinea da un lato l'idea di sperimentare una nuova "città di 'fondazione', ma anche una città 'ideale', una città innovativa, una città 'utopica'" (7), mentre si manifesta dall'altro l'intenzione di combattere quegli approcci progettuali che più radicalmente si sono confrontati con i modi di produzione della contemporaneità, di "contrastare", cioè, "il diffuso nichilismo dei sostenitori della città 'generica', i quali finiscono quasi sempre per assecondare quelle aggressive meccaniche atopiche che finiscono con l'indurre nel territorio devastanti processi entropici" (8).

L'idea che, parafrasando Banham, l'architettura debba essere difesa dai fatti della vita che la rendono possibile, emerge poi anche nella maggior parte dei saggi ospitati dall'imponente catalogo della mostra (9). Vi si esprime diffusamente la richiesta di un controllo più stretto nella trasformazione ambientale sia nel senso normativo che compositivo, contro gli "'eccessi' della cosiddetta libertà di espressione", vista come "un vero e proprio attentato ai valori sia etici che estetici che fino alla metà del XX secolo hanno riempito di senso la scena artistica" (10). Al di là della condivisibilità di un simile auspicio (in cui riemerge, anche nei termini usati, una certa nostalgia autoritaria) e della sua stessa fattibilità, la situazione italiana non è certo carente di restrizioni legali (sono infatti molti i regolamenti locali che indicano dettagliatamente materiali e soluzioni tipologiche ammesse), di vigilanza estetica (esercitata dalle sovrintendenze e dalle commissioni edilizie integrate con pervicace cecità censoria), di pregiudizi paesaggistici (che fanno gridare all'"ecomostro" o alla cementificazione per ogni necessaria operazione trasformativa) o di controllo "preventivo" sugli approcci individuali degli architetti oggi operanti, formatisi, per la maggior parte, nell'università di massa degli anni Ottanta e sotto la dittatura dei linguaggi che vi prosperava. Una situazione che, di fatto, non impedisce la continua accumulazione di una edilizia tra le più fetenti d'Europa, ostacolando allo stesso tempo le ricerche più sperimentali.

Il vero "nemico" di Vema, tuttavia, non è l'informe proliferazione della produzione corrente: le "entità urbane finite e riconoscibili" (11) che si propongono in alternativa ne mettono in discussione solo gli effetti morfologici e non le cause complessive (peraltro difficilmente contrastabili con i soli mezzi della disciplina). L'obiettivo della critica di Purini e dei suoi collaboratori è, piuttosto, l'architettura delle archistar, il cui successo mediatico (e commerciale) si basa su una serie di caratteristiche (spettacolarità, superficialità, velocità, assenza di memoria e di radicamento... (12)) contrarie a una idea progettuale in "equilibrato rapporto con l'appropriatezza, il buon senso, la rispondenza ai dettami funzionali e la sintonia con il contesto urbano e territoriale" (13). Per evitare quella che viene definita come "reiterata proposizione di segni arbitrari" (14), ci si rivolge di nuovo alla storia, proponendo la continuità linguistica come valore prevalente e strumento di interpretazione che precede la lettura di necessità e opportunità espresse da luoghi e tempi specifici. Il senso dell'operazione insediativa e della sua dominante geometrico-proporzionale va quindi ricercato nel forte legame tra Vema e le più importanti proposte italiane nel campo della progettazione urbana. La riproposizione, all'interno della mostra, dei maggiori contributi del nostro pensiero urbano nel ventesimo secolo (dalla recente Jangwan di Gregotti Associati alla "Città nuova" di Sant'Elia, passando per la città analoga di Aldo Rossi, le utopie radicali di Archizoom e Superstudio, Porto Cervo di Vietti, le città pontine, la Ivrea olivettiana...) è a questo riguardo particolarmente significativa, anche e soprattutto nelle modalità rappresentative: gli eleganti disegni in bianco e nero prodotti per l'occasione colgono le relazioni territoriali maggiori con le infrastrutture e la topografia, i rapporti vuoto-pieno, i caratteri generali delle morfologie insediative, piuttosto che proporre confronti sui piani quantitativi delle dimensioni, della scala, delle densità.

