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Le mani sulla città: immaginari collettivi e memoria storica

Giorgio Conti



SUL FILM COME STORIA. Si afferma che un film diventi leggendario quando il suo titolo (citiamo La dolce vita o Amarcord per fare riferimento a Fellini) si trasforma in una locuzione d'uso corrente della quale si perde, a volte il riferimento ai significati o alle fonti originarie.
Le mani sulla città di Francesco Rosi appartiene a questo genere di film, la rappresentazione di fatti di cronaca locale è riuscita ad elevarsi ad immaginario collettivo, a memoria storica.
Premiato con il Leone d'oro al Festival del Cinema di Venezia, nel 1963, dove era in concorso anche 8 e mezzo: la denuncia sociale di Rosi vince sull'introspezione esistenziale di Fellini. Una svolta importante, se si pensa che due anni prima, il terzo film del regista napoletano, Salvatore Giuliano (1961), non era stato neppure selezionato. (1)
Il premio veneziano consacrerà a livello internazionale un nuovo modo di fare cinema: quello del film storico-politico. Distante ma non distinto dai canoni del neorealismo italiano, la cifra stilistica di Rosi sarà quella di superare le limitazioni espressive e scandalistiche tipiche del movie-film e del film-documento o film-storia: "Sento che c'è un avvicinamento non solo tra cinema e storia, ma anche in una direzione culturale più vasta, e cioè tra letteratura e storia. Non nel senso che si debba fare della storiografia col cinema o con la letteratura, ma nel senso che oggi la storia è l'occhio conoscitivo più penetrante, più lucido. Oggi ci si esprime attraverso un realismo critico e quindi per forza storico". (2)




L'imprinting alla sceneggiatura e al fare cinema Rosi l'aveva ricevuto collaborando nel 1950 con Luchino Visconti per La terra trema (3), poi con Luigi Zampa in Processo alla città (1952) ed infine con Michelangelo Antonioni ne I vinti (1953). Certamente da questi maestri deve aver appreso l'impegno sociale nella regia e nella vita.
Forse dal rigore della sceneggiatura e dalla maniacale ricerca filologica di Visconti si è ispirato per definire un proprio stile comunicativo che, fondato su una ricerca accurata dei fatti, giunge ad un'originale ricostruzione/simulazione filmica delle vicende realmente accadute, dove si fondono in modo mirabile la finzione e la realtà storica.
Un modo originale di superare anche le strutture di un neorealismo di maniera: "(...) la mia aspirazione è stata tirar fuori da una realtà la storia stessa del film. Non è applicare ad una realtà la storia. Quello che secondo me è stato un po' la deformazione di un neorealismo di maniera è stato applicare ad una storia prefabbricata la realtà". (4)

Le mani sulla città affronta una trama che tocca molto da vicino il regista: nato a Napoli (1922), benché trasferito a Roma dall'immediato dopoguerra (1946) ne è sempre stato sempre legatissimo, condividendo il suo atteggiamento di passione civile per la propria città con lo scrittore Raffaele La Capria –co-ideatore della sceneggiatura e del soggetto–, nato a Napoli nello stesso anno (5), con il quale ha in comune "l'esilio" romano e gli studi in giurisprudenza. Per entrambi denunciare il sacco urbanistico partenopeo significa confrontarsi sia con la giustizia sociale, sia con un profondo amore per la propria città.
Nel 1961 La Capria aveva vinto il Premio Strega con Ferito a morte (6), una rappresentazione storica di una generazione napoletana che, dopo alterne vicende, si rivelerà pigra al cambiamento e malinconica nella personalità: quella di Napoli è una condizione esistenziale e urbana che "ti ferisce a morte o ti addormenta, o tutte e due le cose insieme". (7)
Da qui il carattere militante del film che si enuncia già dalle prime inquadrature, quelle visioni aeree dei tessuti urbani prodotti/distrutti dalla bieca speculazione edilizia, promossa dalla amministrazione Laurina della città, impietosamente analizzata da lunghi piani sequenza.
Un film tautologico, le stesse identiche immagini compaiono anche alla fine, accompagnate da una significativa didascalia (una sorta di chiave di lettura): "I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, autentica è invece la realtà sociale ed ambientale che li produce".



