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Doppia ricostruzione

Pietro Valle



Un terremoto mette a nudo il rapporto che una comunità ha con lo spazio fisico. La ricostruzione che ne segue fa emergere, in tempi più lunghi, le attese degli abitanti, i loro modelli mentali, il senso di condivisione dello spazio pubblico, la reale volontà di investimento sull'ambiente. Non è facile individuare nel breve periodo quali saranno le linee di sviluppo di un insediamento a seguito di un evento traumatico. La retorica della comunicazione del recente terremoto dell'Abruzzo ha elaborato, in tempi rapidissimi, promesse di ricostruzione, sogni di New Town, modelli di nuove comunità. Tra gli esempi citati, vi è stato anche quello della ricostruzione del Friuli dopo il sisma del 1976, esperienza lodata come esemplare e anche oggi rispolverata dalla stampa di Udine. Chi scrive ha vissuto la ricostruzione in prima persona, svolgendo il servizio civile presso un comune terremotato, Gemona del Friuli, nei primi anni Ottanta. L'esperienza di quel lavoro gli ha insegnato a diffidare dei messaggi ufficiali e a seguire i processi reali, voluti dagli abitanti, anche se non pianificati. Spesso, infatti, si forma uno scarto incolmabile tra governo del territorio e desideri della comunità che si approfondisce negli anni. Esso genera, anche nei casi di ricostruzione più compiuti, disgregazione sociale e spreco costruttivo, due aspetti di cui non si parla volentieri in Friuli, ammantando tutto dietro la retorica della rinascita della regione in pochi anni successivi al sisma. È qui proposto un testo del 1994 mai pubblicato su Gemona del Friuli per analizzare, in un momento segnato dall'emergenza dell'Abruzzo, un'esperienza di ricostruzione post-terremoto e le conseguenze che essa ha innescato. Questo contributo può forse fare riflettere sulla rottura temporale causata da un sisma e sui processi di compensazione che essa mette in moto. Solo riflettendo sui desideri collettivi, anche inespressi, si può forse evitare lo scollamento tra ambiente e comunità che si è venuto a creare in Friuli e, in particolare, a Gemona. Lo scritto presentato fa parte di un libro sul Nordest italiano, in fase di completamento, intitolato Alpe Adria Senza. Di esso è già stato pubblicato su ARCH'IT il saggio Redipuglia. [PV]



 
Gemona del Friuli è posta su un cono alluvionale che scende da un ripido monte coperto di vegetazione scura. Ai piedi del ghiaione si estende la valle del fiume Tagliamento ove sono poste le urbanizzazioni recenti, le strade, la ferrovia. Salendo nel centro storico, si è accolti da grandi caseggiati intonacati, le cortine edilizie compatte, gli androni aperti su corti retrostanti, le piccole finestre incorniciate da profili di pietra, i tetti spioventi con aggetti di legno. Vecchio e nuovo si alternano ma altezze, volumi, linee di gronda e materiali sembrano stati pensati insieme. A uno sguardo più attento, si scopre che le facciate hanno dei muri di cemento dietro all'intonaco. Alcune case esibiscono parti di muri più antichi sul fronte. Sono pochi frammenti lapidei addossati a una parete di calcestruzzo ed evidenziati dall'arresto dell'intonaco per lasciarli a vista come reperti. Il muro finito aggetta rispetto ai sassi sopravvissuti ed essi affiorano sospesi in uno strano impasto neutro. Il piano terreno su strada è occupato da portici con bar e negozi. Gli archi e i pilastri che li delimitano hanno poco spessore, sono anch'essi lame di cemento e appaiono fragili rispetto alle masse che sorreggono. Gli esercizi commerciali sulla strada sono vivaci, gli appartamenti ai piani superiori sono quasi tutti affittati o lo sono da poco, segno di un'occupazione recente.

