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Palladio

Chiara Roverotto



Di solito si cominciano i racconti dall'inizio. Lo raccomanda anche Alice di Lewis Carroll. Invece per una volta serve uno strappo alla regola, vale la pena cominciare dalla fine. Perché, per una volta, la fine non è completamente nota, o almeno lo è solo agli storici, agli appassionati. Perché tutti conoscono Andrea Palladio, nato 500 anni fa, figlio di un mugnaio padovano che con la sua arte seppe sedurre, costruire, erigere, creare, comporre. I suoi capolavori sono ancora visibili e rimangono il prototipo e il contenitore di modelli e di forme. Di segni e di costruzioni. Di idee e di realizzazioni. Di utopie e di sregolatezze. Di una fortuna nata dalla conoscenza di chi aveva i mezzi per viaggiare, mentre lui, da Vicenza se ne andò molto tardi. Il resto lo apprese dai racconti, dai libri, dalle monete. Da un mondo che gli girava intorno vorticosamente e che lui voleva fermare solo per coglierne i segni di una bellezza che avrebbe tracciato i solchi di un'arte che lo fece diventare uno dei maggiori architetti dell'epoca.

Andrea Palladio 500, mostra allestita a Vicenza e curata da Guido Beltramini e da Howard Burns è aperta nelle dieci sale del piano nobile di Palazzo Barbaran da Porto, che rimane l'unica dimora vicentina che l'architetto riuscì a terminare all'interno di una realtà urbana, dove la sua prepotenza architettonica traspare da ogni pietra. Dove le sue creazioni, o meglio invenzioni prospettiche, si intersecano all'interno di vie e contrà fino a farle diventare una sorta di fuga in avanti come se fosse in perenne debito con se stesso e con il proprio genio, sempre senza quegli strumenti necessari per esprimersi con l'opportunità che lui, Andrea Palladio, avrebbe meritato.

Invece, fu grazie a Giangiorgio Trissino, nobile vicentino, che il giovane architetto seppe esprimersi e poi ancora all'incisore Valerio Belli passando per quelle ineludibili linee guida che arrivavano in quegli anni da Roma, Venezia e che conducevano verso Bramante, Raffaello, Michelangelo, Antonio da Sangallo, Falconetto, Sansovino. Nelle sue ville e all'interno dei suoi palazzi traspare il riflesso di un modo di lavorare e di una creatività perennemente in azione. È come se Andrea Palladio fosse incapace di essere normale, come ogni ragazzo di bottega in quegli anni avrebbe dovuto fare. Lui no. E nella mostra quest'aspetto viene messo in evidente rilievo. L'eccezionalità, la creatività, l'estrosità non sono che componenti del suo testamento. Una sorta di confessione pubblica che si ritrova all'interno delle costruzioni che l'allestimento della mostra vicentina ha voluto mettere in rilievo grazie ad alcuni modelli lignei di pregevole fattura. Sembrano scatole magiche che si lasciano scoprire, come se dietro ad un porticato, ad una colonna si nascondesse una sorta di tesoro fatto di invettiva. Dove le prospettive cambiano, le linee si intersecano fino a divenire un tutt'uno con la fabbrica (dove anche Alice si sarebbe persa...).

Ma torniamo alla mostra e alle dieci sale che la compongono. Tre sezioni dividono e, in un certo senso vivisezionano, l'opera dell'architetto vicentino. Una è dedicata alla carriera personale del Palladio, l'altra come una lente d'ingrandimento allarga gli orizzonti sulle sue capacità architettoniche e, infine, la terza mette in rilievo l'attualità dei suoi lavori: metodo e concezione. Due concetti attualissimi in un modo dove l'architettura sta pensando molto più all'estetica che alla funzionalità. Allo stupore che può suscitare piuttosto che alla razionalità che può e dovrebbe produrre. Lui riuscì a coniugare entrambe. Non senza sforzo, non senza difetti che, però, seppe correggere. Con il tempo, con l'esperienza. Ma non ci sono nella sua opera tante note stonate, fatta eccezione per il ponte di Rialto a Venezia, troppo ridondante, di difficile realizzazione e fuori misura in un ambiente dove si facevano largo altre scuole di pensiero.

