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SUL
FILM COME STORIA. Si afferma che un film diventi leggendario quando
il suo titolo (citiamo La dolce vita o Amarcord
per fare riferimento a Fellini) si trasforma in una locuzione d'uso
corrente della quale si perde, a volte il riferimento ai significati
o alle fonti originarie.
Le mani sulla città di Francesco Rosi appartiene a
questo genere di film, la rappresentazione di fatti di cronaca locale
è riuscita ad elevarsi ad immaginario collettivo, a memoria
storica.
Premiato con il Leone d'oro al Festival del Cinema di Venezia, nel
1963, dove era in concorso anche 8 e mezzo: la denuncia sociale
di Rosi vince sull'introspezione esistenziale di Fellini. Una svolta
importante, se si pensa che due anni prima, il terzo film del regista
napoletano, Salvatore Giuliano (1961), non era stato neppure
selezionato. (1)
Il premio veneziano consacrerà a livello internazionale un
nuovo modo di fare cinema: quello del film storico-politico. Distante
ma non distinto dai canoni del neorealismo italiano, la cifra stilistica
di Rosi sarà quella di superare le limitazioni espressive e
scandalistiche tipiche del movie-film e del film-documento
o film-storia: "Sento che c'è un avvicinamento non solo
tra cinema e storia, ma anche in una direzione culturale più
vasta, e cioè tra letteratura e storia. Non nel senso che si
debba fare della storiografia col cinema o con la letteratura, ma
nel senso che oggi la storia è l'occhio conoscitivo più
penetrante, più lucido. Oggi ci si esprime attraverso un realismo
critico e quindi per forza storico". (2)
L'imprinting alla sceneggiatura e al fare cinema Rosi l'aveva ricevuto
collaborando nel 1950 con Luchino Visconti per La terra trema
(3), poi con Luigi Zampa in Processo
alla città (1952) ed infine con Michelangelo Antonioni
ne I vinti (1953). Certamente da questi maestri deve aver
appreso l'impegno sociale nella regia e nella vita.
Forse dal rigore della sceneggiatura e dalla maniacale ricerca filologica
di Visconti si è ispirato per definire un proprio stile comunicativo
che, fondato su una ricerca accurata dei fatti, giunge ad un'originale
ricostruzione/simulazione filmica delle vicende realmente accadute,
dove si fondono in modo mirabile la finzione e la realtà storica.
Un modo originale di superare anche le strutture di un neorealismo
di maniera: "(...) la mia aspirazione è stata tirar fuori
da una realtà la storia stessa del film. Non è applicare
ad una realtà la storia. Quello che secondo me è stato
un po' la deformazione di un neorealismo di maniera è stato
applicare ad una storia prefabbricata la realtà". (4)
Le mani sulla città affronta una trama che tocca molto
da vicino il regista: nato a Napoli (1922), benché trasferito
a Roma dall'immediato dopoguerra (1946) ne è sempre stato sempre
legatissimo, condividendo il suo atteggiamento di passione civile
per la propria città con lo scrittore Raffaele La Capria –co-ideatore
della sceneggiatura e del soggetto–, nato a Napoli nello stesso
anno (5), con il quale ha in comune "l'esilio"
romano e gli studi in giurisprudenza. Per entrambi denunciare il sacco
urbanistico partenopeo significa confrontarsi sia con la giustizia
sociale, sia con un profondo amore per la propria città.
Nel 1961 La Capria aveva vinto il Premio Strega con Ferito a morte
(6), una rappresentazione storica di una
generazione napoletana che, dopo alterne vicende, si rivelerà
pigra al cambiamento e malinconica nella personalità: quella
di Napoli è una condizione esistenziale e urbana che "ti
ferisce a morte o ti addormenta, o tutte e due le cose insieme".
(7)
Da qui il carattere militante del film che si enuncia già dalle
prime inquadrature, quelle visioni aeree dei tessuti urbani prodotti/distrutti
dalla bieca speculazione edilizia, promossa dalla amministrazione
Laurina della città, impietosamente analizzata da lunghi piani
sequenza.