[14 aprile 2009]
  A volte, tra casa e casa o sui retri vi sono strane interruzioni: muri non finiti, ambienti lasciati al rustico, corti non pavimentate, finestre aperte e successivamente murate. Sembrano il segno della mancanza di coordinamento dei confini tra proprietà. Se le linee invisibili che dividono lo spazio non creano accordo tra chi edifica strutture contigue, quei confini hanno altri significati. Sono linee che vengono dal passato, c'erano prima e dividevano altri spazi, altre strutture. L'intero paese è stato ricostruito "com'era, dov'era" dopo il terremoto del 1976 e si è voluto ritracciare fedelmente l'impianto urbano storico con nuovi edifici. (1) Le strutture erette, pur volendo apparire tradizionali, sono in realtà delle scatole di cemento antisismiche rivestite. Una gigantesca riproduzione della realtà ha avuto luogo ed essa ha un rapporto difficile con il ricordo che si porta dietro. Per apparire storici, questi bunker di cemento, si sono dovuti travestire con una tenue facciata che cela al suo interno un'altra realtà. La differenza tra restituzione filologica e vincoli costruttivi antisismici ha generato tutta una serie di scarti tra quello che c'era prima e quello che è stato riprodotto, tra come si sarebbe voluta la città e come si è riusciti a realizzarla, tra realtà e rappresentazione.

Nessuno dei pianificatori della ricostruzione sembra, tuttavia, avere pensato a come gestire questa distanza: hanno eretto una città neo-tradizionale fatta di restauri ipervincolati e nuovi edifici completamente inventati che di storico hanno solo il sedime planimetrico. La nuova Gemona è, allo stesso tempo, troppo vicina e troppo lontana dal suo modello. Non trova mai una distanza da cui stabilire un'analogia con il suo precedente perduto. Da essa emerge un'affermazione stilistica: la volontà di essere tradizionale appare più forte della lettura della ricostruzione.



L'involucro non è tutto, queste case sono anche abitate da altre persone. I sopravvissuti hanno tenuto le loro proprietà nel centro storico, ma le hanno affittate e si sono trasferiti in case unifamiliari nella piana del fiume, la quale è diventata un'estensione suburbana di villette con giardino e piccoli condomini serviti da strade ortogonali. Queste nuove residenze sono sicure, isolate, non crollano e non hanno problemi di confini di proprietà tra muri contigui. La gente che, invece, abita su, nel nucleo ricostruito, si è trasferita in città di recente, dopo il sisma. Abbiamo così un finto centro storico abitato da estranei e una comunità originaria dispersa nell'urbanizzazione recente. Che senso ha parlare di appartenenza quando ci sono due città divise, ognuna delle quali svolge solo una parte del compito di relazionare l'abitare all'ambiente? Qual è il significato di questa prodigiosa doppia ricostruzione che ha prodotto un eccesso di costruito?

Il motivo sta forse nel rapporto tra immagine pubblica e ricerca di un'identità privata. La ricostruzione del centro storico è stata per i Gemonesi il gesto simbolico che ha rimesso insieme una comunità distrutta e il suo segno di coesione, la città. In realtà quest'ultima era un simbolo passato, già negli anni precedenti al terremoto, il centro era in fase di abbandono e la gente non vedeva l'ora di farsi la casetta unifamiliare, simbolo di un'avvenuta indipendenza economica. Il sisma non ha che accelerato una tendenza esistente, rendendo, inoltre, giustificabile l'isolamento in residenze unifamiliari con la paura fisica che la città compatta crollasse addosso agli abitanti. La tradizionale coesione della comunità non poteva, tuttavia, moralmente permettere di fuggire e lasciare il centro storico distrutto. Così esso è stato trasformato in un fantasma da evocare, ma non da rispettare.