SULLE INTERPRETAZIONI. Leonardo Ciacci, nella sua ricerca sul cinema degli urbanisti (8), pone una domanda cruciale relativa all'utilità del cinema per l'urbanistica: immaginario o memoria?, mettendo in particolare risalto come l'esperienza condivisa trasformi i significati: "Ricostruire la storia delle immagini, fino a risalire all'origine della trasformazione, è quanto si deve fare, se si vuole passare da un concetto difficilmente utilizzabile, quale quello di 'immaginario collettivo', utilizzato nel confronto collettivo, a uno utile e utilizzabile quale quello di una memoria collettiva". (9)



La memoria collettiva si forma, a mio avviso, anche attraverso il "vissuto della visione", una sorta di storiografia dei valori interpretativi e dei contesti socio-culturali, che concorrono a dare senso e significato all'atto individuale e sociale del vedere.
Le mani sulla città l'ho visto tre volte, in maniera attenta e partecipata, ogni volta ho ricevuto suggestioni e messaggi diversi. Non era cambiato il film, ma era mutato il contesto storico-sociale così come le mie valutazioni individuali; alcune parti e scene venivano privilegiate su altre ed anche il ruolo dei protagonisti si trasformava: personaggi-metafora da centrali passavano in secondo piano.
In questa mia personale "trilogia della visione", solo a posteriori, mi sono accorto d'aver praticato delle letture metonimiche (la parte per il tutto), chiavi di lettura che fanno riferimento ad un'arbitraria scomposizione (inversa) delle parole che articolano il titolo del film: città, sulla, le mani.
Nel 1969 pensavo che il film fosse un'analisi puntuale della speculazione edilizia (la città); nel 1992 avevo visto oltre il sacco immobiliare i conflitti di interesse tra pubblico e privato (sulla); nel 2004 sono stati i conflitti urbani (le mani), i conflitti di potere, ad attirare maggiormente la mia attenzione.



PRIMA VISIONE, 1969
LA SPECULAZIONE EDILIZIA: UNA LETTURA IDEOLOGICA. Ho assistito per la prima volta alla proiezione del film a Venezia, in un circolo cinematografico, verso la fine del 1969, dopo lo sciopero nazionale unitario per la casa, indetto dalle confederazioni sindacali CGIL, CISL, UIL (19 novembre 1969). La casa come "servizio sociale" promossa dagli enti pubblici era lo slogan più urlato dai manifestanti: dai baraccati di Roma e Napoli agli immigrati (prevalentemente meridionali) dei grandi poli industriali del Nord. Questa richiesta si contrapponeva alla strategia dell'Associazione Nazionale Costruttori Edili (Ance) che auspicava un edilizia residenziale come "bene d'investimento", prevalentemente d'interesse privato. (10)

Il problema della casa rappresentava una spia eclatante dei più vistosi squilibri settoriali e territoriali che avevano accompagnato il "miracolo economico" del Paese nella seconda metà degli anni '60. Concentrazione e congestione, esodo e sottosviluppo erano gli effetti tangibili di queste trasformazioni dell'assetto territoriale e produttivo.
L'acutizzarsi della "questione meridionale" era alimentato dal ruolo strategico che il settore edilizio assumeva nel determinare il motore dello sviluppo dei centri urbani maggiori del Mezzogiorno. Ero iscritto al terzo anno della Facoltà di Architettura allo IUAV di Venezia e anche in quella città, in particolare nel centro storico lagunare e nel polo industriale di Marghera, le problematiche relative al "diritto alla casa" erano molto sentite dai ceti popolari, anche a prescindere dalle distinzioni politico-partitiche.
Si può ben comprendere, quindi, come le scene del film di Rosi fossero sonoramente commentate e fortemente partecipate dal pubblico di studenti e operai presenti in sala.
La chiave di lettura del film era prevalentemente emotiva ed ideologica. Il giudizio manicheo: da una parte i "buoni" capeggiati dal consigliere comunale comunista De Vita, dall'altra i "cattivi" con a capo il costruttore Nottola. Della storia era sulle parti iniziali che si concentrava maggiormente l'attenzione degli spettatori: la rendita fondiaria assoluta, capace di trasformare un metro quadrato di terreno agricolo in un'area edificabile, con una rendita pari al 5000% del valore iniziale "Tutto guadagno, nessun rischio".
Anche il crollo nel Centro Storico dimostrava la pirateria di una speculazione edilizia senza scrupoli.

