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...una
rosa non è il pane. Dalla logica all'architettura e ritorno. Conversazione con un informatico e un architetto Marialuisa Palumbo |
Walter
Aprile è un informatico con una duplice specializzazione in lessicografia
e linguistica ed una particolare passione per gli ambienti collaborativi
online che lo ha portato a sviluppare nel '94 il primo MOO italiano,
LittleItaly,
e successivamente a divenire redattore di Everything2,
un ambiente di scrittura collaborativa. Attualmente è professore di
Computer Technology presso l'Interaction Design Institute di Ivrea.
Stefano Mirti, architetto e responsabile del settore architettura
presso lo stesso istituto, è tra i fondatori del gruppo Cliostraat.
Dal 1998 al 2001 ha lavorato all'Università di Tokyo dove ha realizzato
i progetti per la Casa
in policarbonato e i Giardini
al neon. Nel quadro dalla collaborazione tra Walter e Stefano
(oltre che con gli altri membri di Cliostraat e di Interaction-Ivrea)
sono nati alcuni dei loro progetti più recenti come Paper
fish in plastic water e Grace
Under Pressure, nonché la rubrica Simple
Tech e la mostra Nodi.
[MLP] |
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MARIA
LUISA PALUMBO: La mia prima domanda è per l'informatico... e riguarda il rapporto tra 'logica' e 'tecnica' dal momento che come mi dicevi chiacchierando sul tuo corso all'istituto, il primo ciclo delle tue lezioni riguarda la storia della logica... come fondamento per arrivare a parlare di programmazione digitale... Chi sono i protagonisti e quali sono le idee ed i passaggi fondamentali della storia da cui nasce il pensiero e il linguaggio digitale? |
[12mar2003] | |||
WALTER
APRILE: Cara Malupa, fare il discorso completo sarebbe difficile, lunghissimo
e poco adatto al web. Per cui mi limito a sparare qualche nome appena
giustificato, tanto per farci quattro risate assieme. Il primo nome
è Aristotele (BUM, è vero, ho iniziato subito con i grossi calibri,
ma io intanto mi sono coperto il culo alla grande: prova a refutarmi
Aristotele, caro lettore, ti voglio proprio vedere...), in particolare
l'idea di sillogismo. Il sillogismo ha di meraviglioso che è una macchina
per pensare, anzi di più, è una macchina che pensa per te.
In pratica: io ti convinco che - se tutti gli A sono B - e se C è un esemplare di B - allora C è A tu lo accetti, e la macchina è costruita. Tutti i taponghi sono mammiferi, Wilma è un tapongo, Wilma è un mammifero. È tanto macchina che uno ci può credere anche se non ha nessuna idea di cosa sia un tapongo. Gli scolastici si erano abbandonati ad un lavoro di classificazione/mnemotecnica meraviglioso sul tema del sillogismo, un divertimento senza fine. Altro tocco interessante, Ramon Lull (o se si preferisce, Raimondo Lullo) che, riconosciuta la natura meccanica di questo particolare tipo di pensiero, si propone di costruire appunto delle macchine che, con una tecnologia medievale a base di ruote e cartigli avrebbero prodotto una verità dopo l'altra. Anche Leibniz fa una proposta analoga, tesa a formalizzare la logica. Insomma, c'è un desiderio storico di portare questi processi di pensiero verso un crescente formalismo (e una sperabile affidabilità). Ramon Lull. Poi, altri grandi... ci sono da citare alcuni grossi nomi premoderni, Vaucanson, i fratelli Droz, Jacquard, che tutti riescono a meccanizzare diversi processi. Queste sono le prime macchine programmabili (i telai Jacquard sono macchine a schede perforate per fare gli arazzi Gobelin, la tecnologia è in uso ancora oggi). Però queste macchine non sono macchine universali: sono tutti dispositivi che eseguono una sola sequenza di operazioni; questa sequenza può essere alterata cambiando il pacco di schede. A questo punto bisogna citare Charles Babbage, che ha per primo l'idea di un calcolatore universale; una Macchina Analitica (qui siamo nell'era vittoriana, quindi doveva essere un prodigio di ottone e acciaio, mosso dalla forza del vapore) che avrebbe potuto attaccare ogni problema matematico. Babbage non era un genio incompreso, anzi, godeva di un immenso rispetto per i suoi risultati accademici. Però l'Inghilterra del tempo in effetti non aveva questo grande bisogno di potenza di calcolo (come si può forse intuire da questa pagina web e da questo eccellente libro The Difference Engine: Charles Babbage and the Quest to Build the First Computer di Doron Swade), quindi la sua macchina rimane allo stato di disegni. Charles Babbage, Macchina delle differenze. Il passo successivo è di natura matematica, ed è dovuto a Goedel, Turing, Church ed altri. È possibile ridurre la soluzione di ogni problema matematico "ragionevole" (e non entro nella definizione di ragionevolezza, se no diventa un vero macello) ad una serie di operazione elementari e semplici? La risposta sembra essere di sì, e Turing (supergenio inglese, c'è una bellissima biografia su di lui di Alan Hodges, Storia di un enigma. Vita di Alan Turing, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 1991), definisce una macchina programmabile generica che è un calcolatore universale. Calcola tutto, in dipendenza dal programma immesso. A questo punto, intorno alla seconda guerra mondiale, tutta la teoria dell'informatica più o meno si fissa; il resto è rispettabilissima ingegneria e sviluppo ed economia, però alla fine da ENIAC (1947) al computer che avete sul tavolo, sono tutte macchine di Turing. ENIAC, 1946. E alla fine (ammetto che questa è un po' una mia ossessione), il vero calcio nel culo alla disciplina viene dato dalla seconda guerra mondiale, dove finalmente nasce una vera, profonda, necessità di calcolo automatico accurato e veloce, prima per risolvere problemi crittografici e poi per simulare tra le altre cose certi aspetti delle esplosioni atomiche. Una volta assaggiati i piaceri della simulazione, gli scienziati e i militari ci prendono decisamente gusto, e il computer diventa assolutamente utile e spesso necessario per ogni genere di ricerca, business, attività su scala un po' grande. È appena il caso di ricordare che, per esempio, una banca moderna è in grado di andare avanti senza computer per un lasso di tempo molto inferiore alla giornata. E che ci sono diversi aerei che precipitano subito qualora si guasti il computer di bordo. |
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Qui
ti ho fatto una delle solite cavalcate storiche che sono simpatiche,
però resta ancora uno iato molto grande tra tutte queste bellissime
macchine matematiche e i problemi che sono rilevanti per l'uomo. Questo iato viene colmato da un ciclo abbastanza visibile di capacità–desiderio–capacità– desiderio, in cui capacità e strumenti tecnologici vengono sviluppati con un determinato obbiettivo, diventano noti, e trovano nuove funzioni. Queste nuove funzioni rendono immaginabili e desiderabili nuovi sviluppi che a loro volta... quando poi una tecnologia (ma è più appropriato parlare di un sistema di tecnologie; per esempio il computer fa parte di un sistema in cui ci sono i semiconduttori, e quindi le tecnologie dei materiali, del vuoto, della microscopia elettronica...) raggiunge un ottimo (naturalmente l'ottimo ha delle definizioni oggettive, che si possono dare a volte perfino in termini termodinamici ma più di sovente in termini culturali), l'innovazione si ferma. Se poi anche l'applicazione cessa, il complesso di tecnologie diventa obsolescente e in ultima analisi perso. Ci sono già delle tecnologie che stiamo perdendo per strada, per esempio se uno oggi vuole leggere o scrivere un pacco di schede perforate o anche solo un floppy da 8" si trova in mezzo ad una marea di problemi molto irritanti. Questi problemi, ed è interessante, non sono mai di natura logica; non c'è niente di illogico o sbagliato in un nastro di computer o in una scheda perforata IBM degli anni '60. Però dal lato pratico e tecnologico sono dei relitti il cui uso diventa sempre più complicato e tendenzialmente impossibile. Scheda perforata. Aggiungo anche, e mi fermo, che oltre ad un'evoluzione oggettiva e misurabile della tecnologia (quante moltiplicazioni faccio in un secondo, quante transazioni della carta di credito VISA tratto in un minuto, quanti byte mi stanno in un decimetro cubo)... ce n'è anche una più sottile che è quella del valore comunicativo del computer, che passa da: 1. oggetto misterioso per scienziati, come gli acceleratori di particelle oggi. Cosa fanno? Accelerano. Cosa? Particelle. Ah be'... cioè un oggetto che una frazione infima di persone capisce e considera interessante. Impossibile da comprare, bisogna costruirselo apposta. 