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Lanterna Magica

Tre parole per il prossimo futuro? Preferirei: rullo, stampo, stupro



Lettera a Luigi Prestinenza Puglisi in occasione dell'uscita del suo ultimo libro: Tre parole per il prossimo futuro.





Caro Luigi
Alle tre parole piene di speranza che tu proponi per progettare il futuro (no logo, multiculturalismo ed ecologia) vorrei affiancarne tre che, temo, ne delineano invece una previsione ragionevole.
Una previsione che già va assumendo, ahimè, i caratteri di un ritratto.
Devo augurarmi, naturalmente, che il tuo wishful thinking risulti in questo caso più lungimirante e azzeccato del mio triste far di conto.

Vediamo un po'.



[26oct2002]
RULLO

Mi riferisco al rullo compressore, che nei dizionari è, in senso figurato, così definito: chi travolge ogni sorta di ostacoli pur di realizzare i propri scopi.
Se, per dire, potessimo de-ipostatizzare il rullo compressore (Sartre, che oramai non legge più nessuno e che, come Adorno, Horkheimer o Bloch qualunque stronzetto che ha frequentato economia e commercio alla Luiss s'immagina di potere insolentire, avrebbe detto con più precisione: donare un per-sé a quel puro in-sé che è il rullo compressore) noi otterremmo un ottimista vincente con il sorriso stampato a trentadue denti. Un George Bush (per dirla all'americana) oppure un Berlusconi (per tornare, come direbbe qualche ministro di questa Repubblica, "a noi!").

Non ci vuole molto a capire che il futuro (perlomeno quello prossimo) è loro e di quelli come loro. Che ci piaccia oppure no.
Gli architetti sono già in fila con il loro bel piattino zincato.
Il rancio sarà ottimo? Sarà abbondante? Non saprei dire ma so per certo che l'architetto ha fiutato il vento e, a sentir lui, ce n'è per tutti. Quando annusa puzza di carogna difficilmente si sbaglia, è un esperto. Io no, ma effettivamente mi pare che, ad occhio e croce, il lavoro non dovrebbe mancare.

Si comincerà con la ricostruzione delle Twin Towers (e da qui a qualche tempo, chissà, i vuoti urbani potrebbero moltiplicarsi) poi si passerà alla ricostruzione dei danni collaterali in Afghanistan ed in Iraq, mentre altri stati-canaglia si profilano già all'orizzonte, tutti da demolire e da ricostruire alla nostra maniera (Bin Laden è la preda invisibile che ogni cacciatore sogna: quella che si trova sempre dove è diretto il colpo). Nei Balcani ci sono ancora ottime speranze, nell'America del sud la situazione va maturando e il dialogo tra India e Pakistan prosegue. Non dimentichiamo la Palestina dove già le ruspe sono all'opera da un pezzo e c'è Sharon che garantisce un lavoretto ben fatto. E infine ci sono un buon numero di guerre in corso e in fieri, di cui i media non parlano perché non fanno audience, ma che sono pur sempre una bella garanzia per il futuro. Ci sarà da sperimentare di tutto. Naturalmente gli architetti che ricostruiranno saranno così distribuiti: 80% americani, 19% inglesi i rimanenti di altre nazioni (alleate, occidentali, cristiane). Insomma, italiani uno: Renzo Piano (se nel frattempo Massimiliano Fuksas non gli fa le scarpe). Ma siccome i confini nazionali, ormai, non hanno più senso (sai, la rete, il villaggio globale, il tempo reale e tutte queste cose strabilianti) a noi che ce ne fotte? ("Mica so' io Pasquale" diceva Totò).

