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Dall'immagine all'immagine, la realtà nascosta del depuratore di Sant'Erasmo

Pietro Valle



Gli interventi puntuali di C+S Associati sono caratterizzati da sensibilità e rigore. Rispondenza al programma e dialogo con il luogo, invenzione tettonica e chiarezza formale, ricchezza materica e iconicità figurativa. Ma non tutto funziona come appare. Nell'inquadrare un fenomeno che riguarda più ampiamente la produzione architettonica contemporanea, Pietro Valle commenta la realtà nascosta nel depuratore di Sant'Erasmo, pluripremiata opera di Carlo Cappai e Alessandra Segantini.



 
Un recente articolo sui collegamenti commerciali via nave spiegava che il trasporto marino, gestito da remoti centri di controllo, è oggi descritto con il termine "physical Internet" che lo equipara a una materializzazione della rete di informazioni. Il Web ha ormai raggiunto un tale livello di diffusione che diventa esso stesso parametro per la dimensione fisica dei trasporti. Il reale non sembra più incorporato nel mondo sensibile, ma in una serie di paradigmi comunicativi che ordinano tutte le forme espressive, fisiche e non. L'esempio del trasporto marino fa comprendere che tali paradigmi non rifiutano la materialità in nome di una presunta superiorità del flusso delle informazioni, semplicemente giudicano il mondo fisico attraverso parametri derivati dall'efficienza di queste.

In tale corrispondenza, non pare esserci più "scoperta" del mondo, ma il suo mero "inserimento" in modalità operative già preformate. Lo sguardo, totalmente omologato, non ha più bisogno di esplorare per conoscere, ma, al massimo, attua un "riconoscimento" o una "iconizzazione" di canoni già noti. L'immagine visiva, il più potente strumento della comunicazione contemporanea, esiste staccata da qualsiasi corpo e fluttua attraverso diverse dimensioni. Si attualizza alternativamente in media immateriali e in monumentali strutture, rimanendo trasversale e indifferente ad essi. Essa, tuttavia, non è libera, ma orientata alla massima efficienza d'impatto pubblico da strategie commerciali. Non parla d'altro che di sé e diviene valore assoluto, misurabile nella quantità di ricezione che ottiene. In ciò non è più strumento di mimesi, non si relaziona a realtà esterne a sé, non funge da significante. Per citare i termini enunciati da Jean Baudrillard nel suo classico Il sistema degli Oggetti, l'immagine (ma il filosofo francese si riferiva all'intera realtà) non è più "denotativa" d'altro, ma solo "connotativa" di se stessa.

Le conseguenze di questa ritirata dal mondo percepito, da qualsiasi "sorpresa" l'ambiente possa riservare, dalla relazionalità tra immagine e materia, sono ormai irreversibili ed hanno un'influenza anche per chi opera per plasmare lo spazio fisico. L'architettura stessa è entrata ormai da decenni nel regime dei segni collettivi condivisi con la comunicazione commerciale e non può più essere considerata una disciplina autonoma come pensa una certa tradizione accademica. Essa circola prevalentemente in forma d'immagine e come tale può essere manipolata, diffusa e addirittura imposta all'ambiente fisico. Gli edifici sono diventati una delle tante merci di scambio che opera secondo i canoni del marketing sfruttando l'impatto della propria immagine. Questo ha generato un nuovo conformismo progettuale che alterna gesti spettacolari (l'immagine d'accento, la novità da consumare) con la presenza di icone riconosciute pubblicamente (l'immagine famigliare, già accettata). Lo spazio pubblico, sovraccarico di elementi omologati, è diventato sempre di più esempio "reale" del potere della comunicazione e prova tangibile che anche il "costruito" non è più un valore da contrapporre alle immagini, ne è, anzi, il suo strumento.