A questa strategia urbanistica si opponeva il De Vita: "Voi avete buttato a mare il Piano Regolatore", in un sillogismo che equiparava il PRG ad uno strumento di legalità.
Con il senno di poi, cosa proponevano per il futuro di Napoli i partiti della Sinistra? Sfogliando le collezioni delle edizioni locali dell'Unità e di Paese Sera di quegli anni, pare chiaro che la soluzione-modello era individuata nella Grande Industria, il cui prototipo consisteva nell'insediamento di Bagnoli (11), Un modello di sviluppo certamente legale e partecipato ma insostenibile da un punto di vista ambientale, sociale ed economico: "...allora noi giovani comunisti napoletani non sognavamo affatto una Napoli ambientalmente corretta. Sognavamo una Napoli costellata di fabbriche, cantieri, ciminiere, fumacchi, liquami, fetore e smog". (12)
Recentemente, alcuni articoli apparsi sulla stampa nazionale, hanno acceso una polemica sull'errore di Rosi, accusato di omissioni nel film Le mani sulla città nei confronti dello scempio ambientale prodotto nel territorio napoletano dalla grande industria fin dal dopoguerra. (13)
Se nel film "manca" la denuncia degli aspetti e degli impatti industriali-ambientali che stavano brutalizzando, in particolare, gli insediamenti costieri, è perché mancava allora una coscienza ambientalista da parte della stragrande maggioranza dei rappresentanti politici e culturali della Sinistra italiana. In ogni caso, specie nel Sud, qualsiasi nuovo posto di lavoro aveva la precedenza sui valori ambientali dei siti, a volte unici per le loro valenze ecosistemiche e paesaggistiche.
Nel 1969, la sala dove stavo vedendo il film di Rosi ospitava spesso incontri e dibattiti sul futuro di Porto Marghera, si parlava spesso della nocività di alcuni posti di lavoro, ma non dell'insostenibilità ambientale del Polo industriale. Solo un gruppo di artisti veneziani scriveva sui muri del Petrolchimico: "Mortedison", per denunciare l'insostenibilità ambientale per la salute umana degli operai e della popolazione residente negli insediamenti industriali.



SECONDA VISIONE, 1992
I CONFLITTI DI INTERESSE TRA PUBBLICO E PRIVATO: DA NAPOLI A TANGENTOPOLI. La seconda volta ho rivisto il film nel 1992, al culmine della stagione dei processi di Tangentopoli che sembravano aver finalmente (e fatalmente) unificato l'Italia del malaffare dal Nord al Sud. La proiezione era stata promossa da un gruppo di nostalgici delle lotte politiche degli anni '60, un gruppo spontaneo, eterogeneo, sia per estrazione sociale, sia per orientamenti politici. Il luogo dove era stata organizzata la proiezione era improvvisato, il film costituiva certamente un pre-testo per parlare non dell'ieri ma dell'oggi.
Qualcuno si era ricordato di Rosi, soprattutto quando sosteneva che "per attirare l'attenzione il Sud deve continuamente esplodere (...) il Sud torna alla ribalta solo in occasione di tragedie che in parte sarebbero evitabili o contenibili. Perciò io con i miei film ho continuato a dire una cosa sola: non esiste la questione meridionale, esiste la questione nazionale. Non ricordiamoci del Sud solo nei momenti straordinari, ma nel "quadro della realtà ordinaria". (14)