Insomma il Rullo è già in attività, ma il prossimo futuro risulta addirittura inconcepibile senza questo cilindro magico dal quale prestigiatori adeguati sapranno tirar fuori conigli meravigliosi e colombe che annunceranno finalmente la pace definitiva nel mondo. Definitiva e, possibilmente, eterna. Quella pace che, diciamolo pure con orgoglio, quest'occidente qui si merita.
Ma abbiamo lasciato l'architetto mentre, a mensa, aspettava il suo turno.
Andiamo a riprenderlo per un'orecchia (perché quando si tratta di mangiare lui fa sempre il sordo) e tiriamolo fuori dalla fila. Eccolo qui, osserviamolo bene. La faccia, fondamentalmente, è quella di sempre, quella che faceva dire ad Adolf Loos "Non annovero gli architetti tra gli esseri umani".
Però sorride. Aprite due dita (l'indice e il medio) a forcella, poggiategliele sui glutei... (oops... sulle guance...) e provate a pressare fortemente verso il basso. Niente. Sorride sempre. Allontanatevi quel tanto che basti a far leva sulla gamba sinistra e sollevate di scatto la destra mollando un calcio di piatto, diritto su quel sorriso. Forse schizzerà via la dentiera, ma il sorriso rimane. 

Perché?!
Ma perché iniezioni di silicone, chirurgia plastica e cerone, con tutto quello che costano, devono pur servire a qualcosa. A lui l'hanno reso sorridente per l'eternità.
Non è poco in questo mondo che, oltre alle impronte digitali, ti richiede, per sopravvivere, anche di essere ottimista. Altrimenti sei un rompicoglioni e o te ne torni al paese dei vu cumprà oppure organizziamo un bel falò sulla spiaggia, con luci, televisioni, Karaoke e veline, e ti usiamo come combustibile a buon prezzo... noi qui si ride, mica come da voi tra i cammelli che vi lamentate, vi lamentate: e ci ho fame, e ci ho sete, e ci ho l'aids, e m'è saltato il figlio sulla mina... e che cazzo, quanno ce vo' ce vo'. Pardon, interferenze da Radio Padania (mica dal passato e dall'altrove, no, no, dal futuro prossimissimo e dalla più prossima prossimità spaziale, dai massimi vertici dell'accolita che attualmente, dalle nostre parti, fa il bello e il cattivo tempo...).

Ma l'architetto, oramai accolto nello show business, non può far altro che sorridere. È un artista, lui, e amoreggia con lo zeitgeist: "Critica dell'esistente? Cos'è, roba che si mangia? No? E allora che vuoi da me? Il mondo va cantato e rappresentato, l'architetto, caro, ne è il menestrello".

Caro Luigi, qualche secolo fa me la ridevo dell'architettura della partecipazione, dei tentativi bambineschi di "fare un'architettura che s'opponesse al potere" e delle "inchieste" che avrebbero garantito all'architetto un ruolo "nel sociale", ma davanti a questi con la giacchettina nera e gli occhialetti scuri, con la scarpina Prada e il cellulare, che si collegano via Internet con Londra, Parigi e New York e ti fanno il progetto internazionale con la piega e la contropiega, con la trasparenza e il vortice, col morphing e lo stretching, con il bit e il punto it mi prendono addirittura le convulsioni.

Passiamo così, per ragioni di salute, alla nostra seconda parolina.



STAMPO

Sono oramai al mio milionesimo disegno tridimensionale computerizzato in cui tutto quello che si capisce è che c'è un testa di cazzo col bavero alzato in mezzo a rampe saettanti che lo circondano da ogni parte: sotto, sopra, a destra, a sinistra. E sono stanco. Tra l'altro, nove volte su dieci, si tratta di robaccia malfatta, approssimativa, con tridimensionali rudimentali e rendering alla pasta e fagioli in cui le trasparenze, l'effetto flou e il collage mascherano errori ed omissioni (ti prego di credermi perché su queste cose, al mio studio ci lavoriamo, nel nostro piccolo, da una decina d'anni). Questo minuetto per smidollati senz'arte né parte va sotto il nome di "ricerca spaziale contemporanea", ed è il pastone di cui sembrano felicissimi di nutrirsi tutti i replicanti del mondo.
Contenti loro... ma i furbi m'infastidiscono. Se deve puntare all'architettura, il disegno deve farlo senza fronzoli idioti.

I disegni (belli) di Wright non menavano il can per l'aia. Potevano anche servire, se vuoi, a prendere per il culo il cliente ma lo facevano sempre in funzione della realizzazione. Se si vuole, come pure è giusto, "liberare" il disegno dal fardello della costruzione lo si faccia senza ipocrisia. Ne guadagneranno, così, disegno e architettura e non avremo quegli ibridi insulsi e fasulli che sono i disegni "di rappresentazione" e le architetture "di carta" (oggi "virtuali").