2. seria macchina per il business, un po' come una centrale elettrica oggi. Nessuno ha la sua personale, però tutti capiamo vagamente cosa fa; da comprare fatta su misura, con software serissimo. 3. dispositivo di produttività personale, che fa di te una persona moderna e produttiva; da comprare in un negozio specializzato, come un Apple Store. 4. oggetto banale, come un CD audio o un cacciavite; da comprare al supermercato. chiaro, sempre limitatamente al mondo occidentale di USA + Europa + varie dependance sparse per il mondo. Adesso noi stiamo entrando nella fase 4, cioè avere un computer di te dice solo che un giorno avevi mille dollari da buttar via... È interessante osservare, però, che nel parlare di computer e mondo digitale anche i valori di comunicazione da 1 a 3 rimangono presenti, in forma velata e sottile. Nel vedere come dispositivi digitali vengono inseriti in progetti architettonici, è interessante capire a quale di questi (ed altri) valori comunicativi della presenza e uso del computer si fa riferimento. |
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STEFANO
MIRTI: Ecco, proprio da questa domanda e questa risposta parte l'inferno. ML fa la sua domanda ragionevole e onesta. Signor Walter, dimmi un po' della logica, i protagonisti, le idee, i capovalori della logica... Walter, che del settore è il guru indiscusso, risponde perfettamente. La difficoltà reale sta nel fatto che l'architettura, il design non funzionano mai in termini di logica pura. Lavorare con Walter è per me straordinario perché lui ha un algoritmo per ogni cosa. Se si allaccia le scarpe c'è un algoritmo perfetto, se si cucina pure, se si fa un viaggio non ne parliamo. Dopodiché, nel 90% dei casi procedere per algoritmi logici è meraviglioso e utilissimo. C'è poi un 10% dei casi dove non l'algoritmo non solo non serve a nulla, ma anzi, si tratta di operazione deleteria. Con la logica, l'intelligenza, possiamo riuscire ad arrivare praticamente dovunque. Però, ancora, ci sono pezzi dove non funziona. In genere, tutte le questioni reali che catturano la mia attenzione sono mondi in cui la logica risulta essere uno strumento abbastanza spuntato. Per esempio, a me affascina tantissimo l'idea della morte. Sia in termini esistenziali, ma anche in termini più pratici, più applicativi... Uno dei pezzi più belli della mia tesi era il progetto di un cimitero. Che era un progetto che a me era piaciuto moltissimo fare: mi aveva costretto a fare un sacco di ragionamenti su di me, sul mondo, su come mi immagino io la morte, le persone che non ci sono più. L'idea di memoria, di perdersi nei ricordi... Se devo progettare una centrale nucleare l'algoritmo logico è fondamentale. Se devo progettare il luogo della morte, il luogo di dove forse raggiungo Dio, allora è diverso. A mio parere l'architettura è il luogo delle emozioni, delle passioni, quel posto dove scattano delle cose nelle parti più nascoste della nostra testa. È un po' come una magia. Che ha le sue regole, le sue logiche, che però non sono quelle del matematico. Chennesò. A me affascina molto pensare se poi per caso Dio esiste. Mi sembra ragionevole ipotizzare che per certo, se così fosse, non ci arrivo con la logica. Cosa capita però? Che il mago, quando va a fare la spesa, usa la calcolatrice perché gli torna comoda. L'ingegnere elettronico invece (mediamente) disprezza il mago e le sue pratiche. C'era questo passaggio famoso in cui uno va a casa di Niels Bohr in campagna. E sulla porta c'è un ferro di cavallo. Allora, stupito, chiede: 'mi scusi, ma lei che è nella topfive dei fisici del ventesimo secolo, perché mette un ferro di cavallo sulla porta?' Allora, Bohr gli risponde: 'mah, in linea teorica io lo so che mettere un ferro di cavallo sulla porta non serve a nulla. però non si sa mai. Fosse mai che porta fortuna... alla peggio, male non mi fa'. Ecco. Questo a me piace. Il progetto è il terreno dove la logica si mescola con le emozioni, dove è bello fare che il marchingegno funziona ma che nel contempo il cuore ti batte forte. A mio modo di vedere, fare funzionare la cosa è uno strumento fondamentale che mi consente (eventualmente, se sono bravo, se sono capace) di ingenerare successivamente emozioni. Io credo che l'architettura sia fatta di emozioni. Da un certo punto di vista, anche se sembra paradossale, l'architettura è il modo più semplice per articolare lo spazio, ma soprattutto il tempo. L'architettura è una meraviglia perché mi consente di modellare il tempo, di plasmare la realtà, di fare sognare le persone. Qualche tempo fa mi ero appuntato questa frase che mi sembrava bellissima: 'the conditions for a passionate life already existed, but we went through distruction to be able to recover them'. Che e' una frase da capezzale, di quelle robe che mi piacerebbe averla stampata sul mio cuscino. Ecco. All'interno degli orizzonti di quel mondo lì, la logica ha un peso limitato. Come quando Asger Jorn dice che dovremmo lavorare all'urbanistica in termini di fantascienza. A me sembra giusto. Per altro, Asger Jorn è un genio da cui è ovvio che è giusto... : ) Questa idea che i progettisti del ventunesimo secolo debbano sostanzialmente progettare avventure meravigliose dentro le quali perdersi. Il mondo come palcoscenico... Che meraviglia. Insomma, quello che voglio dire è che se vivessimo in un mondo in cui la logica ha un peso effettivo parleremmo tutti in esperanto, useremmo delle tastiere del computer con le lettere disposte in maniera diversa, non useremmo le automobili private, non ci sarebbero n milioni di persone che muoiono di fame... Per un tot motivi che riesco a intuire solo fino a un certo punto tutto questo non capita. Allora, mi viene da pensare che la logica è uno strumento straordinario ma solo fino a un certo punto. E che in termini di ricetta complessiva ci sono ingredienti molto importanti quali le abitudini, la memoria, le emozioni, i desideri... Tutto questo proprio perché a me piacerebbe cambiare il mondo. Ma se ho questo desiderio, devo essere lucido e attento, sennò poi alla fine non succede nulla. Sono sicuro che Walter può aggiungere un sacco di cose sensate su questo argomento... |
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WALTER
APRILE: Mi viene qui da dire che gli informatici (ma anche gli ingegneri)
godono di questa fama un po' immeritata di essere dei quadratoni mossi
dalla logica e basta. In realtà anche noi siamo mossi dal desiderio,
