Città
(in)compiute |
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Trekroner
è attualmente il secondo progetto di sviluppo urbano in Danimarca:
a 20 km da Copenhagen, nei campi intorno all'università di Roskilde,
si sta costruendo una nuova parte di città per 10.000 abitanti
– molti dei quali saranno studenti. Trekroner è un luogo
dove tutto è nuovo, e continuerà ad evolvere per i prossimi
12 anni, fino al suo completamento. Nel 2001 il Comune di Roskilde chiede alla Danish Art Foundation di aiutarla ad integrare nel processo di pianificazione urbana idee alternative. Il risultato è stata una commissione per discutere del ruolo dell'arte contemporanea nei quartieri di nuova costruzione, in funzione della creazione ed espressione di una identità civica. Grazie ad una donazione di 300.000 dk della Fondazione, si attiva un Art Plan su progetto dell'artista Kerstin Bergendal, che si propone di intervenire sul processo di definizione dell'identità urbana di Trekroner attraverso la collaborazione tra progettisti ed artisti per interventi sullo spazio pubblico, ma anche sulla struttura stessa degli edifici. Le parole chiave, le tracce su cui sono stati invitati a riflettere e produrre gli artisti sono: formare al luogo attivare il luogo scrivere la storia del luogo Nel settembre scorso, come parte di un processo di valutazione della prima fase dell'Art Plan, Kerstin Bergendal organizza un simposio internazionale per attivare un confronto tra pratiche differenti (artisti, architetti, urbanisti) e discutere sui processi di produzione di identità e differenze nella città. Il testo che segue è il mio contributo al simposio, e parte di un testo più ampio che insieme a quelli degli altri invitati costituirà un pubblicazione prevista nella primavera del 2006. [AI] |
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Esiste
una frattura insanabile tra città storica e contemporanea, su
cui l'architettura del secolo scorso si è molto interrogata,
cercando di ricomporla attraverso goffi e fallimentari tentativi di
riproporne forme e struttura, arrivando infine ad aumentarne ancor di
più l'ampiezza, producendo una serie di falsi inattuali
ancor prima di essere realizzati. Questa frattura nasce in realtà non tanto dalla tabula rasa linguistica operata dall'architettura razionalista del secolo scorso, quanto piuttosto dalla trasformazione radicale dei modi in cui si produce lo spazio urbano. Si è passati, infatti, da una crescita per aggiunte e trasformazioni successive del corpo della città, ad una produzione in cui attraverso il piano ed il progetto il potere politico ed economico si ponevano come obiettivo la configurazione definitiva di parti intere di città. Dalle sconfinate estensioni di edilizia privata di varia foggia e tipologia, fino ai tentativi più radicali di configurare una nuova forma di abitare collettivo e di socialità urbana, la scala progettuale degli interventi, l'indifferenza delle tecniche e dei materiali al territorio, la struttura della proprietà sono alcuni dei fattori che hanno prodotto le prime città pensate, realizzate e mantenute come compiute, senza bisogno di ulteriori modifiche e correzioni, come processi da terminare nell'arco di pochi anni, un attimo se confrontati ai tempi geologici con cui si sono formati i centri storici. |
[30jan2006]
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Da una logica naturale della trasformazione e della sedimentazione progressiva si è passati ad una logica di progettazione globale, omnicomprensiva e risolutiva. In altri termini, per abusare delle parole di Pierre Levy, si è passati da una logica molecolare di crescita progressiva ad una logica molare di creazione istantanea. Si è esclusa di fatto la possibilità che si attivasse quel processo di sedimentazione della memoria che costruisce, strato dopo strato, traccia dopo traccia, l'identità di un luogo, questo oscuro oggetto del desiderio che molti architetti della seconda metà del '900 hanno cercato di ricreare in vitro, sinteticamente, durante la fase progettuale. Ma esistono luoghi del mondo che ancora oggi si sottraggono a queste logiche, perché ancora troppo poveri per esserne assimilati: si tratta di quelle immense estensioni