Amo il disegno, ma non quello stupido prodotto che va sotto il nome di "disegno d'architettura" e che serve solo a vendere progetti mediocri alle riviste e a confondere le idee a giurie di concorso che non chiedono di meglio per potere pescare tranquillamente nel torbido.
Se faccio un tridimensionale o un rendering deve essere rigoroso e chiaro e il progetto reso perfettamente leggibile anche da un bambino. Perché ciò che conta e decide, in architettura, è la costruzione e tutto va finalizzato ad essa. Fino a prova contraria.

Io sono un architetto minimo (non minimalista), o almeno ci provo, faccio quello che posso con quello che passa il governo. Provinciale? Provincialissimo. Sto qui tra vaste distese di ficodindia (polverosi e secchi, per giunta), mica ad Euralille e i componenti delle (poche) imprese con cui ho a che fare spesso non parlano neppure l'italiano, non perché parlino en anglaise, ma perché si esprimono in linguaggio locale, molto aiutandosi coi gesti, e possiedono un vocabolario di sessantasei parole, compresi i convenevoli di cortesia. Può accadere anche che ogni tanto qualcuno con una bella macchina e un vestito firmato arrivi in cantiere e gli dica, cordialmente ma con fermezza, dove comprare il calcestruzzo e a che prezzo.
L'ultimo dialogo da me sostenuto con un carpentiere, appena qualche giorno fa, è stato il seguente:
Carpentiere: "Architè! Fu lei ca fici lu cuntu de' ferri?" (Architetto, è lei che ha fatto i calcoli?)
Io: "No, ma dica pure"
C.: "Sti ferri di ca ncapu... 'mmeci di giralli... picchì ‘un li spicammu?" (Questi ferri, in alto, piuttosto che ripiegarli, perché non li tagliamo lasciandoli diritti?)
Io, un poco interdetto: "No, l'ingegnere ha ritenuto di predisporre lì dei ferri piegati a u, altrimenti quel cordolo rimane senza armatura. Forse c'è qualche difficoltà con la piegatrice? La piegatura è troppo ravvicinata?"
C: "Nz! Un ci n'è problema... allura lassammu lu munnu cum'è?" (No! Non c'è problema... allora lasciamo il mondo così com'è?)
Io: "Direi di si, lasciamo le cose come stanno"
Lui mi guarda con aria complice e conclude salomonicamente: "Ragiuni avi, architè: sempri megghiu iè lassari lu munnu cum'è..." (Ha proprio ragione, architetto: sempre saggio è lasciare il mondo così come sta...) e se ne va con maestosa andatura da pontefice.
Se vedessero un disegno con un ciclista nudo che svolazza tra spazi siderei in mezzo a setti e solai aggettanti nel vuoto mi prenderebbero per frocio, con rispetto parlando, e sarei un uomo finito.

Ma diciamo pure che questa è solo vita quotidiana.
Resta però il fatto che per l'architettura vale ancora, at the end of the end, la legge di gravità. La chiacchiera corrente si ostina a negarlo, sulla carta. Poi, quando questi bei disegnini prendono forma e vengono realizzati o costano miliardi e miliardi (e sono quindi roba per rotocalco, che incide in maniera ridicola sulla massa costruita che grava, invece, sulla terra) oppure fanno semplicemente pena ed acquistano quell'aria fetente e tipicamente italica dell'High Tech da esportazione, per il terzo mondo.
Ma nemmeno ai piani alti, qui, le cose vanno decentemente: basta, a quel che mi dicono, confrontare il livello esecutivo dell'auditorium di Roma di Renzo Piano con ciò che lui stesso ha costruito all'estero.
In ogni caso quando vedi il disegnino ti diverti, anche con le cose della Hadid, ma quando le vedi costruite cominci a chiederti dove vanno a parare quelle inclinazioni, quelle sghembature, quelle finestrelle storte a tutti i costi, quegli scivoli inutili e seccanti, quei parcheggi idioti che mimano un astronave sfasciata e, alla fine, ti viene la nausea per tutta quella ridondanza ridanciana e imbecille.