Un film tautologico, le stesse identiche immagini compaiono anche
alla fine, accompagnate da una significativa didascalia (una sorta
di chiave di lettura): "I personaggi e i fatti qui narrati sono
immaginari, autentica è invece la realtà sociale ed
ambientale che li produce".
SULLE INTERPRETAZIONI. Leonardo Ciacci, nella sua ricerca sul cinema
degli urbanisti (8), pone una domanda cruciale
relativa all'utilità del cinema per l'urbanistica: immaginario
o memoria?, mettendo in particolare risalto come l'esperienza condivisa
trasformi i significati: "Ricostruire la storia delle immagini,
fino a risalire all'origine della trasformazione, è quanto
si deve fare, se si vuole passare da un concetto difficilmente utilizzabile,
quale quello di 'immaginario collettivo', utilizzato nel confronto
collettivo, a uno utile e utilizzabile quale quello di una memoria
collettiva". (9)
La memoria collettiva si forma, a mio avviso, anche attraverso il
"vissuto della visione", una sorta di storiografia dei valori
interpretativi e dei contesti socio-culturali, che concorrono a dare
senso e significato all'atto individuale e sociale del vedere.
Le mani sulla città l'ho visto tre volte, in maniera
attenta e partecipata, ogni volta ho ricevuto suggestioni e messaggi
diversi. Non era cambiato il film, ma era mutato il contesto storico-sociale
così come le mie valutazioni individuali; alcune parti e scene
venivano privilegiate su altre ed anche il ruolo dei protagonisti
si trasformava: personaggi-metafora da centrali passavano in secondo
piano.
In questa mia personale "trilogia della visione", solo a
posteriori, mi sono accorto d'aver praticato delle letture metonimiche
(la parte per il tutto), chiavi di lettura che fanno riferimento ad
un'arbitraria scomposizione (inversa) delle parole che articolano
il titolo del film: città, sulla, le mani.
Nel 1969 pensavo che il film fosse un'analisi puntuale della speculazione
edilizia (la città); nel 1992 avevo visto oltre il sacco immobiliare
i conflitti di interesse tra pubblico e privato (sulla); nel 2004
sono stati i conflitti urbani (le mani), i conflitti di potere, ad
attirare maggiormente la mia attenzione.
PRIMA VISIONE, 1969
LA SPECULAZIONE EDILIZIA: UNA LETTURA IDEOLOGICA. Ho assistito per
la prima volta alla proiezione del film a Venezia, in un circolo cinematografico,
verso la fine del 1969, dopo lo sciopero nazionale unitario per la
casa, indetto dalle confederazioni sindacali CGIL, CISL, UIL (19 novembre
1969). La casa come "servizio sociale" promossa dagli enti
pubblici era lo slogan più urlato dai manifestanti: dai baraccati
di Roma e Napoli agli immigrati (prevalentemente meridionali) dei
grandi poli industriali del Nord. Questa richiesta si contrapponeva
alla strategia dell'Associazione Nazionale Costruttori Edili (Ance)
che auspicava un edilizia residenziale come "bene d'investimento",
prevalentemente d'interesse privato. (10)
Il problema della casa rappresentava una spia eclatante dei più
vistosi squilibri settoriali e territoriali che avevano accompagnato
il "miracolo economico" del Paese nella seconda metà
degli anni '60. Concentrazione e congestione, esodo e sottosviluppo
erano gli effetti tangibili di queste trasformazioni dell'assetto
territoriale e produttivo.
L'acutizzarsi della "questione meridionale" era alimentato
dal ruolo strategico che il settore edilizio assumeva nel determinare
il motore dello sviluppo dei centri urbani maggiori del Mezzogiorno.
Ero iscritto al terzo anno della Facoltà di Architettura allo
IUAV di Venezia e anche in quella città, in particolare nel
centro storico lagunare e nel polo industriale di Marghera, le problematiche
relative al "diritto alla casa" erano molto sentite dai
ceti popolari, anche a prescindere dalle distinzioni politico-partitiche.