I fondi pubblici per la ricostruzione concessi alle famiglie dalla legge speciale stanziata a seguito del sisma, hanno dato la possibilità ai Gemonesi di erigersi la casa distrutta ed essi li hanno impiegati prevalentemente per farsi la villetta nella piana ai piedi del monte. Non hanno, tuttavia, rinunciato a beneficiare dei programmi di ricostruzione del centro, anch'essi largamente sovvenzionati dallo Stato. Con uno sforzo aggiuntivo, hanno quindi ristrutturato i loro originari appartamenti posti negli isolati storici. Hanno quindi ora una casa per vivere e una da affittare, una reale e una di rappresentanza, a volte solo un monolocale in centro per dimostrare di esserci, anche se non si abita più lì. I vecchi immobili sono stati occupati da nuovi residenti, Gemonesi ritornati a casa dall'estero, nuovi immigrati attirati dalle opportunità economiche della ricostruzione, anziani sfollati e ricollocati in appartamenti protetti.

Il centro storico ha una nuova popolazione, i vecchi residenti sono andati ad abitare in nuovi immobili, tutti sono stati uniti nello sforzo della ricostruzione ma si sono separati nel quotidiano e sono tacitamente d'accordo di rimanerci. Nessuna delle due città è reale ma neanche fittizia, in ognuna è sorta una nuova vita che poco ha a che vedere con la condizione del pre-terremoto. Eppure le due comunità (o forse l'unica comunità scissa in due) non riescono a liberarsi dal fantasma del sisma che ha prodotto la frattura tra singolo e comunità, tra casa e città, tra spazio privato e collettivo. Una città si specchia nell'altra; nessuna delle due riesce a raggiungere un'identità piena, entrambe aleggiano in uno strano limbo. Nel centro storico ricostruito abita una comunità che non ha conosciuto il sisma, ma vive in una riproduzione della vecchia città; nella nuova estensione suburbana abitano i vecchi abitanti che ricordano il passato, ma sono andati a vivere in edifici nuovi. La memoria collettiva a Gemona non risiede nel luogo dove la gente opera, ma si confronta con uno spazio altro posto a distanza. L'ambiente non appartiene a coloro che lo occupano, essi sono costantemente proiettati in una realtà parallela. Nel centro storico ricostruito il tempo è stato sospeso, ritagliato da una presunta continuità storica e imbalsamato in una rappresentazione fissa. Come può evolvere una comunità in un ambiente dalla durata arrestata? È come se la distruzione e l'abbandono avessero spinto a costruire non la città, ma il suo cimitero, quasi un'anticipazione inconscia della vita sospesa che vi aleggia oggi.

L'occupazione del centro storico si è, infatti, fermata; esso è sempre stato sottoabitato e lo è anche oggi con la presenza di più case che residenti. Lo sviluppo dei sobborghi residenziali nella piana si è anch'esso arrestato dopo la prima ondata di ricostruzione negli anni Ottanta. Con il progressivo invecchiamento della popolazione e il ridimensionamento dell'economia anni dopo la ricostruzione, Gemona rischia di generare non una ma due potenziali città fantasma, questa è l'eredità della doppia ricostruzione.

La nuova città ai piedi del centro storico è stata creata dal desiderio d'indipendenza della vecchia comunità il quale si è consumato in un gesto individualista e si è chiuso nell'immobilità della singola proprietà che non cresce più. Priva di servizi, non riuscirà mai ad acquisire una coesione e la gente continuerà a spostarsi in automobile dentro e fuori dalle sue residenze isolate. Questa estensione suburbana è il vero segno identitario della ricostruzione, ma esso non può essere reso esplicito perché è una cattiva memoria, individuale, egoista, incapace di immaginarsi un futuro in forme nuove. Il destino collettivo è stato, invece, lasciato nelle mani dei politici e degli urbanisti e ha prodotto il centro storico ricostruito. I residenti, nel proprio interesse, hanno accettato una memoria appiccicata a posteriori, un tempo sospeso, una coscienza civica rappresentata al di fuori di sé.