E sarebbe ancora niente.
Il fatto è che siamo globalizzati, com'è ovvio, e non ci possiamo far nulla. Perciò tutto questo bordello in ghingheri ce lo ritroviamo dovunque, sempre diverso e perennemente uguale a se stesso. Lo stampo dell'epoca è, infatti: identità assoluta nella diversità più conclamata. E non vedo contraddizione alcuna tra i vari regionalismi e questa uniformità nella diversità.

Tieni conto, Luigi, che questa è l'epoca della "world music" e della "contaminazione", nelle sfilate di moda ogni sorta di influenza esotica si mescola e si sovrappone e tutto questo non è per niente in contraddizione con il main stream della globalizzazione, anzi. Queste arlecchinate fanno gioco, e fanno gioco perché fanno spettacolo. Non è affatto un paradosso che, nell'epoca del Guggenheim di Bilbao, di Disneyland e dei tre tenori che si esibiscono in brani d'opera assieme allo sciamano lappone e al mandolinista sufi, nell'epoca, insomma, della conclamata convivenza dei diversi e dell'enfasi posta sulle diversità (e sull'individualismo rampante) succeda che, nei centri storici, si debba poi praticare l'invisibilità, la mimesi, la modestia e la contrizione.

O almeno si tratta di un paradosso apparente. Non molto diverso, del resto, da quello che palpita nei cuori di quegli scimuniti che di giorno proclamano la loro diversità culturale e razziale, celebrano i miti celtici con i pediluvi nel Po' e vanno in escandescenze contro il centralismo che sopprime le diversità regionali e soprattutto fiscali, e di notte organizzano le ronde per far fuori chiunque sia portatore di una diversità regionale o esistenziale che non è la loro o non è del genere che piace a loro.

In effetti l'epoca della passerella luminosa e della spettacolarizzazione delle differenze è, nello stesso tempo, anche l'epoca della melassa che impasta ogni cosa in un'unica pappa e la riduce alla omologazione sostanziale. Proprio l'epoca del melting-pot, del calderone.
Le differenze, ridotte a catalogo, non sono più tali ma si equivalgono: ognuno può scegliere, ed eventualmente acquistare, la differenza che più gli aggrada. Così i vari regionalismi si rappresentano diversi ma sono sostanzialmente identici in quanto componenti, di fatto insignificanti, di un patchwork planetario sotto il quale si nasconde l'uniformità più agghiacciante. I tre tenori che sbraitano un aria di Leoncavallo, lo sciamano lappone che effettua il sortilegio attraverso una struggente nenia rituale ed il mandolinista sufi che adombra la danza del derviscio rotante, tutti quanti insieme appassionatamente, si esibiscono sul palcoscenico della Carnegie Hall, ripresi dalle medesime telecamere, mandati in onda su scala planetaria e ridotti a poltiglia per essere soggetti allo stesso zapping dal teleutente e consumati dal salotto di casa in uno con lo stesso hamburger e le identiche patatine fritte.
Il teleutente se li godrà alla pari, in nome della convivenza dei diversi. Purché passati al tritacarne di McDonald.

Si capisce dunque che l'architetto minimalista del muretto una tantum e quello massimalista dei funambolismi strutturali non sono che facce della medesima medaglia, ad ambedue andrà immancabilmente il premio Pritzker.
Tu pensi con orrore a un mondo in cui ci bombardassero ad ogni passo "con le immagini di mille Bruno Vespa, Mago Galbusera, Capitan Findus, se ci va bene, della Nutella, del Ciocorì e di Jesus Christ Superstar" ma non capisco davvero perché proietti tutto al condizionale. Oppure devo avere avuto un vuoto di coscienza ed essermi assentato un attimo: fino a poco fa quel mondo lì era proprio questo nel quale proviamo ogni giorno a sopravvivere. Che l'architettura (o ciò che ancora ci ostiniamo a definire così) gli fornisca il tocco finale, in fondo, è, dato l'andazzo, perfettamente on line.