Le mani sulla città
si erano estese a tutto il territorio nazionale, partendo con le inchieste giudiziarie proprio da Milano, che, allora, veniva definita la "capitale morale" d'Italia.
La chiave interpretativa che aveva egemonizzato il dibattito, dopo la proiezione del film, non privilegiava più la speculazione edilizia, ma l'intreccio di interessi tra pubblico e privato. Il personaggio più analizzato e vituperato era quello dello speculatore Nottola: il personaggio negativo –interpretato con grande maestria da Rod Steiger, capace addirittura di imitare la mimica e la gestualità napoletana– era certamente una figura narrativa alla quale il regista aveva conferito un'importanza strategica nella valutazione della storia napoletana: "Il personaggio negativo (Nottola, ndr.) in Le mani sulla città era l'eroe del film. Lo sforzo consisteva, qui, nel narrare la sua negatività e nell'inquadrarla in un contesto storico, cercando di far capire che in una società organizzata quella stessa carica negativa sarebbe stata positiva. Le mani sulla città dava la vivisezione di un ambiente corrotto, di una giungla. Il film propone un groviglio di storie collettive che suggeriscono, esse stesse, dei personaggi". (15) Nottola è, a suo modo, un manager ante litteram, non un parassita come Maglione, il rappresentante del "vecchio potere" politico.

Il suo studio è stato progettato in base ai trend più aggiornati dell'architettura moderna e rappresenta nel gusto l'antitesi della villa con piscina di Maglione, dove i mobili d'epoca degli interni testimoniano un valore economico privo di valore estetico nella loro disposizione casuale. Come nel film di Rosi i processi di Tangentopoli mettevano in risalto che non erano solo le singole persone ad essere corrotte, ma l'intero sistema partitico-politico italiano, senza distinzioni tra Destra e Sinistra.
Del resto vi era un parallelismo tra l'indagine giudiziaria e il film-inchiesta di Rosi, solo che all'inizio degli anni '90 la realtà sembrava aver superato la finzione cinematografica.
Il film era ritornato in auge, era considerato profetico, non più un film sui mali di Napoli, ma su quelli nazionali.
Nel 1991 Rosi era stato invitato a presentare Le mani sulla città alla Facoltà di Architettura di Napoli, per discuterne con urbanisti e intellettuali, non solo locali. Da quell'occasione nasce l'idea di girare un film-documento: Diario napoletano, prodotto da Rai Tre nel 1992.
Una sorta di diario intimo retrospettivo, prospettivo, introspettivo, senza pietismo ma con un grande sentimento di delusione che nasce dal rivedere lo scempio storico delle colline di Posillipo; il gigantismo (fuori scala e fuori luogo) del Centro Direzionale; gli esiti inquietanti dell'edilizia pubblica come quella del rione 167 di Secondigliano. (16)
Il post-laurismo non aveva, certamente, rappresentato un periodo di discontinuità nel sacco edilizio della città partenopea. Quel sacco edilizio, attraverso l'intreccio perverso di interessi pubblici e privati, di modernizzazione mancata e di falsi sviluppi industriali, con Tangentopoli stava emergendo con tutta la sua valenza dirompente nella società civile e, soprattutto, nelle strutture/ funzioni dei tradizionali partiti politici.
Le persone che a Venezia, in particolare i giovani, assistevano alla proiezione di Le mani sulla città erano affascinate dalla capacità del regista di produrre un film inchiesta senza scadere nella bieca propaganda o nel misero messaggio puramente didattico. Si era stabilito un legame virtuale-virtuoso tra le inchieste di Tangentopoli e la poetica del regista napoletano, dove la responsabilità civile si coniugava con le valenze espressive ed estetiche del film.