La mostra a palazzo Barbaran da Porto, pur allestita in sale importanti, quasi imponenti per il visitatore, riesce a far comprendere la modernità e il coraggio innovativo del contesto socio-culturale in cui il Palladio si forma o meglio ancora si plasma come fosse una pietra. Il percorso si snoda piacevolmente anche grazie ad un'audioguida registrata direttamente da Guido Beltramini curatore della rassegna, una voce in mezzo a tanti "pezzi" che riesce a mettere ordine e ricostruire un puzzle che richiama tasselli non solo dall'arte e dall'architettura, ma anche da trattati storici da disegni fatti e rifatti, da modelli e da ritratti (di notevole pregio quello di El Greco che tratteggia un Palladio serio, posato, con occhio vigile e attento verso un futuro che probabilmente non riesce ad immaginare) all'interno di una visione tardo cinquecentesca forse un po' meno dipendente dalla Serenissima di quanto si pensava, anche se i quadri del Canaletto, esposti in alcune sale, ne ricordano la magnificenza.

Ed ecco i disegni fatti e rifatti. Meravigliosi frammenti di colonne, porticati. Tra tutti si notano quelli di alcune case popolari che dovevano sorgere a Venezia e ancora quei tratti che servono a mettere in evidenza come dal progetto si passava alla fase successiva grazie a strumenti che servivano a sollevare pietre a livellarne la struttura a farne lastre più o meno solide e importanti sulla base di dove venivano impiegate. E ancora il colore, quel rosso purpureo destinato, come si vede nel modello ligneo, alla chiesa di S. Giorgio a Venezia, e mai utilizzato. Troppo per quell'epoca. Troppo per il committente. Troppo per il contesto. Ecco l'aggettivo che accompagna sempre di più l'opera palladiana. È come se l'architetto si trasformasse in narratore, demiurgo capace di incantare con metodo, maestria quasi come stesse girando un film, dove in ogni fotogramma sotto il segno della sua creatività e genialità ricama sul tema del rapporto tra arte e creazione artistica, tra il costruito e l'immaginario, tra realtà e invenzione.

Concetti, questi ultimi, che trovano spazio in alcuni disegni delle strategie militari di Giulio Cesare dove in un'edizione illustra le Storie di Polibio. Lo schieramento delle truppe sembra quasi un quadro futurista, mancano i colori, ma le linee fatte da un insieme di punti sono nette e tracciano una sorta di continuum tra la sua arte e quell'assetto di soldati che ricordano la disposizione delle sue colonne. Vengono in mente i disegni di Sun Tzu Nell'arte della Guerra, fatti 2500 anni fa, un trattato che espone una filosofia della lotta in cui la suprema abilità consiste "nel piegare il nemico senza combattere la guerra". Ecco, Andrea Palladio ha saputo imporre la sua potenza creativa, l'ha esportata. A volte anche con la disperazione umana di chi ha visto un tempio antico solo impresso su una moneta del diametro di un paio di centimetri. Eppure, il ragazzo di bottega ha fatto la sua strada. Di corsa. In un modo che correva veloce. Per questo è importante partire dalla fine dei suoi lavori perché è da lì che gli studiosi hanno capito che la sua opera ha una sorta di immortalità ancora attuale. Alla fine il vincitore della sfida, che altri gli avevano lanciato, è lui. Agguerrito e intelligente. Il figlio del mugnaio che ha saputo creare un futuro architettonico senza fantascienza. E a dimostrarlo ci sono ancora tutte le sue opere esportate nel mondo. Dove pietra e rigore sono le sole componenti, dove le parole possono ancora dire. O meglio descrivere qualcosa.

Chiara Roverotto
chirov@libero.it
[21 novembre 2008]
La mostra Andrea Palladio 500 resterà aperta a Palazzo Barbaran da Porto, in contrà Porti 11, a Vicenza fino al 9 gennaio del 2009. Chiusa tutti i lunedì, il 25 dicembre e 1 gennaio. Orari: martedì, mercoledì, giovedì, domenica: 9:30-19:00. Venerdì, sabato e festività: 9:30-21:00. La rassegna si trasferirà successivamente a Londra, nella Royal Academy of Arts, dalla prima settimana di febbraio sino a maggio 2009. Le opere presenti sono circa trecento, fra disegni originali, dipinti, sculture, medaglie, libri e manoscritti, provenienti da oltre cinquanta musei europei e americani.
> VALLE. VERSIONI DI PALLADIO

 

 

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