Si può ben comprendere, quindi, come le scene del film di Rosi
fossero sonoramente commentate e fortemente partecipate dal pubblico
di studenti e operai presenti in sala.
La chiave di lettura del film era prevalentemente emotiva ed ideologica.
Il giudizio manicheo: da una parte i "buoni" capeggiati
dal consigliere comunale comunista De Vita, dall'altra i "cattivi"
con a capo il costruttore Nottola. Della storia era sulle parti iniziali
che si concentrava maggiormente l'attenzione degli spettatori: la
rendita fondiaria assoluta, capace di trasformare un metro quadrato
di terreno agricolo in un'area edificabile, con una rendita pari al
5000% del valore iniziale "Tutto guadagno, nessun rischio".
Anche il crollo nel Centro Storico dimostrava la pirateria di una
speculazione edilizia senza scrupoli.
A questa strategia urbanistica si opponeva il De Vita: "Voi avete
buttato a mare il Piano Regolatore", in un sillogismo che equiparava
il PRG ad uno strumento di legalità.
Con il senno di poi, cosa proponevano per il futuro di Napoli i partiti
della Sinistra? Sfogliando le collezioni delle edizioni locali dell'Unità
e di Paese Sera di quegli anni, pare chiaro che la soluzione-modello
era individuata nella Grande Industria, il cui prototipo consisteva
nell'insediamento di Bagnoli (11), Un modello
di sviluppo certamente legale e partecipato ma insostenibile da un
punto di vista ambientale, sociale ed economico: "...allora noi
giovani comunisti napoletani non sognavamo affatto una Napoli ambientalmente
corretta. Sognavamo una Napoli costellata di fabbriche, cantieri,
ciminiere, fumacchi, liquami, fetore e smog". (12)
Recentemente, alcuni articoli apparsi sulla stampa nazionale, hanno
acceso una polemica sull'errore di Rosi, accusato di omissioni
nel film Le mani sulla città nei confronti dello scempio
ambientale prodotto nel territorio napoletano dalla grande industria
fin dal dopoguerra. (13)
Se nel film "manca" la denuncia degli aspetti e degli impatti
industriali-ambientali che stavano brutalizzando, in particolare,
gli insediamenti costieri, è perché mancava allora una
coscienza ambientalista da parte della stragrande maggioranza dei
rappresentanti politici e culturali della Sinistra italiana. In ogni
caso, specie nel Sud, qualsiasi nuovo posto di lavoro aveva la precedenza
sui valori ambientali dei siti, a volte unici per le loro valenze
ecosistemiche e paesaggistiche.
Nel 1969, la sala dove stavo vedendo il film di Rosi ospitava spesso
incontri e dibattiti sul futuro di Porto Marghera, si parlava spesso
della nocività di alcuni posti di lavoro, ma non dell'insostenibilità
ambientale del Polo industriale. Solo un gruppo di artisti veneziani
scriveva sui muri del Petrolchimico: "Mortedison", per denunciare
l'insostenibilità ambientale per la salute umana degli operai
e della popolazione residente negli insediamenti industriali.
SECONDA VISIONE, 1992
I CONFLITTI DI INTERESSE TRA PUBBLICO E PRIVATO: DA NAPOLI A TANGENTOPOLI.
La seconda volta ho rivisto il film nel 1992, al culmine della stagione
dei processi di Tangentopoli che sembravano aver finalmente (e fatalmente)
unificato l'Italia del malaffare dal Nord al Sud. La proiezione era
stata promossa da un gruppo di nostalgici delle lotte politiche degli
anni '60, un gruppo spontaneo, eterogeneo, sia per estrazione sociale,
sia per orientamenti politici. Il luogo dove era stata organizzata
la proiezione era improvvisato, il film costituiva certamente un pre-testo
per parlare non dell'ieri ma dell'oggi.