a volte sono desideri poco comprensibili... Per esempio, uno dei progetti più interessanti di questi ultimi anni è Linux. Non è straordinario tecnologicamente, alla fine è un'ennesima reimplementazione di UNIX (come del resto il cromatissimo OS X di Apple). Però il processo che porta a Linux, questo è interessante. Centomila persone in tutto il mondo vogliono, fortissimamente vogliono, nei limiti delle loro capacità, avere un sistema operativo di loro gradimento sul loro computer. La persona media nemmeno sa che cosa sia un sistema operativo, e va bene così, però questi centomila lo sanno, ed hanno delle opinioni molto precise su cosa sia bello o brutto in questo dominio. E fin qui... nel mondo ci sono di sicuro centomila persone che vorrebbero l'auto ad energia solare o l'aliante personale a basso costo. Però quelli di Linux trovano una maniera (complicata, litigiosa, antidemocratica) che funziona, e adesso Linux ce l'hanno e sono contentissimi. Desiderio... desiderio di prestigio, di essere i primi tra quelli che contribuiscono. A volte desiderio di avere il nome su Wired. Ma molto più spesso, desiderio di avere un certo rapporto, basato sul controllo personale, con la propria macchina. E il processo non è per niente logico. Linux (ma così molti altri progetti) sembra molto di più una pratica di improvvisazione collettiva che un elegante sviluppo in stile IBM. Ci sono i rami secchi, le sottoculture, quelli che non si parlano più da dieci anni, quelli che hanno fatto i soldi, i laudatores temporis acti, quelli che sono appena arrivati e hanno già capito tutto... La cosa che noi informatici non riusciamo mai a comunicare è questa; attorno a un frammento di software ci può essere tanta passione e emozione come attorno ad un edificio. Noi abitiamo nei nostri programmi (io personalmente abito molto di più nel mio computer che nella mia casa, la mia casa potrei sostituirla domani senza un secondo di rimpianto), nella nostra maniera di lavorare/divertirci/avere rapporti sociali – tre attività che sono sempre più mediate dal computer. Resta solo da dire che lo spazio del computer non è lo spazio dello schermo; è uno spazio molto più grande, fatto di strutture di informazione, alberi, gerarchie, dati, processi e metadati. I problemi di questo spazio sono problemi di informatica. Confondere lo spazio del computer con lo spazio dello schermo, o con le immagini che vi appaiono sopra, è un errore facile ma letale per la collaborazione tra informatica ed architettura. Videotelefono. Peraltro, mi è difficile vedere un modo per evitare questo errore. La manifestazione visibile dell'informatica è sempre la parte meno informatica del problema; d'altro canto la parte propriamente informatica è quella più difficile da comunicare perché è sfrenatamente astratta e lontana dai problemi dell'uomo (ma molto vicina ai problemi del calcolo). |
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MARIA
LUISA PALUMBO: Vorrei riprendere due frasi che avete detto: "l'architettura è il modo più semplice per articolare lo spazio, ma soprattutto il tempo. L'architettura è una meraviglia perché mi consente di modellare il tempo, di plasmare la realtà, di fare sognare le persone" (Stefano) e... "lo spazio del computer non è lo spazio dello schermo; è uno spazio molto più grande, fatto di strutture di informazione, alberi, gerarchie, dati, processi e metadati. I problemi di questo spazio sono problemi di informatica." (Walter) La cosa che io trovo affascinante è appunto il fatto che proprio 'la logica' -come presupposto della macchina elettronica- apparentemente così rigida, austera e antitetica rispetto al regno dell'emozione e del sentimento, sia in realtà la chiave di una nuova possibilità di articolazione di uno spaziotempo sicuramente diverso dal reale, così come siamo abituati ad intenderlo, ma non per questo meno abitabile... dal momento che, come diceva Walter, il proprio computer -vogliamo considerarla la propria porta d'accesso al cyberspazio?!- può diventare un luogo più vicino o intimo a noi della nostra casa... per non parlare poi delle emozioni, delle esplorazioni e dei sogni che possono dischiudersi al di là dello schermo... Del resto la nascita di vere e proprie comunità, e anche di vere e proprie patologie, legate all'abitazione dello spazio oltre lo schermo, credo sia una prova abbastanza tangibile della capacità attrattiva e 'contenitiva' di questo spazio. In questo senso, da architetto, io trovo un duplice orizzonte di interesse nei confronti del digitale: in primo luogo nei confronti della dimensione virtuale dello spaziotempo che si estende oltre lo schermo, ed in secondo luogo verso le possibilità di articolazione dello spaziotempo reale aperte dalle tecnologie informatiche, e più o meno legate all'esistenza di una nuova porzione di spazio oltre lo schermo -uso l'espressione per indicare una proiezione dell'esperienza al di là dell'esperienza immediata (o non mediata) del corpo. Ecco perché l'esigenza di interrogare la logica: capire ciò che sta dietro la tecnica, può essere una chiave per capire alcuni aspetti dello spaziotempo digitale... L'idea del sillogismo come macchina per pensare, in questo senso forse ci dà uno spunto significativo: l'esempio del 'tapongo' è illuminante... più che pensare per me, la macchina mi permette di pensare qualcosa che non conosco... in altri termini mi permette di fare un salto... e alleandosi strettamente con la mia capacità di immaginazione... mi permette di farmi un'immagine del 'tapongo'... ...il che forse ci dice che lo spaziotempo virtuale è una dimensione in cui l'elaborazione mentale - legata all'immaginazione, all'emozione, alla memoria, all'astrazione etc.- dei dati 'oggettivi' ha ancor più peso che nell'esperienza dello spaziotempo reale. Walter, in una pagina di introduzione a Little Italy la sua 'definizione' ci dice: "LI è divisa in stanze. L'utente si sposta da una stanza all'altra mediante delle uscite e trova degli oggetti con cui interagisce. Questi oggetti possono essere collegati ai vari servizi disponibili su Internet. Il termine stanza non deve trarre in inganno; LI contiene una cattedrale, un deserto, un paio di stazioni spaziali, un bel pezzo di Marte, dei pericolosi reami sotterranei, una foresta, la Valsurpa, e altro ancora." Cosa significa? E come mai lo spazio ha tanto peso in una realtà virtuale di solo testo? |
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WALTER
APRILE: Lo spazio ha tanto peso in LI perché gli esseri umani
organizzano l'universo in uno spazio tridimensionale. Per rendere intellegibile
lo spazio di LI, che di per sé sarebbe solo un grafo arbitrario,
si è trovato comodo organizzarlo in modo un po' simile a degli
spazi reali. Naturalmente questo ci è riuscito solo in parte,
in effetti quello che succede è che Little Italy come certi sogni
ha una coerenza locale. Il complesso non ha senso, ma la parte