di quartieri autocostruiti che si producono incessantemente nelle città del cosiddetto terzo mondo, dove il sistema di regole per la produzione della città è appena abbozzato, e la crescita non può che avvenire per colonizzazione progressiva di territori appena tracciati. In questi luoghi, malgrado la drammatica condizione in cui si vive, le condizioni igieniche spesso disastrose, la povertà endemica, la diffusione della criminalità organizzata, la città si costruisce attraverso trasformazioni progressive, attuate direttamente dagli abitanti. Walter Benjamin, parlando dell'interno borghese della Parigi del XIX secolo (1), ci dice che "abitare è lasciar tracce" confinate e neutralizzate tra le mura domestiche, dove l'abitante si sente illusoriamente dominus dello spazio che lo circonda, artefice del proprio microcosmo. Ma in questi luoghi l'abitare irrompe nello spazio collettivo, prende parte alla costruzione della città stessa. In questi luoghi, grazie a questa sovrapposizione tra dominio privato e pubblico, assistiamo a processi accelerati di sedimentazione di quelle tracce che ne formeranno, nel tempo, l'identità. Qui, dimenticando ciò che è sostanziale, ovvero che queste città estreme sono il frutto di uno stato di privazione, di fronte ad una casa costruita assemblando con cura elelmenti di recupero, utilizzati anche e con un certo gusto in funzione decorativa, potremmo pensare ad un altro luogo, ad un altro tempo, all'utopia che nel 1957 con il "gioco psicogeografico della settimana" i situazionisti proponevano ai lettori delle pagine di Potlatch: In funzione di quello che cercate, scegliete una contrada, una città dalla popolazione più o meno densa, una strada più o meno animata. Costruite una casa. Ammobiliatela. Tirate fuori il meglio dalla sua decorazione e dai suoi dintorni. Scegliete la stagione e l'ora. Riunite le persone più adatte, i dischi e gli alcolici più appropriati. L'illuminazione e la conversazione dovranno essere evidentemente adatti alla circostanza, come il clima o i vostri ricordi. Se non ci sono errori nei vostri calcoli, la risposta dovrebbe soddisfarvi. (Comunicare i risultati alla redazione.) Le jeu psychogéographique de la semaine (Potlatch n. 1) Queste poche righe rovesciano quella che altrove è necessità in una utopia rivoluzionaria, prefigurando la possibilità di costruirsi il proprio ambiente, ed accordarne ogni elemento ai propri desideri e stati d'animo, attraverso la restituzione dei mezzi di produzione dello spazio all'individuo, il superamento dell'alienazione dello spazio stesso, ovvero del suo essere alieno in quanto pensato e prodotto da altri rispetto a chi lo abita. Ma ciò che è improbabile per il privato, diventa impossibile per il pubblico, spazio che non è di fatto modificabile, e che va al contrario depurato di ogni conflitto possibile, attraverso sistemi chiari e inequivocabili di regole stabilite a priori, di cui la forma e struttura degli spazi sono la componente fisica e tridimensionale. Avvicinarsi a quella utopia è possibile superando questo confinamento del lasciar tracce e permettere agli individui di appropriarsi dello spazio pubblico, di confondere il limite tra ciò che è privato e pubblico: "abitare è essere ovunque a casa propria" scriveva, in altri tempi e da ben altro punto di vista Ugo La Pietra, artista radicale italiano degli anni '60, invocando e realizzando nelle sue pratiche questo mescolamento tra pubblico e privato. La costruzione dell'identità di un luogo passa necessariamente attraverso questa restituzione dell'architettura all'individuo, all'apertura delle regole e dei processi con cui si costruisce, al divenire delle cose, al trascorrere del tempo. Alberto Iacovoni alberto.iacovoni@ma0.it |
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NOTA: 1. Walter Benjamin: Luigi Filippo o l'interieur, in Parigi. La capitale del XIX secolo, Angelus Novus, Einaudi 1955, Torino. |
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Le immagini che illustrano questa pagina sono di Trekroner (febbraio 2005) e Bogotà (settembre 2005). |
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La
sezione Playgrounds laboratorio
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