Qualcuno si era ricordato di Rosi, soprattutto quando sosteneva che
"per attirare l'attenzione il Sud deve continuamente esplodere
(...) il Sud torna alla ribalta solo in occasione di tragedie che
in parte sarebbero evitabili o contenibili. Perciò io con i
miei film ho continuato a dire una cosa sola: non esiste la questione
meridionale, esiste la questione nazionale. Non ricordiamoci del Sud
solo nei momenti straordinari, ma nel "quadro della realtà
ordinaria". (14)
Le mani sulla città si erano estese a tutto il territorio
nazionale, partendo con le inchieste giudiziarie proprio da Milano,
che, allora, veniva definita la "capitale morale" d'Italia.
La chiave interpretativa che aveva egemonizzato il dibattito, dopo
la proiezione del film, non privilegiava più la speculazione
edilizia, ma l'intreccio di interessi tra pubblico e privato. Il personaggio
più analizzato e vituperato era quello dello speculatore Nottola:
il personaggio negativo –interpretato con grande maestria da
Rod Steiger, capace addirittura di imitare la mimica e la gestualità
napoletana– era certamente una figura narrativa alla quale il
regista aveva conferito un'importanza strategica nella valutazione
della storia napoletana: "Il personaggio negativo (Nottola, ndr.)
in Le mani sulla città era l'eroe del film. Lo sforzo
consisteva, qui, nel narrare la sua negatività e nell'inquadrarla
in un contesto storico, cercando di far capire che in una società
organizzata quella stessa carica negativa sarebbe stata positiva.
Le mani sulla città dava la vivisezione di un ambiente
corrotto, di una giungla. Il film propone un groviglio di storie collettive
che suggeriscono, esse stesse, dei personaggi". (15)
Nottola è, a suo modo, un manager ante litteram, non
un parassita come Maglione, il rappresentante del "vecchio potere"
politico.
Il suo studio è stato progettato in base ai trend più
aggiornati dell'architettura moderna e rappresenta nel gusto l'antitesi
della villa con piscina di Maglione, dove i mobili d'epoca degli interni
testimoniano un valore economico privo di valore estetico nella loro
disposizione casuale. Come nel film di Rosi i processi di Tangentopoli
mettevano in risalto che non erano solo le singole persone ad essere
corrotte, ma l'intero sistema partitico-politico italiano, senza distinzioni
tra Destra e Sinistra.
Del resto vi era un parallelismo tra l'indagine giudiziaria e il film-inchiesta
di Rosi, solo che all'inizio degli anni '90 la realtà sembrava
aver superato la finzione cinematografica.
Il film era ritornato in auge, era considerato profetico, non più
un film sui mali di Napoli, ma su quelli nazionali.
Nel 1991 Rosi era stato invitato a presentare Le mani sulla città
alla Facoltà di Architettura di Napoli, per discuterne con
urbanisti e intellettuali, non solo locali. Da quell'occasione nasce
l'idea di girare un film-documento: Diario napoletano, prodotto
da Rai Tre nel 1992.
Una sorta di diario intimo retrospettivo, prospettivo, introspettivo,
senza pietismo ma con un grande sentimento di delusione che nasce
dal rivedere lo scempio storico delle colline di Posillipo; il gigantismo
(fuori scala e fuori luogo) del Centro Direzionale; gli esiti inquietanti
dell'edilizia pubblica come quella del rione 167 di Secondigliano.
(16)
Il post-laurismo non aveva, certamente, rappresentato un periodo di
discontinuità nel sacco edilizio della città partenopea.
Quel sacco edilizio, attraverso l'intreccio perverso di interessi
pubblici e privati, di modernizzazione mancata e di falsi sviluppi
industriali, con Tangentopoli stava emergendo con tutta la sua valenza
dirompente nella società civile e, soprattutto, nelle strutture/
funzioni dei tradizionali partiti politici.
Le persone che a Venezia, in particolare i giovani, assistevano alla
proiezione di Le mani sulla città erano affascinate
dalla capacità del regista di produrre un film inchiesta senza
scadere nella bieca propaganda o nel misero messaggio puramente didattico.