che è davanti ai miei occhi momento per momento funziona. La coerenza locale (e non globale) è un'ovvia conseguenza del modo di costruire usato per Little Italy vale la pena di descriverlo perché è una tipica organizzazione (o disorganizzazione) dello stile Internet. L'utente del sito chiede una certa quota. Questa quota è un'unitá di misura delle risorse del sistema; un punto di quota permette di costruire un oggetto, costruire una stanza, collegare una stanza ad un'altra. Una volta che tutta la quota è consumata se ne può richiedere dell'altra ai wizard, che sono i soliti amministratori cooptati, autocratici e tendenzialmente matti, perché solo dei matti possono appassionarsi come ci succedeva per l'amministrazione dell'immateriale. Permettimi poi di osservare qualcosa su quello che tu hai detto... è vero che la virtualizzazione dello spazio di Little Italy può sembrare qualcosa di puramente digitale, però non mi sembra di dire niente di innovativo o curioso se osservo che anche determinati mezzi di trasporto fanno lo stesso scherzo. Quando sono venuto per la prima volta a vivere a Milano lavoravo a Cologno Monzese, e vivevo sui Navigli. Prendevo alla mattina la linea verde della metropolitana alla fermata di Romolo, e dopo un tempo prevedibile arrivavo in un posto dove c'era il lavoro, nei pressi di Cascina Gobba. Quello che c'era in mezzo mi era assolutamente sconosciuto, forse non mi interessava nemmeno, la metropolitana trasforma lo spazio metropolitano in uno spazio molto simile alle mappe della metropolitana; un grafo che collega dei punti. Lo spazio tra i punti non è interessante, dal punto di vista del grafo non esiste nemmeno. Lo spostamento in Little Italy è molto simile. Cosa c'è tra un luogo e l'altro? Rigorosamente non c'è nulla, c'è del non-spazio simile ai tunnel della metropolitana. Non vorrei farmi trasportare dall'analogia, ma anche in Little Italy vuoi per errore, vuoi per intenzione si può finire nel non-spazio. È un'esperienza sconcertante; non ci si può più muovere (e dove si andrebbe?) e non si può nemmeno parlare (è solo la stanza lo spazio che permette di comunicare con gli altri). L'unica cosa che si può fare è mandare messaggi telepatici a qualcuno e chiedergli di tirarti fuori. O dentro. Un'altra osservazione che mi sembra ci stia è questa; il computer era già un fenomeno socialmente incisivo prima di Internet. Con Internet lo è diventato anche di più, ma bisognerebbe guardarsi dal mescolare le due cose. Internet è una rete, la piú grande rete di comunicazione digitale, non la prima, non l'unica e spero nemmeno l'ultima. Il computer, la macchina programmabile da calcolo, non è cambiato (in quel senso sostanziale a cui accennavo prima) negli ultimi dieci anni. Quello che è cambiato nettamente è il modo in cui il computer si immerge nella società. Internet ha reso possibili tutta una serie di applicazioni nuove, ed ha ampliato molto l'attrattiva del computer, quindi più persone lo vogliono comprare, ed è interessante come ormai l'utente non tecnico del computer non distingua più tra Internet, Web e uso del computer. Sembra essere un tutt'uno, e ormai fare la distinzione è una cosa che denuncia una certa età anagrafica o una passione per la tecnica. Però mi sembra utile per l'architetto che vuole usare certe tecnologie mantenersi chiare nella testa delle distinzioni tecnologiche legate a dove inizia la macchina e dove finisce la rete, nonostante una fortunata campagna pubblicataria di SUN dicesse che il computer è il network, e il network è il computer. Infine sulla parola cyberspazio. Per me è una parola straordinariamente irritante, e non la userei proprio mai il concetto è estremamente vago, viene spesso applicata da giornalisti in cerca di sinonimi per "rete", "Internet"...e quindi cyberspazio. Qui Stefano mi dirà che sono il solito purista fastidioso; è che c'erano certe parole che avevano un certo significato, come "hacker", "cyberspazio", "pirata", "implementare", "protocollo". Questo significato con l'avvento dell'Internet di massa è cambiato, e si è reso impreciso e un po' puttanesco, perché sono parole che vorrebbero piacere a tutti. Per cui io ho dichiarato un personale embargo su cyberspazio e hacker. Magari tra dieci anni ci ripenso. Tornando sulla natura "solo testo" di Little Italy, a me è sempre parsa una cosa molto liberante per una certa categoria di persone, cioè i lettori forti. Finalmente un posto dove ingozzarsi di parole, e dove si possono usare le parole per costruire qualcosa, ma non nel senso metaforico in cui si costruisce la comunità o l'ambiente o la conoscenza; no, proprio, costruire; che prima non c'era una cosa, poi tu costruisci la cosa, e quella cosa rimane lì da vedere, da usare, da toccare, anche in tua assenza. Questa esperienza, che credo sia così primaria che descriverla è un po' imbarazzante, era per tutti noi nuova. Le parole in Little Italy sono le cose! Naturalmente per i pensatori visivi Little Italy è uno schifo assoluto. Dispiace per loro, però non è detto che tutto debba essere illustrabile o visivo (ho davanti a me in questo momento le poesie de "Il Gatto Lupesco" di Sanguineti, che non sono illustrate ma illustri ed illustrano il loro autore). |
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MARIALUISA
PALUMBO: Capisco le tue riserve nei confronti della parola cyberspazio,
e dell'associazione computer Internet, ma il problema è che tanto dal
punto di vista del fenomeno sociale, quanto da un punto di vista strettamente
architettonico, considerare la nuova continuità, tra il computer e il
Web -ma anche la televisione e tutti gli altri media che è possibile
collegare in rete- diventa un presupposto quasi indispensabile
per capire la portata della rivoluzione cognitiva in cui siamo coinvolti
-Derrick de Kerckhove parlerebbe dell'emergere della mente connettiva-
e anche e soprattutto in contesto architettonico per ragionare sulla
portata della rivoluzione digitale andando al di là della questione
della rappresentazione in ambiente digitale. A questo proposito, Stefano, mi piacerebbe capire che cosa succede nel tuo corso: 'Building as Interface'... |
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STEFANO
MIRTI: Bella domanda... Il corso inizia a maggio e lo sto preparando proprio adesso. Diciamo che ci saranno due parti, una di tipo teorico, la seconda più pratica. La parte teorica sarà articolata attorno dodici lezioni che sono in verità dodici racconti. Racconti a tema, in cui le immagini si mescolano al testo, a molteplici linee di testo. Il mese scorso sono stato in Israele e ho organizzato un taccuino di viaggio pensato per essere condiviso con i miei studenti via web. È stato il mio primo esperimento di questo tipo. Walter mi ha insegnato i primi rudimenti di html e tenuto conto di quello che capivo ho cercato di organizzare un sistema narrativo più o meno sensato. Diciamo che in termini di forma, il link sopra porta a una versione 1.0 di quello che mi piacerebbe fare. Dodici storie nelle quali si mescolano l'architettura, alcuni libri che mi stanno a cuore, alcuni pensieri, la questione dell'edificio inteso come interfaccia. Ovviamente, rispetto all'esempio linkato precedentemente, la questione dell'edificio come interfaccia sarà trasversale a tutti i racconti, avrà un peso maggiore. Quello di prima era semplicemente un taccuino di viaggio senza finalità diretta di alcun tipo. Sono stato lì, mi è piaciuto, è stato un viaggio interessante, era bello cercare di condividere con altri questa esperienza. I temi delle storie saranno comunque molteplici. Una storia di intimità, una storia di luce naturale, una storia d'acqua, una storia della notte... Raccogliere le proprie idee, impressioni, immagini rubate qui e là è assolutamente fondamentale per un designer. Da cui, se organizzo dodici racconti intorno ai miei taccuini di viaggio (magari riorganizzati a tema), il tutto può essere ragionevolmente affascinante. Le immagini che accompagnano le mie parole e i miei ragionamenti in questo articolo sono per l'appunto frammenti sparsi di questa struttura narrativa a cui sto lavorando. Mi scuso molto per l'inglese, ma la maggior parte dei nostri studenti di Ivrea non sono italiani e dunque le comunicazioni avvengono sempre in inglese. Esaurita la parte relativa ai contributi di carattere teorico, ci sarà poi una parte pratica, un progetto vero e proprio. Il tema sarà all'incirca questo: immaginiamo che dobbiamo progettare un bar. Un bar temporaneo, eventualmente mobile. Come fosse un chiosco, un parallelepipedo dalla volumetria semplice e chiara. Ecco, si potrebbero prendere le dimensioni di un container. Questo parallelepipedo deve diventare un bar. Con tutte le caratteristiche tipiche del bar italiano: luogo della socialità, del benessere, del consumo, della chiacchiera, dello