TERZA VISIONE, 2004
I CONFLITTI URBANI COME CONFLITTI DI POTERE: DALLA SPECULAZIONE ALLA GOVERNANCE. Ho rivisto il film per la terza volta nell'estate 2004. Una proiezione casalinga, privata, senza spettatori, utilizzando una videocassetta allegata ad un quotidiano. Questa volta si è trattato di una visione non sollecitata da eventi sociali di carattere nazionale –come per quelle del 1969 e del 1992– ma dalla richiesta di scrivere delle riflessioni critiche da pubblicare in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Pianificazione territoriale urbanistica & ambientale per Francesco Rosi proposta dalla Facoltà di Architettura dell'Università di Reggio Calabria.

Il film era rimasto lo stesso, ma erano profondamente cambiate le categorie interpretative per leggerlo e decostruirlo nel suo essere un messaggio polisemico e complesso.
Le mani sulla città, una lezione di urbanistica? Mentre assistevo allo svolgimento della trama me lo domandavo, una lezione di urbanistica? Si, ma con quali significati? Non certamente nel senso di una mera denuncia del sacco edilizio o del malgoverno spesso esistente nella gestione urbanistica e delle opere pubbliche, soprattutto nel Mezzogiorno. Il film non rappresenta il semplice medium/supporto di battaglie culturali sul modello di quelle condotte da Italia Nostra, e in particolare da Antonio Cederna, fin dagli anni '60.



Se durante le lotte per la casa del 1969 la mia attenzione si era concentrata sulla figura dell'eroe De Vita, l'antispeculatore, nel 1992 nel tumulto di Tangentopoli era stato lo speculatore Edoardo Nottola –l'artefice del connubio perverso tra pubblico e privato– ad essere considerato il protagonista principale della vicenda napoletana, nel 2004 è sul personaggio De Angeli che si concentrano maggiormente le mie valutazioni/interpretazioni.
Il film non tratta, né fa una disamina accurata delle tecniche delle speculazioni edilizie.
I discorsi, le panoramiche sulle condizioni abitative delle classi popolari e sottoproletarie del Centro storico e delle periferie napoletane non costituiscono un focus importante nella trama narrativa del film. La speculazione edilizia esiste ma non è il soggetto principale del film. È invece l'occupazione del potere il filo conduttore, il leit motiv del racconto e della "speculazione" filosofica del film di Rosi. Alla luce di questa valutazione la figura di De Angeli assume un ruolo centrale, anche se, come un deus ex machina, viene introdotta solo verso la fine della storia. In quest'ottica De Vita sembra essere ancor di più un personaggio astratto, privo di legami con quella società civile per la quale combatte e vuole riscattare. Il suo limite è battersi per il PRG, per una legalità, un buon governo, senza grandi idealità. De Nottola è senza dubbio un personaggio forte, ma non il protagonista. Una figura che all'uscita del film, nel 1963, servì alla critica (soprattutto di Sinistra) per tacciare di americanismo (sul modello di Elia Kazan, per intenderci) lo stile registico di Rosi.

Il personaggio De Angeli non può essere banalizzato come un simbolo del doroteismo, che risulterà vincente nel partito della Democrazia Cristiana dopo la breve esperienza del primo Centro sinistra. De Angeli costituisce una metafora del rapporto potere-politica dove ogni becera alleanza, i peggiori compromessi, le "convergenze parallele", sono dettate dal "dovere di governare", dal "salvare la libertà", dal "farsene carico". (17)
Il personaggio-simbolo di una politica che subordina i mezzi ai fini, distante dalle rendite parassitarie e paleocapitalistiche del "borbonico" Maglione (rappresentante della Destra) e dalla spregiudicatezza tutta neocapitalistica di Nottola, è De Angeli che, con un cinismo elegante nei modi ma fermo nei propositi, arriva a dire: "un grande partito come il nostro i Nottola li digerisce quando vuole".