È cambiato il modo di lavorare in architettura e questo influenza i metodi di valutazione della relazione tra il pensiero e la sua materializzazione. Il progetto è meno strumento di ricerca e sempre più ottimizzazione di figure che diventano realtà costruita. Alla tradizionale sequenza composta di analisi del programma e del sito > processo di ricerca progettuale > elaborazione di una forma architettonica che relazioni sito, programma e tecniche > sviluppo costruttivo > realizzazione materiale > riproduzione fotografica del manufatto finale > diffusione comunicativa dell'edificio costruito se ne è ormai sostituita un'altra: selezione (inconscia o strategica) dei modelli iconici da impiegare > loro adattamento a programma e sito > diffusione e promozione del progetto in forma virtuale > traduzione non mediata delle forme nel costruito per farlo corrispondere il più compiutamente a una realtà delle immagini preformata > diffusione, seconda e finale del manufatto costruito come prova della corrispondenza tra immagine e realtà fisica. Non si creda che in questa cortocircuitazione delle immagini, l'appropriatezza costruttiva o una certa tradizione "disciplinare" dell'architettura costruita non trovino posto. L'architettura si è sempre avvalsa della diffusione attraverso immagini e canoni, ma essi fungevano da "matrice" da interpretare secondo esigenze specifiche. Oggi si cerca, invece, la traduzione diretta delle immagini nel costruito cercando, semmai, di minimizzare i passaggi tra l'icona e la sua materializzazione.

Per quanto esistano più "generi" di architettura, essi sfruttano gli strumenti mediatici di diffusione dell'immagine nello stesso modo e, in ciò, sono meno distanti l'uno dall'altro di quanto appaia. Se non partiamo da questo assunto, il distinguere un atteggiamento progettuale da un altro rischia di diventare una sterile contrapposizione ideologica. Non esistono più confini che difendano una presunta "autonomia disciplinare" dell'architettura dal cattivo reale del consumismo. Nessuno è innocente, tutti impiegano le stesse strategie comunicative. Il problema è, semmai, capire se i progettisti sono consci dei limiti cui è sottoposta la professione di architetto. È, forse, la consapevolezza di come si affronta il processo progettuale nell'era dell'immagine che distingue gli architetti dotati di un senso critico dagli opportunisti del marketing o da coloro che si fanno dominare dai suoi meccanismi senza accorgersene.

Questa lunga introduzione serve per affrontare la lettura dell'opera di una coppia di giovani architetti italiani, il depuratore nell'isola di Sant'Erasmo dello studio Cappai-Segantini. Il duo trevigiano da alcuni anni lavora insieme al Magistrato alle Acque di Venezia all'inserimento di strutture ricettive e funzionali di piccola scala su isole della laguna veneta legate all'attività di riqualificazione ambientale portata avanti da quest'ente. Gli interventi puntuali di C+S sono caratterizzati da sensibilità e rigore; nell'insieme ambiscono a comporre una rete di punti di riferimento più grande della somma delle sue parti. Descrivono un atteggiamento nei confronti del territorio urbanizzato recente (e anche quello abbandonato post-industriale) che coglie ogni occasione per una qualificazione architettonica che può partire anche dalla più modesta scala, senza lasciarla soccombere alla banalità imperante che ha degradato il paesaggio italiano. Da un punto di vista, C+S, introducono oggetti architettonici "di qualità" nell'ambiente esistente, dall'altro, sembrano volersi distaccare da esso per via dell'assoluto formalismo dei manufatti da loro progettati, quasi questi ambissero ad essere degli archetipi che non si mescolano con il rumore di fondo del quotidiano.

L'operazione di C+S funziona nel silenzio delle isole semideserte della laguna veneziana. In esse, i loro edifici riverberano la loro presenza nel vuoto dell'orizzonte e si moltiplicano dei riflessi nell'acqua così come illustrati dalle fotografie delle loro presentazioni. Ma cosa succede quando si devono relazionare a una funzione dal più forte impatto? È forse questo il caso del depuratore delle acque, realtà tecnica "sporca", non certo uno spazio abitabile, ma comunque una presenza ingombrante in un ambiente paesaggisticamente sensibile.