scambio di informazione. Bene. Adesso immaginiamo che al primo bar ne venga affiancato un secondo. Identico al primo. E che questa seconda unità sia però posizionata in un luogo diverso. Come è possibile immaginare gli elementi di cui parlavamo sopra (socialità, comunicazione, scambio di informazione) tra le due unità distanti? Questa operazione di comunicazione ha un senso? Come può essere fatta in termini culturali, tecnologici? Quali potrebbero essere le interfacce più appropriate? Ok. Sin qui il tutto più o meno fila. La domanda che uno si pone è la solita: ma perché a me dovrebbe venire voglia di comunicare con un altro che sta da un'altra parte del pianeta (o anche solo a tre isolati di distanza)? Che peraltro è una domanda più che sensata e ragionevole. Da cui, in questo momento sto cercando di capire se si potrebbero immaginare questi due bar in due luoghi in cui la comunicazione è al momento negata e/o impossibile. Per esempio, che cosa succede se uno dei bar è nel quartiere dei locali della vita notturna di Tel Aviv e l'altro e a Hebron o Gaza? Se esiste un confine (fisico o concettuale), possiamo immaginare che ci sia un edificio (in questo caso due) che interfacci le due parti? Quali le difficoltà? Quali i limiti? Ovviamente, tutta questa seconda parte richiede una tonnellata di lavoro di preparazione. I contatti laggiù, verificare le fattibilità (almeno di tipo culturale e concettuale), trovare un partner che magari si occupi di caffè, bar e affini... Di nuovo, è uno di quei momenti in cui è assolutamente centrale partire dalle domande. Essere sicuri che siano domande sensate e intelligenti, che ci possano portare da qualche parte, che altre persone possano essere interessate a questi argomenti... Insomma, al momento sono nel pieno della preparazione, appena il tutto si struttura un poco meglio provvederò a informarti... : ) |
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MARIALUISA
PALUMBO: O.K.! Però questa questione del rapporto edifico/interfaccia si lega ad una problematica per me centrale... infatti, sono fermamente convinta che per portare avanti la ricerca architettonica cercando di elaborare risposte alle domande specifiche del nostro abitare la Terra oggi, cercare di capire come reti e circuiti -e tutto ciò che appartiene all'universo informatico digitale al di là del singolo computer- possano accostarsi e integrarsi in cemento vetro e mattoni, sia un lavoro faticoso ma fondamentale... In questo senso, la contaminazione tra architettura informatica ed elettronica mi sembra quasi una condizione indispensabile anche semplicemente per poter pensare e ragionare su una nuova architettura... STEFANO MIRTI: Ecco... Già qui io mi perdo... In genere quando mi trovo davanti le persone che stanno elaborando le risposte, dopo circa venti secondi la mia attenzione decade. A prescindere dalla risposta. A me sembra che è abbastanza ragionevole immaginare che sia abbastanza l'opposto. Il mio ruolo nel mondo non è elaborare risposte, quanto piuttosto formulare domande. A me delle risposte non me ne importa granché. Mi affascina moltissimo invece la capacità che hanno alcune persone, libri, luoghi, di ingenerare domande. Uno come Christopher Alexander è chiaramente un genio e un imbecille nello stesso istante. È un genio perché per arrivare a formulare una costruzione teorica come quella del pattern language devi essere otto spanne sopra tutti. È un imbecille perché se pensi di poter scorporare l'universo emozionale delle persone in trecento domande (con annesse trecento risposte tipo rischiatutto) tenderei a dire che non si va troppo lontano. 'Pattern Language' è una meraviglia per la capacità di Alexander di definire le domande. Quando poi passa a rispondere, il tutto diventa un po' grottesco. (Ma magari mi sbaglio). In questo senso la tecnologia avanzata è straordinaria. Che non si parte mai dalle domande, ma quasi sempre dalle risposte. Amico, eccoti quest'affare, si chiama 'blue tooth', 'broadband', 'wi-fi', adesso a te basta pensare alla domanda. Ma che cazzo di modo di procedere è, ma dove ci porta? |
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WALTER
APRILE: Ahinoi, ci porta ai prodotti (o almeno ad una certa classe di
prodotti). Il modo di procedere della tecnologia moderna è quello
lì, un fisico giapponese si addanna per dieci anni, finalmente
riesce a produrre i LED blu. Evviva i LED blu, quanto ci piacciono,
quanto sono belli sulla playstation... adesso che abbiamo LED rossi,
verdi e blu, possiamo fare splendidi schermi tricromatici. C'è poi da dire che molte evoluzioni tecnologiche sono veramente "more of the same", cioè evoluzioni e non rivoluzioni. Per dire (non voglio fare lo spaccone), però le reti wireless che adesso ci danno indicibili erezioni sono vecchie-ma-vecchie-davvero; una delle ispirazioni di Ethernet si chiamava ALOHA, era wireless, ed era molto prima del personal computer. Quindi grosso modo si riesce a prevedere che tra tot anni riuscirò a portarti sul tavolo un filo da cui esce un gigabit per secondo (e vi risparmio quanto fa in Bibbie). Fin qui l'informatica, l'ingegneria delle comunicazioni e altre scienze dure. Un gigabit, per capirci, significa l'intero contenuto di un CD ROM in sei secondi. Dovreste proprio fare uno sforzo di immaginazione, e pensare a tutti questi dischi argentei che schizzano fuori da un buco nel muro di casa vostra. Dieci per minuto. Apposta per voi. Il problema (ed è un problema già da oggi) è quello dei contenuti, chiaramente. Cioè, cosa viene messo su tutti questi CD, come lo faccio pagare, come impedisco che i cinesi me lo piratino, eccetera. STEFANO MIRTI: Voglio dire, nella storia delle tecnologie, mica funziona che un giorno uno inventa il frigorifero (una risposta), eppoi si passa tre anni a trovare la domanda (come faccio a conservare il cibo d'estate)? Il mondo dei newmedia + hightech è tendenzialmente un disastro perché si usa sempre questo modo di procedere. Viene stabilita una risposta eppoi si passa tutto il tempo a cercare le domande più appropriate. Adesso che gli ingegneri ci hanno dato il broadband, che cacchio ce ne facciamo? Boh. Chissà... Pensa ai Beatles. Non è che gli ingegneri inventano la stereofonia eppoi dicono: ecco, contattiamo Lennon e Mc Cartney che ci facciano delle canzoni meravigliose. È (ovviamente) l'opposto. Che Lennon e Mc Cartney, una volta incontrati gli ingegneri capiscono che possono fare delle canzoni molto più affascinanti di quelle che avevano fatto sin lì. Che se tu sei John Lennon e ti diamo un registratore a quattro piste + output sterefonico, è come dare dieci bombe atomiche a Saddam Hussein. Se tu dai a me il registratore a quattro piste, io non so cosa farmene perché non so comporre musica. Proprio in un momento come questo, in cui non si capisce nulla, in cui tutto è incredibilmente confuso, è molto più sensato ragionare in termini di domande che in termini di risposte. Partire dalle risposte non ci porta da nessuna parte. Il sistema delle domande è aperto, flessibile, in una mutazione continua possibile. Il sistema delle risposte è rigido, duro, fragilissimo. Se parti dalle risposte, ti schianti. Se parti dalle domande probabilmente ti schianti pure, però hai almeno qualche possibilità... ... ... ... Le reti e i circuiti che si contaminano con i mattoni... L'immagine è bella, è affascinante. Credo che si ritorna al discorso di prima. Che le reti e i circuiti hanno delle logiche che sono sostanzialmente diverse da quelle dei mattoni. Ma non loro, quanto piuttosto le persone che ci stanno dietro. |
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WALTER
APRILE: Ecco, io qui non sono completamente in accordo con Stefano.