Si era stabilito un legame virtuale-virtuoso tra le inchieste di Tangentopoli
e la poetica del regista napoletano, dove la responsabilità
civile si coniugava con le valenze espressive ed estetiche del film.
TERZA VISIONE, 2004
I CONFLITTI URBANI COME CONFLITTI DI POTERE: DALLA SPECULAZIONE ALLA
GOVERNANCE. Ho rivisto il film per la terza volta nell'estate 2004.
Una proiezione casalinga, privata, senza spettatori, utilizzando una
videocassetta allegata ad un quotidiano. Questa volta si è
trattato di una visione non sollecitata da eventi sociali di carattere
nazionale –come per quelle del 1969 e del 1992– ma dalla
richiesta di scrivere delle riflessioni critiche da pubblicare in
occasione del conferimento della laurea honoris causa in
Pianificazione territoriale urbanistica & ambientale per Francesco
Rosi proposta dalla Facoltà di Architettura dell'Università
di Reggio Calabria.
Il film era rimasto lo stesso, ma erano profondamente cambiate le
categorie interpretative per leggerlo e decostruirlo nel suo essere
un messaggio polisemico e complesso.
Le mani sulla città, una lezione di urbanistica? Mentre
assistevo allo svolgimento della trama me lo domandavo, una lezione
di urbanistica? Si, ma con quali significati? Non certamente nel senso
di una mera denuncia del sacco edilizio o del malgoverno spesso esistente
nella gestione urbanistica e delle opere pubbliche, soprattutto nel
Mezzogiorno. Il film non rappresenta il semplice medium/supporto di
battaglie culturali sul modello di quelle condotte da Italia Nostra,
e in particolare da Antonio Cederna, fin dagli anni '60.
Se durante le lotte per la casa del 1969 la mia attenzione si era
concentrata sulla figura dell'eroe De Vita, l'antispeculatore,
nel 1992 nel tumulto di Tangentopoli era stato lo speculatore Edoardo
Nottola –l'artefice del connubio perverso tra pubblico e privato–
ad essere considerato il protagonista principale della vicenda napoletana,
nel 2004 è sul personaggio De Angeli che si concentrano maggiormente
le mie valutazioni/interpretazioni.
Il film non tratta, né fa una disamina accurata delle tecniche
delle speculazioni edilizie.
I discorsi, le panoramiche sulle condizioni abitative delle classi
popolari e sottoproletarie del Centro storico e delle periferie napoletane
non costituiscono un focus importante nella trama narrativa
del film. La speculazione edilizia esiste ma non è il soggetto
principale del film. È invece l'occupazione del potere il filo
conduttore, il leit motiv del racconto e della "speculazione"
filosofica del film di Rosi. Alla luce di questa valutazione la figura
di De Angeli assume un ruolo centrale, anche se, come un deus
ex machina, viene introdotta solo verso la fine della storia.
In quest'ottica De Vita sembra essere ancor di più un personaggio
astratto, privo di legami con quella società civile per la
quale combatte e vuole riscattare. Il suo limite è battersi
per il PRG, per una legalità, un buon governo, senza grandi
idealità. De Nottola è senza dubbio un personaggio forte,
ma non il protagonista. Una figura che all'uscita del film, nel 1963,
servì alla critica (soprattutto di Sinistra) per tacciare di
americanismo (sul modello di Elia Kazan, per intenderci)
lo stile registico di Rosi.
Il personaggio De Angeli non può essere banalizzato come un
simbolo del doroteismo, che risulterà vincente nel partito
della Democrazia Cristiana dopo la breve esperienza del primo Centro
sinistra. De Angeli costituisce una metafora del rapporto potere-politica
dove ogni becera alleanza, i peggiori compromessi, le "convergenze
parallele", sono dettate dal "dovere di governare",
dal "salvare la libertà", dal "farsene carico".