La soluzione architettonica del depuratore di Sant'Erasmo è giunta come conseguente a un'importante decisione tecnica. C+S hanno lavorato insieme ai tecnici del Magistrato alle Acque per ridurre l'impatto del depuratore e sono riusciti, lavorando sui flussi delle acque, a interrare l'impianto di filtraggio, la parte più ingombrante di questa complessa macchina idraulica. Fuori terra sono rimasti l'area di essicazione dei fanghi, una cabina elettrica e una stanza per la manutenzione dell'impianto. La parte interrata appare come puro disegno al suolo, un insieme di forometrie di copertura della stanza sotterranea che compone un pattern geometrico pavimentale. Gli ambienti esterni sono stati chiusi in quattro muri paralleli di cemento spessi un metro, sfalsati a coppie e trattati con pigmenti color rosso scuro. I tamponamenti tra queste strutture lineari sono stati realizzati in pannelli di legno Iroko che coprono portoni, finestre e recinzioni.

I muri si allineano planimetricamente con la rete di canali di irrigazione che servono le coltivazioni poste sul bordo della laguna diventando quasi un'estrusione tridimensionale del terreno. Il loro colore ruggine richiama quello delle batterie difensive di mattoni costruite dal governo austroungarico sull'isola nell'Ottocento e invita alla lettura del depuratore come una monumentale rovina o come il frammento di un'infrastruttura più estesa. Allo stesso tempo, il suo linguaggio astratto, richiama precedenti della cultura architettonica e artistica moderna: i recinti delle case a patio di Mies, i muri colorati di Barragan, le sculture dell'arte Minimal e la loro traduzione in diverse architetture pubbliche della scuola spagnola e portoghese degli ultimi decenni, alcuni progetti della Tendenza italiana (Aldo Rossi e Giorgio Grassi) con la loro ieratica ripetizione di strutture parallele. Nel rivestimento del depuratore, C+S declinano contestualismo e tettonica, riferimenti colti e richiami paesaggistici, costruendo un manufatto che è parallelamente lineare e complesso, semplice e stratificato.

Se dovessimo seguire lo schema tradizionale della genesi del progetto architettonico che abbiamo sopra descritto, potremmo riconoscere nel depuratore di Sant'Erasmo una sequenza che lega rispondenza al programma e dialogo con il luogo, invenzione tettonica e chiarezza formale, ricchezza materica e iconicità figurativa. Non tutto funziona, però, come appare e il termine per rivelare una differenza sta proprio nella parola rivestimento. Non c'è dubbio, infatti, che C+S, nel nascondere l'impianto di filtraggio e nel rinchiuderne gli annessi all'interno dei muri, abbiano completamente mascherato le sue reali funzioni. Il manufatto potrebbe quindi essere analizzato secondo i canoni della seconda sequenza, quella del progetto nell'era dell'immagine. La sua descrizione suonerebbe così: C+S hanno individuato un'immagine architettonica riconosciuta (quella dei riferimenti di muro che abbiamo citato) e l'hanno forzata su una struttura tecnica, minimizzandone le caratteristiche e nascondendola completamente all'interno del nuovo "vestito". Esso è fisicamente presente solo in parte: uno sguardo alla planimetria della struttura mostra che i muri paralleli sono solidi solamente nelle testate, essi cingono una stanza che li attraversa violandone il parallelismo.

Il grande ambiente di filtraggio interrato non partecipa alla realtà dei quattro muri, esso è un puro ingombro da nascondere mentre la ricchezza coloristica e materica delle finiture di questi appare addirittura eccessiva. Visto da un prospettiva funzionalista e costruttiva (quelle qualità che, un tempo, erano riassunte nella parola "appropriatezza"), il depuratore, col suo formalismo, appare completamente esagerato. Dal punto di vista della regia di un'immagine dell'architettura il suo artificio può essere, tuttavia, giustificabile: possiede un'insincerità completamente postmoderna e in linea con tante architetture pubblicate nel presente periodo storico. Il problema principale è forse quello della negazione della presenza tecnica che racchiude, della sua non volontà di relazionarsi con essa. Se andiamo a compiere una breve indagine degli atteggiamenti dell'architettura moderna e contemporanea nei confronti della presenza di strutture tecniche all'interno degli edifici, troviamo sì tentativi di iconizzazione, ma raramente un così totale annullamento della loro realtà.