La stessa figura del "buon" Balsamo non appare come antagonista alla occupazione del potere per il potere. Il suo buonismo è senza strategia, un misto di onestà, moralismo e populismo, incapace di intessere alleanze alternative. La vittoria finale di De Angeli testimonia la fine dei partiti come portatori di principi, di interessi pubblici ed etici condivisi.
Quindi se il film rappresenta una lezione di urbanistica, questa va interpretata nel senso che il regista napoletano ha ben individuato anche quelli che possono essere considerati i protagonisti dei processi di governance che costituiscono i fondamenti ed i prerequisiti delle fasi partecipative del governo del territorio.
Nel film sono esemplificati i conflitti di interesse (pubblico-privato), i conflitti di valori (città pianificata-città non pianificata), i conflitti di rapporto (l'incapacità di dialogo costruttivo fra De Vita e Balsamo), i conflitti cognitivi (la causa tecnica, la commissione d'inchiesta per appurare le responsabilità del crollo degli edifici "ristrutturati" dallo speculatore Nottola).
Le politiche deboli dei De Vita e dei Balsamo possono essere paragonate a quelle dei mille comitati, assemblee, gruppi di opinione, movimenti di lotta di base, che nascevano per contrastare politiche e piani settoriali di intervento urbanistico, del tutto incapaci, però, di proporre strategie alternative al modello di sviluppo ambientale e territoriale vincente e insostenibile.

De Angeli, rivisto oggi, risulta essere un personaggio profetico, colui che in nome dell'occupazione del potere per i potere sarà in grado di affondare la credibilità ed il ruolo dei partiti nella società civile italiana. Anche la politica "urlata" del consiglio comunale aperto al pubblico nelle parti finali del film e, nello stesso tempo, le mediazioni-contrattazioni che si svolgono al riparo da occhi indiscreti nei "corridoi" delle spartizioni politiche, sembrano anticipare un modo di concepire la vita democratica molto simile alle attuali trasmissioni televisive improntate sull'alterco, più che sulla dialettica argomentativa tra partiti politici.

Il film di Rosi rappresenta una lezione di urbanistica perché per la prima volta nel cinema italiano si sono abbandonati i canoni del film-verità a favore del film-inchiesta, del film-discorso. Sono le argomentazioni soggettive del regista, la ricerca puntuale dell'obiettività della documentazione, il rigore nella ricostruzione della storia (sociale, politica, ambientale, ecc.) ad essere prese come riferimento per non banalizzare i processi di governance, quando si vogliono ridurre gli stessi a strumenti di sola partecipazione popolare alle scelte di pianificazione.

Fa piacere constatare che quello stile oratorio, discorsivo, inventato per la prima volta da Rosi ne Le mani sulla città (all'uscita il film fu tacciato di essere un comizio politico) sia oggi ripreso da altri autori, al fine di raccontare con impegno civile nuove storie urbane o catastrofi ambientali. Quanti sono gli spettatori, e soprattutto i critici, che nel vedere Bowling a Colombine di Michael Moore (18) sanno riconoscere nello stile del documentarista statunitense un'elaborazione aggiornata delle strutture narrative del film di Rosi?
Lo spettacolo teatrale Vajont 9 ottobre '63. Orazione civile di Marco Paolini è stato definito: "Un'opera epica, che è insieme memoria, documento, creazione, denuncia minuziosa (...): un'orazione civile per una tragedia italiana" (19), una piece teatrale "politica" che ha ottenuto un largo consenso di pubblico e dei critica. Perché non ricordare che nel 1963, alla sua prima uscita, il film di Rosi fu accusato di "fare politica" e questa nuova poetica era –secondo la critica– da bandire dalle opere etiche ed estetiche del cinema italiano. Pochi, come ad esempio Sandro Zambetti, intuirono l'originalità del nuovo linguaggio cinematografico: "Un film che "faccia della politica" non ha niente da rimproverarsi perché non fa altro che inserirsi in un dibattito di idee e nessuno ha ancora dimostrato che le idee nuocciano all'arte e inaridiscano l'ispirazione, mentre è facilmente dimostrabile il contrario, citando magari Dante o, senza andar troppo indietro, Berthold Brecht". (20)