STUPRO

Le modalità della violenza sono mutate, è verissimo. Manganello e polizia politica oramai ci fanno sdilinquire di tenerezza come i carabinieri di Pinocchio. Certo, di tanto in tanto qualcosina riemerge, ma insomma sono briciole, non è quella bella mollica sostanziosa che quando l'afferri ti ci affondano le dita. Per afferrare la sostanza oggi bisogna spostarsi dalla caserma e dallo stadio alla sala da pranzo e accendere il televisore. E anche qui occorre fare attenzione: non stiamo parlando dei vari Emilio Fede, Bruno Vespa ecc. Quello che fanno loro è sotto gli occhi di tutti, ognuno la pensa come vuole e si comporta di conseguenza. No. Io parlo del resto: il varietà del sabato, la fiction, il talk show, lo spot pubblicitario, il concorso di miss poppe e mister poppo, i pippi, le pippe, i velini, le veline, i Gabibbi e le Gabibbe.

Ecco, prendiamo il Gabibbo, l'insospettabile.
In fondo cos'è "Striscia la notizia"? Pura satira, che prende in giro "IL POTERE", che lo mette alla berlina e lo ridicolizza! Benone, meglio di così... accendo la tv ed eccomi bella, pronta e preconfezionata la famosa "Satira al potere" di antica memoria. L'autore del programma viene intervistato e appare. Maglioncino a girocollo, barbetta, l'occhio vispo e arguto di chi se la prende a ridere. Un petit maître dalla battuta pronta che ha fatto il Sessantotto (sempre col maglioncino a girocollo) e che, avendo messo in sintonia i suoi bioritmi con l'onda del tempo, sembra sempre a cavallo. Mentre parla, infatti, caracolla. Il coté sbarazzino di Bruno Vespa: quello sta sempre con la mano al taschino della giacca, dove tiene il portafoglio, questo non ne ha bisogno perché porta i jeans e il portafoglio ce l'ha attaccato al culo e siccome il culo, a sua volta, è sempre incollato alla sella (e nessuno strattone riuscirà a disarcionarlo) sta fresco come una rosa. Perciò lo percepisci disinvolto. E si spiega con aria dottorale: noi siamo lo specchio di questa tv e prendiamo per il culo il potere vero, io ci ho cento denunce, mica cazzi, mi prendo i miei rischi. Sono anarchico, io. Dice. E sorride. Fa bene: ogni denuncia l'audience aumenta. Ma tu pensa. Questo anarchico individualista bombarolo che viene coccolato da tutte le tv di Stato, questo fustigatore senza pietà del potere (il potere!...Viene quasi da piangere a pensare al vecchio Churchill, a De Gaulle, perfino a Richard Nixon) che viene profumatamente pagato e che, se non ci fosse, bisognerebbe inventarselo.

Ma pagato da chi? Chi è che lo mantiene e gli fa fare il demolitore di ogni potere? C'è qualche stato canaglia che lo finanzia e lo protegge? C'è ancora, da qualche parte del mondo un'occulta e potente organizzazione bolscevica che manda quattrini a palate? No. Egli è profumatamente pagato e amorevolmente coccolato da quella medesima struttura che ogni giorno sbeffeggia.
Che strano.
Il fatto è che questo signore a girocollo è necessario alla televisione come il bicarbonato al dispeptico: la fa digerire. E precisamente le permette di digerire se stessa e, poi, permette all'utente di digerirla a sua volta. Attraverso il Gabibbo l'utente è pacificato con il mondo dei media. Fa il ruttino e non ha più bisogno d'altro, c'è il Gabibbo che ci pensa. E il Gabibbo, dietro pagamento, ci pensa eccome. Cinque minuti prima ci beviamo le bufale di un coglione che ci racconta che tutto va bene quando qualsiasi povero cristo che va al supermercato a fare la spesa sa benissimo che non c'è modo di sbarcare il lunario (altro che viaggi, tempo reale, Internet, comunicazioni interstellari che sono, semmai, le cose che immaginiamo seduti davanti alla tv!) e cinque minuti dopo ritroviamo quel medesimo coglione preso simpaticamente per il culo da altri due coglioni pagati, tra l'altro, dal medesimo coglione di prima!