Nel portare il dialogo con i predecessori sul piano privilegiato della forma e nell'opporre questa genealogia nazionale a una serie di ricerche recenti che hanno attraversato il dibattito architettonico fuori e dentro i nostri confini, lo studio dell'impianto di Vema mostra una certa ambivalenza, soprattutto se confrontata a quegli anni Trenta presi come riferimento fondamentale della nostra identità disciplinare. Alla volontà di connettersi oggi con le geometrie nette del razionalismo (confermata anche dal raffinato allestimento "bianco" del padiglione) corrisponde infatti una ideologia non dissimile da quella novecentista, che accusava Terragni & c. di importare "mode" incompatibili con la nostra tradizione. Va tuttavia riconosciuto a Purini di aver intenzionalmente messo in crisi questo approccio attraverso una mossa destabilizzante, uno scarto laterale che rimette in gioco l'attitudine processuale e generativa del progetto di ricerca. La sperimentazione architettonica all'interno dell'impianto di Vema è stata infatti affidata a venti giovani studi italiani composti per la maggior parte da architetti sotto i quarant'anni, appartenenti cioè a quella "generazione Erasmus" intrinsecamente connessa, per esperienza diretta, con un contesto ideativo allargato alla scena internazionale. Bisogna anche dare al curatore il merito di aver saputo fare scelte plurali e non settarie, fornendo una apprezzabile rappresentazione delle diverse ricerche concettuali e compositive che si stanno faticosamente cercando uno spazio nel nostro Paese.

Compatibilmente con le premesse teoriche dell'operazione, "Ai progettisti è stato chiesto di ripensare i fondamenti tipologici dell'architettura, reinterpretandone i contenuti storici alla luce delle esigenze e della sensibilità contemporanee. È stato anche chiesto, per quanto possibile e nell'assoluta libertà di scelta, di ricucire lo strappo verificatosi fra i linguaggi oggi internazionalmente (e spesso superficialmente) diffusi con quanto di meglio ci è stato lasciato in eredità dalla nostra cultura architettonica e urbana italiana del Novecento" (15). Un insieme di compiti effettivamente complesso, che ha appesantito l'efficacia comunicativa delle proposte che più fedelmente hanno provato ad affrontarlo. Molti dei progetti esposti soffrono infatti di una certa macchinosità che richiede una attenzione eccessivamente approfondita per le capacità di un normale visitatore della Biennale veneziana, bombardato da una quantità enorme di informazioni in un tempo strettamente limitato.

Tuttavia, la molteplicità delle voci interpellate ha contribuito a relativizzare la tradizionale triade tipologia-linguaggio-contesto: sebbene la maggior parte dei progettisti invitati ne fanno ancora orizzonte esclusivo di ricerca e interpretazione, non mancano gli esperimenti che vi attribuiscono un potere operativo molto meno determinante. L'ordine alfabetico accosta subito due delle proposte che più nettamente si sono divise su questo punto: la rigidità neo-con di Pier Vittorio Aureli (leader di uno studio molto appropriatamente denominato Dogma) precede e si confronta con l'attitudine anticompositiva di Avatar architettura (16). Il parco-parcheggio-cimitero-residenza di Aureli, con la sua stratificazione simbolica, la sua intenzionale inabitabilità, l'ossessione geometrica e seriale per il quadrato, la fiducia totalizzante nella fissità oggettuale quale destino dell'architettura, porta alle estreme conseguenze una ipotesi tutta interna all'autonomia disciplinare. Per ironia della sorte, questa rivisitazione minimalista e letteraria della "tendenza", così "italiana" nei riferimenti e nella tattica comunicativa, proviene da uno studioso che ha fatto dell'Olanda la sua base operativa.

Dall'altra parte, così come il contributo di Aureli può essere preso ad esempio delle molte ricerche vemiane attente al campo della forma (al di là delle diverse declinazioni linguistiche), i fiorentini Avatar sono tra i più efficaci rappresentanti, in questa come in altre occasioni, di una attitudine tutta "olandese" all'utopia pragmatica, in varia misura presente nei progetti che qui ricorrono a dispositivi diagrammatici e ad altre macchine astratte per dare sostanza alle loro scelte (e volendo continuare nel gioco delle influenze incrociate, bisognerebbe ricordare che gli Avatar collaborano da tempo con Peter Lang, autore americano di interessanti ricerche sui radicali italiani degli anni Settanta... (17)). Il loro mercato "totale integrale" mette in moto una serie di strumenti dinamici basati sul tempo, sull'interazione con gli utenti, sull'indeterminazione programmatica. L'autoconsumo di una risorsa rinnovabile (il bambù coltivato in sito) e l'autocostruzione da parte degli utenti consentono il dispiegarsi di una serie aperta di possibilità proliferative. In altre parole, il progetto non si occupa di prefigurare assetti formali precisi, ma mette in funzione processi sensibili al mutare delle condizioni locali.