Possiamo, sommariamente, distinguere tre atteggiamenti.

- Il primo coglie la presenza di strutture e macchinari per una loro integrazione e monumentalizzazione nell'immagine tettonica dell'edificio. Un classico esempio sono i Laboratori Richards a Philadelphia di Louis I. Kahn dove i condotti degli impianti diventano torri verticali che articolano i fronti di una sorta di San Gimignano modernista.
- Un secondo atteggiamento, ottimista nei confronti della tecnologia, iconizza le macchine, trattandole come giganteschi ready-made pop, feticci colorati della modernità. Non è forse questo il messaggio del Centre Pompidou e di altri frammenti di megastrutture degli anni Sessanta-Settanta? Qui varrebbe la pena di citare un caso di depuratore delle acque, quello costruito a Berlino nel 1975-76 da Ludwig Leo, con il suo tubone colorato di rosa che emerge come una proboscide da una scatola di doghe di metallo.
- Un terzo approccio, più meditato, coglie la presenza tecnica per quello che è e la traduce in strutture che non nascondono né amplificano la loro funzione, rivelandola, anzi, come anti-forma. È questa la posizione di Alvaro Siza nella fabbrica Vitra a Weil-am-Rhein o nella torre dell'acqua di Aveiro: contro qualsiasi mistificazione, un muro di mattoni e una scatola sospesa di cemento dichiarano esattamente il loro uso senza paura di mostrarne la banalità. A un livello più estremo, c'è il lavoro dell'artista-architetto Francese Laurent Pariente che tratta la fabbrica Le Panetier a Saint-Martin-Boulogne come un banale assemblaggio di scatole lasciandone l'involucro di cemento al grezzo in un'anti-monumentale riduzione.

Attraverso l'integrazione, la feticizzazione o la semplice dichiarazione di presenza, queste posizioni, per quanto parziali, cercano tutte un dialogo con la macchina, indagano la sua posizione nei confronti dello spazio architettonico, la sua importanza (o non) come messaggio pubblico. Nulla di tutto ciò avviene nel depuratore di Sant'Erasmo, ammantato nella sua cosmesi architettonica. La realtà della funzione è sostituita da un'immagine che può anche non avere nulla a che fare con essa, anzi, costruisce una presenza materiale aliena alla macchina da nascondere. I quattro muri rossi parlano di qualcos'altro: della cultura (o, meglio, dell'informazione) architettonica dei progettisti, della loro disperata volontà di risultare visibili, della costruzione dell'immagine, della sua estraneità alla realtà vissuta.

Il destino di molta architettura recente è di diventare monumento di se stessa, di terminare il suo compito nell'aura della riconoscibilità. Purtroppo questo è anche la causa del suo conformismo, della sua irrimediabile caduta nell'omologazione. Joseph Rykwert parlava anni fa di "necessità dell'artificio" e la sua frase indicava la tensione tra realtà e invenzione, tra contesto di partenza e la sua trasformazione attraverso il progetto architettonico. Oggi questa trasformazione sembra avere dimenticato il punto da cui è partita, si orienta solo sull'efficienza del risultato perdendo per strada la funzione relazionale dell'architettura. Chi scrive, quindi, per quanto riconosca l'abilità di Cappai-Segantini nel confezionare manufatti costruiti, non pensa che basti allinearsi agli standard iconologici dell'architettura per dare un messaggio di responsabilità culturale. Bisognerebbe, semmai, riflettere su quali premesse si fonda l'architettura oggi, invece di mutuarne l'immagine da un catalogo preformato.

Pietro Valle
pietrovalle@hotmail.com
[10 maggio 2009]

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