È sbalorditivo, pensa il povero cristo di ritorno dal supermercato: tre coglioni al prezzo di uno.
E ritorna al supermercato convinto che abbiano riaperto gli sconti.
Consumo – rincoglionimento – digestione – consumo – rincoglionimento – digestione - consumo... una infernale catena di Sant'Antonio. Oppure è la ruota del Karma nella quale siamo imprigionati fino a quando, chissà, una qualche Santa Crociata Umanitaria Totale non venga finalmente a liberarcene in modo definitivo.

Ed ecco che cosa è oggi la violenza vera (non quella fasulla dei film, dei cartoni, dei telegiornali e del linguaggio, buon vecchio sangue e sugo di pomodoro... questo feticcio buono solo a fare conficcare le corna dei moralisti nel tavolato della stupidità e fare guadagnare la tariffa per le comparsate televisive al sociologo e allo psicologo che, quando c'è da sparare minchiate, stanno sempre in prima linea).

E' stupro.
Violenza fatta ad una vittima resa prima consenziente per ebetudine o lobotomia frontale.
E l'architettura?
Quando tu scrivi "Non era mai successo: un edificio che compare da protagonista su tutte le riviste, da "Famiglia Cristiana" a "Vogue"; un altro inaugurato senza che si sia fatto in tempo a preparare gli allestimenti e, nonostante la situazione paradossale di essere un museo senza opere in mostra, ha un afflusso di pubblico senza precedenti" fornisci il quadro esatto dello stupro dell'architettura.
Vedi, io sospetto che la differenza principale tra l'architettura e la scultura non consista per nulla nel fatto che la prima abbia uno spazio interno e la seconda no (chi l'ha mai detto che non si debba potere entrare in una scultura e camminarci dentro?). Trovo invece che essa vada cercata dall'altra parte, dal lato della vita quotidiana. L'architettura va, sempre, filtrata attraverso il suo uso. Non è solo un fatto percettivo, ne va, in questo, della sua esistenza come architettura. Qualcuno vede la funzione come pura zavorra, il babau che tiene a distanza l'architettura dalle altre arti, che ne fa un'arte di secondo piano. È una sciocchezza. L'architettura deve essere "in funzione" oltre che "in forma", anzi: l'architettura è "in forma" soltanto se è, o almeno è stata fin dal suo concepimento, "in funzione". Proprio questo la pone in una posizione straordinaria rispetto alle altre arti che devono arrancare dietro alla "esistenza" senza alcuna speranza di raggiungerla. La vita concede spontaneamente all'architettura ciò che le altre arti devono mendicare. Quando si tratta un'architettura come una scultura, cioè la si "fruisce" e "percepisce" bellamente senza "viverla", appunto, nel suo essere "in forma" in quanto "in funzione" ed "in funzione" solo perché pienamente "in forma", eccola stuprata e consenziente.
Le si è, letteralmente e metaforicamente, "tolta la vita".
Essa diventa scenografia e si espone impudicamente priva di quel velo della funzione che le è, scusami il termine, consustanziale.

Quando un'architettura è preda dei turisti urla dal dolore. Questa è una delle ragioni per cui io "visito" il minor numero di architetture possibili e se vado in una città nuova (mi capita assai raramente) vado per librerie, o al cinema, o a passeggio, ma non vado in giro "per architetture" e preferisco non accompagnarmi agli architetti. Le sento urlare, le mie povere architetture, e non lo sopporto. L'architettura è un dono, e ti si deve concedere spontaneamente, senza la violenza melliflua e carognesca dell'obiettivo fotografico. Una mattina vai a mangiare un cornetto, passi dal portico sotto casa per entrare nel bar e c'è un gatto che gioca ad acchiappare una mosca, tra l'ombra e il primo sole del mattino, e l'architettura è lì sotto i passi del gatto, tra quelle zampe felpate e il volo del moscone. Ha deciso di regalarsi a te solo, e solo per quell'attimo.