(17)
Il personaggio-simbolo di una politica che subordina i mezzi ai fini,
distante dalle rendite parassitarie e paleocapitalistiche del "borbonico"
Maglione (rappresentante della Destra) e dalla spregiudicatezza tutta
neocapitalistica di Nottola, è De Angeli che, con un cinismo
elegante nei modi ma fermo nei propositi, arriva a dire: "un
grande partito come il nostro i Nottola li digerisce quando vuole".
La stessa figura del "buon" Balsamo non appare come antagonista
alla occupazione del potere per il potere. Il suo buonismo è
senza strategia, un misto di onestà, moralismo e populismo,
incapace di intessere alleanze alternative. La vittoria finale di
De Angeli testimonia la fine dei partiti come portatori di principi,
di interessi pubblici ed etici condivisi.
Quindi se il film rappresenta una lezione di urbanistica, questa va
interpretata nel senso che il regista napoletano ha ben individuato
anche quelli che possono essere considerati i protagonisti dei processi
di governance che costituiscono i fondamenti ed i prerequisiti
delle fasi partecipative del governo del territorio.
Nel film sono esemplificati i conflitti di interesse (pubblico-privato),
i conflitti di valori (città pianificata-città non pianificata),
i conflitti di rapporto (l'incapacità di dialogo costruttivo
fra De Vita e Balsamo), i conflitti cognitivi (la causa tecnica, la
commissione d'inchiesta per appurare le responsabilità del
crollo degli edifici "ristrutturati" dallo speculatore Nottola).
Le politiche deboli dei De Vita e dei Balsamo possono essere paragonate
a quelle dei mille comitati, assemblee, gruppi di opinione, movimenti
di lotta di base, che nascevano per contrastare politiche e piani
settoriali di intervento urbanistico, del tutto incapaci, però,
di proporre strategie alternative al modello di sviluppo ambientale
e territoriale vincente e insostenibile.
De Angeli, rivisto oggi, risulta essere un personaggio profetico,
colui che in nome dell'occupazione del potere per i potere sarà
in grado di affondare la credibilità ed il ruolo dei partiti
nella società civile italiana. Anche la politica "urlata"
del consiglio comunale aperto al pubblico nelle parti finali del film
e, nello stesso tempo, le mediazioni-contrattazioni che si svolgono
al riparo da occhi indiscreti nei "corridoi" delle spartizioni
politiche, sembrano anticipare un modo di concepire la vita democratica
molto simile alle attuali trasmissioni televisive improntate sull'alterco,
più che sulla dialettica argomentativa tra partiti politici.
Il film di Rosi rappresenta una lezione di urbanistica perché
per la prima volta nel cinema italiano si sono abbandonati i canoni
del film-verità a favore del film-inchiesta, del film-discorso.
Sono le argomentazioni soggettive del regista, la ricerca puntuale
dell'obiettività della documentazione, il rigore nella ricostruzione
della storia (sociale, politica, ambientale, ecc.) ad essere prese
come riferimento per non banalizzare i processi di governance,
quando si vogliono ridurre gli stessi a strumenti di sola partecipazione
popolare alle scelte di pianificazione.
Fa piacere constatare che quello stile oratorio, discorsivo, inventato
per la prima volta da Rosi ne Le mani sulla città
(all'uscita il film fu tacciato di essere un comizio politico) sia
oggi ripreso da altri autori, al fine di raccontare con impegno civile
nuove storie urbane o catastrofi ambientali. Quanti sono gli spettatori,
e soprattutto i critici, che nel vedere Bowling a Colombine
di Michael Moore (18) sanno riconoscere nello
stile del documentarista statunitense un'elaborazione aggiornata delle
strutture narrative del film di Rosi?