Credo che le reti, i circuiti, le macchine e più di tutto il
software abbiano effettivamente loro delle logiche, delle maniere d'uso
inerenti che sono un po' particolari. Il capitale che c'è dietro,
poi, ha delle maniere di fare molto sue, con un rapporto con il tempo
che è diverso da quello dell'architettura (fin dove ho modo di
capire). Ogni tanto anche io mi permetto di pensare per immagini, però sono immagini un po' noiose e scientifiche. Mi immagino l'architettura e l'alta tecnologica come due flussi paralleli di materiali di natura diversa, e a velocità diversa. Nell'interfaccia tra questi due flussi ci sono degli sforzi di tagli, si formano inevitabilmente dei vortici, appaiono delle zone dove non è chiaro in quale dei due flussi ci si trovi. Questi territori di turbolenza sono interessantissimi, ma sono anche pericolosi per varie ragioni. La prima è che portano me a parlare/fare architettura, di cui capisco pochissimo, e quindi mi mettono in una situazione di terrore (tipica del bambino che non ha fatto proprio tutti tutti i compiti). La seconda è che trovandosi a roteare in uno di questi simpatici vortici, per esempio l'installazione che abbiamo fatto a Venezia per la Biennale, si rischia di credere di avere capito tutto quanto, mentre 1. ci sono altri vortici 2. architettura e tecnologia vanno avanti comunque, ma altrove. STEFANO MIRTI: io ho fatto una tesi di dottorato su Charles Eames e Franco Albini in cui tutto il volumone si può riassumere in una riga: nel progetto quello che conta non è il prodotto, quanto piuttosto il processo. La storia dei mattoni, dei chips, è generalmente sempre mal posta. Perché ci fermiamo sempre al prodotto, mentre se volessimo tentare di capirci qualcosa dovremmo partire dal processo. Pensa al mattone. Chi sta dietro al mattone? La fornace, gli operai della fornace, il padrone della fornace che parla solo in dialetto, il camionista che porta 'sti mattoni in giro. Chi sta dietro al chip in silicio? Una serie di ingegneri elettronici di Taiwan, degli operai iperspecializzati, il management della Lucent/Motorola, quelli del marketing e così via. WALTER APRILE: Aggiungiamoci poi che tutti questi vari personaggi, multiculturali, multirazziali, multinazionali e multifuso-orario hanno diverse definizioni di concetti come ragionevole, fretta, bello, salario ecc... STEFANO MIRTI: Ecco, appunto. Poi ci sei tu, che dovresti essere quello che mette insieme le due cose. Se devo mettere insieme il carpentiere e il lattoniere, è difficile ma più o meno ci riesco. L'ingegnere indiano che sta nella Silicon Valley + il carpentiere che parla solo in dialetto veneto, è già un altro discorso. Come dici tu, sicuramente è un lavoro faticoso. Anzi, faticosissimo. Ho qualche dubbio che sia fondamentale. Diciamo che potrebbe portarci lontano, ma per certo si vive benissimo anche senza. Sono sicuro che tra cento anni, ci saranno un tot di edifici costruiti esattamente come li costruiamo ora. In architettura, i tempi sono lunghissimi. Pensa agli architetti hightech, quelli come piano, Foster, Rogers... Loro utilizzano sistemi tecnologici che sono esattamente gli stessi di Paxton quando ha fatto il Crystal Palace. Che se tu leggi un'intervista a Foster sembra di essere in 2001 Odissea nello spazio. Ma quando mai, ma dove? Il genio era Paxton, che centocinquant'anni fa ha costruito questo gingillo che era il Crystal Palace dove ha portato il vetro (e le strutture metalliche) nell'architettura. Tu che sei Foster sei un citrullo, che usi tecnologie di due secoli innanzi... Dopodiché, ci sono ancora miliardi di persone che vivono benissimo senza avere a che fare con questa rivoluzione tecnologica... |
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WALTER
APRILE: Una domanda chiave che ci si dovrebbe porre (e anche se non
la si pone, le circostanze la pongono in vece nostra...) è quella
della Cina. C'è una miliardata di cinesi che hanno ogni intenzione
di raggiungere in una o due generazioni il livello di consumo, vita
e prosperità degli Stati Uniti. Se vi sembra improbabile, pensate
all'Italia degli anni '50 e a quella di oggi... Nel processo, quanto
verrà distrutto del pianeta? Che costo ha tutto questo? Siamo
disposti a pagarlo? In Arabia Saudita c'è l'allevamente bovino più grande del Medio Oriente. L'allevamento (di proprietà della famiglia reale saudita) è una macchina che trasforma forza lavoro del subcontinente indiano, foraggio acquistato all'estero e geni bovini in latte, pelli e carne. Per mantenere in funzionamento questa macchina, c'è un pozzo che tira su quotidianamente circa mille metri cubi d'acqua da un chilometro di profondità... Ovviamente questo giacimento d'acqua non è rinnovabile si tratta di un acquifero fossile, che ad un certo punto finirà, proprio come un pozzo di petrolio. Questo è un esempio interessante di un obbiettivo apparentemente lodevole (produrre localmente) che però viene perseguito in un modo per nulla diverso dall'estrazione petrolifera: succhiare finche ce n'è e poi ci penseranno i posteri. STEFANO MIRTI: Mah... Marialuisa, se tu realmente sei interessata a capire come si può vivere sulla terra oggi, direi che le domande su come metti assieme mattoni e microchip non sono per nulla significative. Potremmo fare un elenco di un milione di domande (con le annesse possibili risposte) più significative e importanti. Poi, concordo, agli architetti ci piace moltissimo inventarsi finti problemi a cui siamo dei maestri nel dare finte risposte. La storia del ventesimo è tutta lì di fronte a noi. Mentre LC passa il tempo a teorizzare la casa come macchina, le vere macchine che camhiano la vita degli uomini sono quelle da guerra. Fare andare insieme mattoni e microcircuiti è un gioco bellissimo, che a me piace molto, ma è un gioco, una finta domanda. Poi, siccome tutti abbiamo bisogno di giocare nella vita, allora tutto questo acquisisce valore e senso. Però, è importante non dimenticarsi che è un gioco. : ) Rispetto a quanto dicevi: "In questo senso, la contaminazione tra architettura ingegneria ed elettronica mi sembra quasi una condizione indispensabile anche semplicemente per poter pensare e ragionare su una nuova architettura...". Se accetto la tua premessa, non posso che essere d'accordo. Quello che non mi è chiaro è perché ci sia bisogno di una nuova architettura. Nell'architettura dove vivo ora, ci vivo abbastanza bene. Perché dovrei volerne una nuova? Quello che mi viene il desiderio è di comprarmi una maglietta nuova. Non perché quella che indosso oggi sia particolarmente usurata. Giusto perché ho questo desiderio di avere una maglietta nuova, come quella che indossava una ragazza stamattina per strada. Ecco. Ma allora forse, il mio desiderio di avere una architettura nuova è legato a questi fattori qui. Al 'desiderio', alla moda, alle convenienze e tornaconti personali. Se vuoi ragionare sul rapporto tra newmedia e architettura, se parti dalla storia della moda è molto più sensato che partire dalla storia della tecnica. E lo dico avendo un rispetto immenso per la storia della moda. Soprattutto in un paese come l'Italia. La moda è un mondo che si fonda su valori forti, duri, il commercio, i bisogni