Gemona è prodotto e conseguenza degli anni Ottanta, figlia del finto storicismo graficizzato e dell'illusoria iconologia che esso credeva di incorporare. Un intero territorio, quello del Friuli e del Nordest italiano in generale, ha creduto di ritrovare il passato nelle immagini, partorendo centri storici imbalsamati e un mare di villette in stile tradizionale. L'eredità di tale periodo, soprattutto nell'area terremotata, è un ambiente di involucri eccessivi e ingombranti, occupato ma inabitabile. La storia ha generato un'immagine di sé dove può risiedere solo la retorica. I vent'anni seguiti alla ricostruzione hanno superato anche quel periodo, di esso non rimangono che i resti svuotati.

Ogni famiglia è oggi divisa in due luoghi e in due forme del passato. Ha la tradizione storica riprodotta nell'altarino insincero del centro città, ha una finta tradizione comprata dal mercato edilizio nelle nuove villette. Ha, soprattutto, l'orgogliosa memoria del proprio affrancamento da una storia secolare che un giorno gli è crollata addosso e non poteva esserci occasione più propizia per cambiare perché il peso del passato improvvisamente non c'era più. Quello che è stato rimosso ritorna, tuttavia, anestetizzato come un theme park, la comunità lo vede realizzato, ma in realtà è una gigantesca scenografia di cemento. Lo sforzo impiegato nel ricostruire un'intera città per liberarsi del senso di colpa di avere dimenticato il passato è prodigioso, soprattutto perché questa città è parallela a quella dove effettivamente si abita. L'impegno sarebbe potuto essere profuso nell'immaginare un nuovo tipo di insediamento e invece gli sforzi sono stati uniti per costruire un falso mentre, privatamente, si accoglieva un modello esploso e individualista.

Quale luogo migliore di Gemona per capire che la casa unifamiliare, e non più la città, è l'unico desiderio della popolazione media oggi in Italia? La casa-oggetto è il limite dell'immaginario, è il termine di riferimento per gli insediamenti. Questa casa, tuttavia, non è capace di creare coesione e quindi sembra che abbia bisogno del centro storico come memoria traslata, come altro da sé, per esistere. La periferia è cresciuta perché qualcos'altro svolgeva il ruolo di materializzazione dell'idea di comunità, un altro che poteva anche essere finto, disabitato, presepe dello shopping, monumento con annesso cartello turistico. La nuova estensione suburbana non ha il coraggio di stare in piedi da sola e mostrare di essere la vera espressione dei Gemonesi. Vi è quindi un meccanismo di identificazione traslato che si mescola con il senso di colpa di avere smarrito il passato e disgregato la comunità. L'incapacità di condivisione ha inventato un feticcio e l'ha reso fisicamente presente.

Sul cono alluvionale di Gemona, i lampioni del centro sono visibili a distanza, di sera i canali delle strade compatte diventano delle stanze di luce. Giù, nella bassa, i rettilinei delle villette rimangono schiacciati senza prospettiva. È questo lo scenario che si presenta a chi guida sull'autostrada Venezia-Tarvisio che corre nella valle. Anche a uno sguardo a distanza, la città storica ricostruita appare come una favola abbandonata, l'insegna luminosa del vuoto che è stato creato per abitare questo luogo. Chi riuscirà a rendere abitabile il "com'era, dov'era"?

Pietro Valle, Gemona del Friuli, 1994
pietrovalle@hotmail.com
NOTA:

1. "Com'era, dov'era" è lo slogan più diffuso durante la ricostruzione del Friuli, usato prevalentemente dai rappresentanti del governo pubblico a significare la volontà di rifare l'ambiente esattamente com'era prima del terremoto. In esso è implicito il rifiuto di inventare un nuovo tipo di insediamento approfittando dell'opportunità della tabula rasa offerta dal sisma e la volontà di ricreare un modello già noto e rassicurante.
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