Lo spettacolo teatrale Vajont 9 ottobre '63. Orazione civile
di Marco Paolini è stato definito: "Un'opera epica, che
è insieme memoria, documento, creazione, denuncia minuziosa
(...): un'orazione civile per una tragedia italiana" (19),
una piece teatrale "politica" che ha ottenuto un
largo consenso di pubblico e dei critica. Perché non ricordare
che nel 1963, alla sua prima uscita, il film di Rosi fu accusato di
"fare politica" e questa nuova poetica era –secondo
la critica– da bandire dalle opere etiche ed estetiche del cinema
italiano. Pochi, come ad esempio Sandro Zambetti, intuirono l'originalità
del nuovo linguaggio cinematografico: "Un film che "faccia
della politica" non ha niente da rimproverarsi perché
non fa altro che inserirsi in un dibattito di idee e nessuno ha ancora
dimostrato che le idee nuocciano all'arte e inaridiscano l'ispirazione,
mentre è facilmente dimostrabile il contrario, citando magari
Dante o, senza andar troppo indietro, Berthold Brecht". (20)
Molti film-verità degli anni '60-'70, nati come strumenti di
propaganda partitico-politica, visti oggi sono invecchiati male. Il
film di Rosi resta di grande attualità perché tratta
di quel perverso rapporto che ancor oggi si instaura in Italia tra
politica e moralità, tra partiti e strategie senza principi,
tra conflitti inerenti interessi pubblici e privati.
Giorgio Conti
conti@unive.it
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[30nov2004]
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NOTE:
1. F. Balzoni, I film di Francesco Rosi, Gremese Editore, Roma,
1986.
2. Cfr. nel sito www.cineclub.it: Francesco Rosi, Appunti di regia.
3. Con Visconti ha collaborato anche per Bellissima e per Senso.
4. Cfr. sito: www.cineclub.it.
5. Hanno collaborato con Rosi alla sceneggiatura R. La Capria, E. Provenzale
ed E. Forcella. Il sodalizio con La Capria, proseguirà anche
in seguito, per altri film.
6. R. La Capria, Ferito a morte, Bompiani, Milano, 1961.
7. R. La Capria, Napolitan Graffiti, Rizzoli, Milano. Raffaele
La Capria intorno al 1945 con un gruppo di "giovani illuminati"
che comprendeva Ghirelli, Patroni Griffi, Compagna, Stefanile, Ortese,
Scognamiglio, aveva fondato la rivista "Sud".
8. L. Ciacci, Progetti di città sullo schermo. Il cinema
degli urbanisti, Marsilio, Venezia, 2001.
9. Ibidem, pag. 146.
10. Cfr. G. Conti, E. Barbiani, Documenti: Governo, Sindacati Regioni,
IACP, ISES, Gescal, Ance, Cooperative, Soc. Gen. immobiliare, Unione
inquilini, Fondazione Agnelli, ISVET, CIPI, CER, CNEL, INU, Associazione
Nazionale Centri Storici, ecc. a confronto sul problema della casa in
Italia, Ediz. Regione Veneto, Venezia, 1973.
11. G. Conti, Riprogettare Bagnoli flegrea: immagini locali e visioni
globali, in Napoli Fotocittà, Risonanze meccaniche,
ART&, Udine, 1997.
12. R. Guarini, Il Pci napoletano degli anni '50 se ne fregava dell'ambiente,
in "Sette", 20 novembre 2003, p. 59.
13. M. Demarco, Che cosa c'entra Achille Lauro con lo scempio sotto
il Vesuvio di oggi?, in "Sette", 13 novembre 2003, p.
40.
14. T. Kezich, Scusi mi racconta una storia? Si, c'era una volta
il Sud, in "La Repubblica", 16 dicembre 1980.
15. F. Balzoni, op. cit., p. 30.
16. M. Luongo, Diario all'ombra del Vesuvio, in "l'Unità",
21 agosto 1992.
17. S. Zambetti, Francesco Rosi, il Castoro Cinema-La Nuova
Italia, Firenze, 1976.
18. A. Grasso, A lezione di giornalismo con Moore, in "Corriere
della Sera", 13 marzo 2004.
19. M. Paolini, Vajont 9 ottobre '63, Einaudi, Torino, 1999.
20. S. Zambetti, Le mani sulla città, in "Cineforum",
anno III, 30, dicembre 1963, p. 955. |
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