La variegata gamma di declinazioni concettuali e formali fra questi due poli che costruisce il grande plastico di Vema ha fatto storcere il naso agli architetti legati a una idea della disciplina come ricerca di armonia e controllo, probabilmente dimentichi delle potenzialità generative del "cadavere eccellente" e di altre procedure dada-surrealiste imperniate sugli accostamenti aleatori. Per diversi altri, viceversa, questo è stato il portato più vitale e interessante del Padiglione Italiano, dimostrazione di un attivo collegamento con le inafferrabili dinamiche contemporanee. Se poi sia possibile, a posteriori, ricavare da tutto ciò una caratterizzazione specifica della nostra identità architettonica è difficile a dirsi e dipende in larga misura dagli "occhiali critici" che di volta in volta si vogliono indossare. Identità è infatti una parola polivalente, che associa al suo interno la diversità individuale, anagrafica alla totale uguaglianza matematica, così come l'appartenenza a gruppi specifici. Rischia di diventare una parola pericolosa: "l'identità può anche uccidere, uccidere con trasporto", ci ricorda Amartya Sen (18). È soprattutto un termine che affiora paradossalmente quando se ne sperimenta la perdita.

"Siamo diversi... ma siamo uguali", ripeteva con angoscia Nanni Moretti in Palombella rossa sintetizzando la crisi del militante comunista nella fase più drammatica della trasformazione del suo partito. Nella sua pluralità, Vema sembra dire che siamo felicemente diversi e uguali, partecipando come individui e come gruppi a relazioni complesse, intersecate e sovrapposte.

Giovanni Corbellini
gcorbellini@units.it 
[24oct2006]
NOTE:

1. Il testo si può consultare in rete qui: www.capodorlandonline.it...
2. Catalogo: La Biennale di Venezia e Sensi contemporanei, 10. Mostra Internazionale di Architettura. Città di Pietra, a cura di Claudio D'Amato, Marsilio, 2006.
3. Catalogo: La Città Nuova. Italia-y-2026. Invito a VEMA. Il Padiglione Italiano alla 10.Mostra internazionale di Architettura, a cura di Franco Purini, Nicola Marzot e Livio Sacchi, Editrice Compositori, 2006.
4. Il confronto con questi dati è direttamente disponibile grazie all'evento principale della Biennale, "Città. Architettura e società", curato da Richard Burdett alle corderie dell'arsenale.
5. Richard Florida, The Rise of the Creative Class. And How It's Transforming Work, Leisure, Community and Everyday Life, Perseus Books, 2002.
6. Saskia Sassen, Perché le città sono importanti, in Città. Architettura e società, a cura di Richard Burdett, Marsilio, 2006.
7. Franco Purini, La Città Nuova. Italia-y-2026. Invito a VEMA, in La Città Nuova. Italia-y-2026. Invito a VEMA, cit., p. 15.
8. Franco Purini, VEMA: le ragioni di una città nuova, in La Città Nuova. Italia-y-2026. Invito a VEMA, cit. p. 29.
9. Oltre 500 pagine, circa metà delle quali dedicate ad apparati di supporto: "Le Città Nuove del Novecento italiano", a cura di Livio Sacchi; "Le città, gli architetti, l'insegnamento dell'architettura"; "Dizionario Architettonico Italiano"; "Dizionario Biografico Illustrato".
10. Margherita Petranzan, VEMA città possibile, in La Città Nuova. Italia-y-2026. Invito a VEMA, cit. p. 21.
11. Franco Purini, La Città Nuova. Italia-y-2026. Invito a VEMA, in La Città Nuova. Italia-y-2026. Invito a VEMA, cit. p. 15.
12. Vedi Ernesto di Casarotta, Contro lo spettacolo, in La Città Nuova. Italia-y-2026. Invito a VEMA, cit. p. 25.
13. Livio Sacchi, VEMA 2006-2026, in La Città Nuova. Italia-y-2026. Invito a VEMA, cit. p. 23.
14. Ibidem.
15. Ibidem.
16. La vicinanza alfabetica ha riguardato solo il catalogo. In mostra i due progetti erano più distanti.
17. Vedi Peter Lang e William Menking, Superstudio. Life Without Objects, Skira, 2003.
18. Amartya Sen, Identità e violenza, Laterza, 2006, p. 3.

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