reali. Questo fatto che dopo sei mesi mi viene voglia di comprarmi un vestito nuovo, è un bisogno reale. Voglio dire, se poi ci metto dieci anni a costruire un edificio col tetto piano e le finestre a nastro, poi nessuno mi dice che sono proprio bravo. L'ha già fatto Mies ottant'anni fa. Se invece per ipotesi facessi un edificio con una facciata di led, tutti si emozionano e battono le mani, qualche ragazza si impressionerà tantissimo e magari mi da pure un bacio... Potendo scegliere, i miei tornaconti personali tendono a spingermi verso la casa foderata di led... Però so che sto lavorando in un punto incredibilmente vicino a quello dell'industria della moda, dello spettacolo. È bello, è brutto? Non lo so. Dipende. Dipende da tante cose. Per certo non stiamo lavorando alla definizione di un mondo migliore. Diciamo che stiamo lavorando per un mondo diverso. Pensa all'edificio di Diller e Scofidio sul lago. Era bello? Era bello. Serviva a qualcosa? No a nulla. Potrà mai servire a qualche cosa una roba cosi? No. È questo un motivo per non farlo? Assolutamente no. Anzi. "Oltre al pane, vogliamo le rose..." (dicevano le femministe all'inizio del ventesimo secolo). Le rose sono fondamentali nella nostra vita. Ma sono rose. E una rosa non è il pane. Il pane è quel signore che mette un sensore di prossimità nel pisciatoio degli autogrill. Che è una roba niente poetica, però di sostanza. Che cambia realmente il mondo. Perché se a te viene quell'idea li, allora stai facendo un servizio reale all'umanità. Proprio
in quanto architetto potrei citarti duecento di questi esempi. |
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MARIALUISA
PALUMBO: Sul tema del pane e delle rose sono pienamente d'accordo con
te, ma il problema è proprio distinguere il pane dalle rose...
perché tornando al tuo argomento di prima e cioè al fatto
che esista o meno un'esigenza di pensare ad una nuova architettura...
e riprendendo quanto diceva Walter sulla Cina e l'Arabia Saudita...
e quindi affrontando la questione del rapporto tra architettura,
risorse ed equilibri globali, a me sembra che la questione non sia
così chiara e semplice... e che di persone che in questo mondo
qui non ci vivono bene ne ce ne siano un po' troppe... STEFANO MIRTI: Io sono un architetto, non Madre Teresa di Calcutta o Che Guevara. Accetto i limiti della mia condizione, cercando di lavorare in maniera sensata alla soluzione dei problemi generalmente stupidi e banali che via via mi si parano d'innanzi. Di nuovo, guardando alla storia ci sono una serie di persone che hanno dedicato energie sterminate a questi temi. Con risultati (di nuovo) curiosi. Di nuovo, pensa a Christopher Alexander che è chiaramente un genio. Che dedica cinquant'anni a modellizzare la ricetta perfetta per costruire la casa dove l'uomo possa vivere bene. Ricetta che sappiamo non funzionare. Però, ancora, quello stesso apparato teorico, il linguaggio dei pattern, diventa il fondamento di ricerche fondamentali nel campo della programmazione del software... MARIALUISA PALUMBO: In altri termini, tornando all'ascensore... certo che l'ascensore è una delle cose che ha permesso i grattacieli.... ed è proprio l'esempio chiave... ma com'è che qualcuno ha inventato l'ascensore? Per esempio, Stefano, il tuo incontro e poi la stretta collaborazione con Walter, sta stimolando in modo nuovo la tua ricerca? STEFANO MIRTI: Non è che stimola la ricerca, la rende diversa. Mi fa capire un sacco di cose. Io prima di Walter non avevo mai conosciuto nessun informatico, nessuna persona che passa la sua vita dentro al computer. Adesso la conosco, e in linea di principio è interessante. Cioè, è una conoscenza agghiacciante perché mi fa capire quanto sia complesso mettere insieme mattoni e microconduttori e software assortiti. Walter,
gli ingegneri elettronici, quelli del software vivono in un mondo
sostanzialmente diverso dal mio. |
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WALTER
APRILE: sottoscrivo pienamente l'analogia del gatto (miao, miao!). Posso
dire che questa faccenda della collaborazione tra tecnologi e architetti
si presta perfettamente ad una citazione di Borges: "Ora che possiedo il segreto potrei enunciarlo in mille maniere diverse, ed anche contradittorie; il segreto, tuttavia, vale meno delle vie che mi hanno condotto ad esso. Codeste vie bisogna averle percorse". ...questo non era originalissimo nemmeno mentre lo scriveva Borges, però mi sembra ancora un punto di riferimento utile come quando lo lessi a quattordici anni. Rispetto a Stefano le mie difficoltà sono simmetriche, legate a certe cose che a noi proprio non insegnano. Per esempio la faccenda dell'immagine. Agli informatici viene spiegato (magari non a parole) che ci sono fondamentalmente due immagini personali possibili, 1. il professionista. Cravattoso. Abito. Scarpe lucide. Inappuntabilmente risolve problemi dalle 9 alle 5. Spesso lo si può contrattare come consulente da ditte come Deloitte e Touche, KPMG eccetera. 2. il tecnico. Sbracato, barba malfatta, miopia galoppante, immensa competenza, tutto il giorno e la notte chiuso nella sala macchine con l'aria condizionata a quindici gradi. Io tendo più verso la seconda immagine, però mi rendo conto confusamente che per gli architetti/designer questo problema di quale immagine di sé proiettare verso il mondo circostante è un problema molto più articolato, con mille soluzioni possibili. e strati di mistificazione molto più elaborati di quelli che vengono usati nel mondo del computer. Oppure cose come i criteri di successo. Per chi è fuori dal mondo dell'architettura, un edificio è riuscito quando abitandoci o lavorandoci dentro non ti viene voglia di ammazzarti, anzi sei magari contento di entrarci. Questo semplice criterio di felicità dell'utente mi sembra chiaramente molto lontano dai criteri che fanno sì che un progetto appaia o meno su Domus... Ma questo ci riporta al discorso che si faceva prima sul tema del discorso interno/esterno della disciplina. Collaborare con Stefano, fare progetti di architettura, non fa di me un migliore informatico. Non è in questo contesto che viene fuori l'algoritmo nuovo o l'architettura di macchina rivoluzionaria; per fare quelle cose bisogna farsi un dottorato di Computer Science o andare a lavorare per Silicon Graphics. Su questo sarebbe sbagliato che mi facessi illusioni. Per un informatico (ma anche per un ingegnere) il vantaggio della collaborazione sta nell'aver trovato una miniera di problemi interessanti e spesso posti in modi un po' più intriganti del solito; non nego poi che c'è una certa parte di vanità. L'informatico normalmente lavora in modo estremamente nascosto, e molto di rado fuori dall'accademia firma il suo lavoro. Un altro aspetto della collaborazione, questa chiacchierata, gli articoli per arch'it e le infinite conversazioni che si fanno ad Ivrea su tecnologia, estetica, economia eccetera sono un altro immenso piacere. È molto bello pormi dei problemi più ampi, fondamentali ed umani di quelli che normalmente sono collegati al mio mestiere. MARIALUISA PALUMBO: Walter, tornando ad interrogare la tecnica... Scrivendo Nuovi Ventri ho dedicato un certo spazio alla prospettiva