Molti film-verità degli anni '60-'70, nati come strumenti di propaganda partitico-politica, visti oggi sono invecchiati male. Il film di Rosi resta di grande attualità perché tratta di quel perverso rapporto che ancor oggi si instaura in Italia tra politica e moralità, tra partiti e strategie senza principi, tra conflitti inerenti interessi pubblici e privati.

Giorgio Conti
conti@unive.it

[30nov2004]
NOTE:

1. F. Balzoni, I film di Francesco Rosi, Gremese Editore, Roma, 1986.
2. Cfr. nel sito www.cineclub.it: Francesco Rosi, Appunti di regia.
3. Con Visconti ha collaborato anche per Bellissima e per Senso.
4. Cfr. sito: www.cineclub.it.
5. Hanno collaborato con Rosi alla sceneggiatura R. La Capria, E. Provenzale ed E. Forcella. Il sodalizio con La Capria, proseguirà anche in seguito, per altri film.
6. R. La Capria, Ferito a morte, Bompiani, Milano, 1961.
7. R. La Capria, Napolitan Graffiti, Rizzoli, Milano. Raffaele La Capria intorno al 1945 con un gruppo di "giovani illuminati" che comprendeva Ghirelli, Patroni Griffi, Compagna, Stefanile, Ortese, Scognamiglio, aveva fondato la rivista "Sud".
8. L. Ciacci, Progetti di città sullo schermo. Il cinema degli urbanisti, Marsilio, Venezia, 2001.
9. Ibidem, pag. 146.
10. Cfr. G. Conti, E. Barbiani, Documenti: Governo, Sindacati Regioni, IACP, ISES, Gescal, Ance, Cooperative, Soc. Gen. immobiliare, Unione inquilini, Fondazione Agnelli, ISVET, CIPI, CER, CNEL, INU, Associazione Nazionale Centri Storici, ecc. a confronto sul problema della casa in Italia, Ediz. Regione Veneto, Venezia, 1973.
11. G. Conti, Riprogettare Bagnoli flegrea: immagini locali e visioni globali, in Napoli Fotocittà, Risonanze meccaniche, ART&, Udine, 1997.
12. R. Guarini, Il Pci napoletano degli anni '50 se ne fregava dell'ambiente, in "Sette", 20 novembre 2003, p. 59.
13. M. Demarco, Che cosa c'entra Achille Lauro con lo scempio sotto il Vesuvio di oggi?, in "Sette", 13 novembre 2003, p. 40.
14. T. Kezich, Scusi mi racconta una storia? Si, c'era una volta il Sud, in "La Repubblica", 16 dicembre 1980.
15. F. Balzoni, op. cit., p. 30.
16. M. Luongo, Diario all'ombra del Vesuvio, in "l'Unità", 21 agosto 1992.
17. S. Zambetti, Francesco Rosi, il Castoro Cinema-La Nuova Italia, Firenze, 1976.
18. A. Grasso, A lezione di giornalismo con Moore, in "Corriere della Sera", 13 marzo 2004.
19. M. Paolini, Vajont 9 ottobre '63, Einaudi, Torino, 1999.
20. S. Zambetti, Le mani sulla città, in "Cineforum", anno III, 30, dicembre 1963, p. 955.
Il presente saggio è inserito nel primo numero monografico quadruplo di CinemaCittà, rivista internazionale di cultura architettonica, urbanistica, cinematografica e della comunicazione, diretta da Enrico Costa, di imminente uscita presso Gangemi editore, Roma. Il numero è dedicato alla figura e all'opera di Francesco Rosi.

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