L'unico modo di cogliere l'architettura, allora, è coglierla, per così dire, "di sorpresa". Con la coda dell'occhio. Quando vado in un ospedale devo sentire l'architettura sulla pelle, e quel contatto, se l'architetto ha fatto davvero il suo mestiere, dovrebbe confortarmi.

Perciò l'architettura sfugge sempre ai suoi critici, come l'immagine riflessa dall'acqua che se tenti di afferrarla si frantuma. Ed è, ancora, per questo che il critico non può mai prender di petto l'opera e deve aggirarla con manovre, a volte, stranissime. Perché il critico, nei confronti dell'architettura è spiazzato sin dall'inizio: deve instaurare un rapporto che non può avere più nulla di autentico con essa. Cosa totalmente diversa da quel che capita per una poesia, un romanzo, un quadro, una scultura, una musica, un film che già si dispongono da principio (e per principio) allo sguardo critico e costituiscono delle piccole parentesi nello scorrere della vita quotidiana, nelle quali devi penetrare coscientemente e consapevolmente uscire. Un'architettura che non è in funzione, dunque, non potrà mai neppure essere "in forma". È come un maratoneta col soffio al cuore.
Eppure, come tu noti, abbiamo oggi truppe di turisti che vanno a fotografare una cosa che non si sa nemmeno cos'è, si va a vedere un museo senza opere in mostra, perché?
Perché tutto quanto, ormai, fa spettacolo. Contenitore, contenuto, forma, funzione, materiali locali, titanio, la scala storta, la scala dritta, la finestra sghemba, la botta di poesia, il silenzio e il frastuono, l'olocausto, lo zio Tom e il Ku Klux Klan. Anything goes. Tutto si trasforma in oro zecchino, creperemo come Mida, con l'oro ingolfato nella strozza.
Ma questo si chiama show business. Sarà divertente, sarà originale e sarà anche redditizio.
Ma l'architettura è stuprata, ed è uno stupro di massa. Cristo! Chiamate le guardie.



CONCLUSIONE (MOLTO PROVVISORIA...)

Forse tutto questo scritto, a partire dal titolo, ti sarà sembrato un tantino bizzarro.
Perciò, se permetti, vorrei fornirti, come si dice, una "chiave di lettura" (e fornirla al lettore eventuale, la cui capacità di sopportazione credo di aver messo a dura prova).
Anzi due chiavi, perché è meglio tenerne una di riserva.
Anzi tre, perché anche quella di riserva può andar perduta.
1) Tutto quello che precede è solo un gioco di parole perché deriva dall'anagramma del titolo del tuo libro.
2) Tutto quello che precede è già dentro il titolo del tuo libro (ma, di più: è dentro il tuo libro) e, lungi dall'essere un semplice gioco di parole, ne costituisce proprio la faccia nascosta.
3) Tutto quello che precede è l'una e l'altra cosa.


S'è scritto troppo intorno alla scrittura
ma fuori da quest'ombra
che la penna abbandona sulla carta
non c'è alcuna esistenza...
e se sono poeta (che ridicola cosa!)
lo sono perché corro
senza guardare in basso
in bilico sul filo dell'inchiostro.
Ma d'altra parte è vero:
ciò che mai abbiamo fatto
noi siamo.
Non meno di ciò che fatto abbiamo.
(Cornelius Lathbury)


  Ugo Rosa
u.rosa@awn.it
 



NOTA:

Riporto un breve messaggio che Luigi Prestinenza mi ha spedito quando ha letto questo scritto; mi pare che chiuda il circolo:

Caro Ugo
hai subito capito che dietro al mio ottimismo si nasconde un altrettanto forte pessimismo. Ma se dietro al tuo profondo sconforto non ci fosse una coriacea speranza, tu non avresti scritto alcun commento. O no?
P.S. Ho verificato con estrema sorpresa che non solo le tue tre parole sono l'anagramma delle mie ma che addirittura il tuo intero testo, anagrammato, forma le tesi principali del mio.
> TRE PAROLE PER IL PROSSIMO FUTURO
Luigi Prestinenza Puglisi
Tre parole per il prossimo futuro
Italia, 2002
Meltemi
pp144, €12,50

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la sezione Lanterna Magica
è curata da Ugo Rosa


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