che se dalla nuova sensibilità elettronica può venire un contributo chiave per trasformare l'architettura, dall'altra parte, dalla logica visiva e metaforica degli architetti e dalla natura spaziale e contestuale dei problemi architettonici, potrebbe nascere un contributo importante per l'elaborazione di un nuovo tipo di macchina, o di linguaggio, capace di una nuova, maggiore sensibilità... In altri termini, se come sappiamo una macchina è in grado di risolvere algoritmi di estrema complessità, ma non è in grado di cogliere le sfumature del nostro tono di voce o delle nostre espressioni (come sanno fare un animale o un neonato), occorrerebbe probabilmente attribuire alla macchina un po' di quella logica dei sensi che è la logica di un essere corpo nello spazio... e forse in questo senso il contributo degli architetti nella programmazione di nuovi linguaggi potrebbe essere importante... STEFANO MIRTI: Prima che Walter risponda, io posso dire che dagli architetti (come da qualsiasi altra persona che svolge lavori creativi), non può venire fuori alcun contributo importante per l'elabroazione di un nuovo tipo di macchina. Se ragioni in termini di linguaggio ho come questa impressione che di nuovo non ci siamo, in termini di sensibilità, forse può essere. Pensa ai francesi. Che loro si sono creati questo mondo fittizio in cui credono sempre di essere al tempo di Napoleone. Che pero' non è vero. Loro vivono nella loro realtà virtuale, il mondo procede per altre strade e siamo tutti contenti. Per gli architetti è uguale. L'architetto si pensa al centro del mondo, il mondo non sa neanche che lui esiste, tutti sono contenti e si procede in grande letizia e allegria... Senza contare, che io non sono in grado di vedere alcuna nuova sensibilità che mi arriva dall'elettronica. Vedo tante cose utili e comode, ma non particolarmente sensibili. WALTER APRILE: Qui quello che dice Stefano mi va bene. Dal contatto/collaborazione tra le discipline non credo che ci si possano aspettare benefici diretti c'è una distanza eccessiva. I contributi all'informatica sono arrivati nell'ordine da matematica, fisica, ingegneria e linguistica (ma si tratta di linguistica generativa, quindi una linguistica che ha un atteggiamento molto scientifico e formale). Dalle altre discipline sono arrivati, invece, problemi e nuovi campi di applicazione. Dall'architettura posso trarre, però, determinati criteri per valutare progetti. Per fare un esempio un po' rischioso, molti elementi che consideriamo "dati" nei sistemi informatici attuali, come i file, nascono da determinati vincoli tecnologici, esattamente come un certo insieme di materiali costringeva a costruire i tetti in un certo modo in passato. Adesso, in informatica, abbiamo il cemento armato. Però continuamo a costruire i tetti come gli chalet svizzeri, e sono pochi quelli che si sono avventurati ad osservare che gli esseri umani non pensano in termini di file, ma semmai di idee, problemi, appunti, schizzi e che ormai la tecnologia ci permetterebbe di fare tetti piatti, e computer che funzionano in modo più vicino al nostro modo di pensare. IBM 1620. La progettazione/costruzione di nuovi linguaggi di programmazione è una cosa molto tecnica. Ci sono nella storia dei linguaggi di programmazione dei tentativi di avvicinarsi al modo di pensare di determinate categorie di utenti i risultati sono linguaggi spesso brutti, come COBOL o un po' marginali, come SNOBOL o FORTH. I linguagggi nuovi sembrano nascere da rivoluzioni interne alla disciplina, come l'orientazione ad oggetti che, partita nel 1967, fruttifica ancora oggi in linguaggi come Python o il C++. MARIALUISA PALUMBO: Guardando ai pochi esempi esistenti di spazi interattivi, intelligenti o sensibili, io credo che emerga abbastanza chiaramente il problema degli obiettivi o in altri termini delle domande a cui un'architettura di interfaccia dovrebbe saper rispondere. Pensiamo per esempio ad Ada <Ada - lo spazio intelligente> lo spazio basato su reti neurali realizzato per l'Expo02, seconda esposizione nazionale svizzera, sensibile e cangiante (in colori luci e suoni) in risposta alla presenza e al comportamento dei visitatori, o alla Torre dei venti di Toyo Ito sensibile ai flussi della foresta mediale, o alle numerose case demotiche finalizzate alla gestione intelligente dello spazio domestico... Io non posso fare a meno di guardare con interesse ma anche con una certa insoddisfazione queste ricerche... e chiedermi, quali sono gli obiettivi di una nuova intelligenza o sensibilità del costruito? WALTER APRILE: Mah, c'è un problema di base, cioè che tutte queste cose sogliono non funzionare affatto. La Torre dei venti di Toyo Ito io sono andato a vederla a Yokohama. Bellissima, ma non funzionava. Fin dalla più tenera infanzia la domotica mi è sembrata una truffa, per una serie di ragioni. La prima è che l'ambiente domestico è incredibilmente aggressivo, e per fare macchine capaci di resistere agli insulti per esempio di un bagno o di una cucina ci vanno parecchi soldi. La seconda è che l'uomo è così integrato nel funzionamento di una casa, e le attività che si svolgono nella casa sono molto variabili e controllate da una serie di cicli interlacciati con frequenti variazioni casuali... tutti gli scenari che mi vengono tratteggiati, a partire dal frigo intelligente che nota che non contiene più latte, e si prende la briga di ordinarlo dal supermercato a fianco mi sembrano cazzate spaventose. E mi sento in diritto di dirlo proprio come informatico; già mi immagino tutti gli scenari da incubo, il bug del frigo che ordina 1000 litri di latte, il frigo che non ha capito che io sono in vacanza, e ogni giorno ordina il latte dal supermercato, il frigo che simpaticamente mi manda un SMS per ricordarmi i suoi problemi pratici ed esistenziali... il frigo che parla, il frigo che fa due chiacchiere con il forno che gli suggerisce di fare le lasagne per cena, ma quella è la sera che io decido improvvisamente di andare in pizzeria dal rumeno... insomma, a me già dà fastidio dare conto della mia vita alla mia fidanzata, figuriamoci se poi voglio passare il tempo a istruire una serie di dispositivi che (immagino) non saranno fatti meglio del videoregistratore medio. Transistor. Prendiamo anche solo un problema banalissimo, quello di rendersi conto se una stanza è occupata o meno, per poter spegnere le luci. Non c'è combinazione di sensori di movimento, di orologi, di sensori di luce che possa battere il semplice pulsante di on/off. Per concludere, la casa intelligente mi ricorda di quanto ero stupido quando, a 13 anni, volevo convincere mia nonna a mettere le sue ricette di cucina su un home computer. Mia nonna già allora era molto saggia, e quindi non mi fece caso. E aveva ragione, il suo problema di database si risolve perfettamente con un quaderno un po' bisunto, e non c'è proprio modo di fare di meglio... a meno di voler entrare in un mondo (che però a me fa schifo), in cui tutti condividiamo ricette, da cucina a cucina, da paese a paese però questo è un incubo, è il lato peggiore della banalizzazione, è il mondo visto come Taco Bell. |
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