SOPRALLUOGHI

 

 

Parigi: l'American Center di Frank O. Gehry
di Enrico Scaramellini

 

 

L'American Center mi appare in secondo piano, le fronde degli alberi del parco prospiciente (progettato da Bernard Huet) ne impediscono una limpida visione. Un turbinio di linee, assimilabile ai quadri di Pollock, rende arduo l'atto di comprensione della forma. La mancanza di riferimenti, di una linea perfettamente orizzontale o verticale, innesca un vorticoso effetto ottico: è difficile trovare un punto che focalizzi l'attenzione, un acuto che catturi lo sguardo. Mi accorgo che è la totalità di quest'opera, la sua unitarietà, la causa di tale stordimento iniziale. Ripercorrendo inconsciamente l'opera di Frank Gehry, nella mia mente affiora una certezza: l'American Center non e' altro che l'ennesimo capitolo di un romanzo la cui trama rimane ignota allo stesso autore, non se ne può immaginare l'evolversi. Non vi e' qualcosa di determinato a priori, sembra di assistere ad un dramma improvvisato. L'aria che si respira è estremamente giocosa; sono le urla dei bambini, provenienti dal parco, che rendono l'atmosfera quasi esilarante. Il progetto appare ora come un enorme giocattolo, frutto di un'instancabile operazione ludica. L'impressione è che il progetto scaturisca da un gioco estremamente serio con regole ben precise.

 

Operazione di gioco-norma-progetto: è così che l'American Center mi appare. Ricordo un articolo in cui Bruno Munari scriveva "La fantasia nasce e si forma dalla sperimentazione, non si può fantasticare in astratto". Logica deduzione è che il limite, la norma, è interpretata da Gehry come stimolo creativo. Egli rappresenta il progettista ludico. Ludico inteso come elemento di connotazione specifica del suo operato. Lo stesso metodo di lavoro, adottato dal progettista americano, denota questa peculiarità: l'utilizzo continuo di modellini in scala richiama inconsciamente l'attività manuale di alcuni giochi infantili. L'American Center, visto in questa prospettiva, sembra plasmato da mani giocose, estremamente mature nella loro giocosità. La convinzione è che la predisposizione al gioco anche nell'adulto consente una maggior apertura mentale.
In un incontro organizzato dalla Triennale di Milano, Frank O. Gehry, nel descrivere la sua collaborazione con Philip Johson in un progetto americano, ha fatto riferimento a "quasi un gioco di scacchi. Ognuno costringeva l'altro a muoversi". Lo stesso Philip Johson nella medesima occasione ha affermato che secondo lui "ci sono due principi nel Moderno: Funzionalismo e Scienza. Ora ci sono due parole più interessanti e non dovrete mai dimenticarle: Passione e Gioco". L'elemento ludico è quindi costitutivo del fare architettonico di Frank Gehry ed è originato dai limiti programmatici del progetto. La mancanza di norme, l'eccessiva libertà, è distruttiva. Come un fiume di idee senza argini.

 


Nella virtuosa massa calcarea, si
materializzano, come cristalli
puri, gli ingressi

Regista dell'operazione di Bercy è l'architetto Jean Pierre Buffi; attraverso la formulazione di un Piano Generale d'Urbanizzazione (ZAC) si auspica la rivalorizzazione di grandi aree urbane con canoni qualitativi superiori. L'architetto coordinatore configura un piano programmatico, fatto di intenzioni, elemento unificante per i progettisti chiamati ad operarvi. È un progetto "di norme".
Bercy ,definita area depressa, è un quartiere che ha subito nei secoli numerose trasformazioni, dovute essenzialmente al cambiamento di attività al suo interno. Quando Buffi interviene, il ZAC, frutto di un concordato fra ente pubblico e società ad economia mista, è già definito nei suoi aspetti principali, Il suo compito si trasforma: nasce la necessità di dare un fondamento teorico a questo intervento, dotarlo di un'identità capace di autolegittimarlo. L'intervento ha le dimensioni di un progetto urbano e come tale, data la sua portata, andrà a costituire una nuova parte di città. L'American Center costituisce una delle parti terminali del progetto. L'accostamento agli edifici residenziali, progettati dai più noti architetti francesi, rende ancor più evidente la diversità del metodo progettuale di Frank Gehry. Le parole di Norberg Schulz "comunità indica condivisione malgrado la diversità, e identità significa non soccombere all'uniformità" hanno qui piena conferma architettonica.

 

Istantaneamente colgo l'ingresso, una lama di metallo mostra il lato tagliente al potenziale visitatore. Prepotentemente il ricordo del Museo Vitra si sovrappone ai miei pensieri; la perfezione del piccolo museo stava, secondo me, nel presentarsi come anomalo contenitore, chiuso, senza alcun rapporto visivo tra interno ed esterno. A Parigi la "scultura" è abitata e il riconoscerlo, anche se potrebbe sembrare banale, induce alla curiosità. Contrariamente ai precedenti progetti di Frank Gehry, l'American Center rende esplicito il fenomeno della gravità; renderlo evidente credo sia il segreto di questa architettura: il senso di gravità generato dalla massa monocromatica è contemporaneamente negato dalla vivacità di questa imponente opera. Il visitatore è sospeso fra percezioni contrastanti. Si riconoscono due ritmi formali. Una parte più geometrizzata ed una più irregolare. L'accostamento aiuta ed evidenzia questa particolarità, un serrato dialogo portato all'eccesso. In prossimità dell'ingresso alla fondazione, al disopra della lama metallica, incombe una massa calcarea, un'enorme masso in bilico. Nell'artificiosità di questo espediente vi è qualcosa di estremamente naturale. L'effetto che sortisce l'operazione è di anticipare l'ingresso all'edificio, quasi si verificasse una vera e propria fuga al suo interno. Frenando l'istinto decido di camminare intorno all'oggetto. Questa scelta si rivela ricca di sorprese. Muovendosi nello spazio l'architettura cambia, sembra possedere una sua vitalità che la fa scuotere, innalzare ed adagiarsi. Infatti, osservando la parte più geometrica dell'edificio si ha la sensazione che questo sia in uno stato di quiete apparente. Quiete immediatamente rotta non appena si oltrepassa una soglia ideale.

 


La visione d'insieme disorienta, vi
è un unico edificio, ma la
sensazione è che sia il risultato di
strutture sovrapposte.


La scultura è abitata, viva.
L' opera, nella sua modernità, ha
un carattere arcaico.
L'uso di un unico materiale è una delle caratteristiche principali dell'opera. Le lastre di calcaree che la ricoprono sono sfalsate l'un l'altra di 10 cm, quasi a voler imprimere all'intera costruzione un ritmo sovrapposto. Come se fossero innati due movimenti: uno dovuto al carattere scultoreo dell'edificio ed uno dovuto al sottile accorgimento nell'utilizzo del materiale. È comunque difficile distinguere un limite, un momento di passaggio da uno all'altro. Come in un brano di jazz si sovrappongono i ritmi e Gehry si dimostra un abile musicista nel governare questa sovrapposizione. Sulla riva opposta della Senna si erge la monumentale biblioteca con le sue quattro torri. Il grande fiume segna il confine tra mondi diversi, progettisti con retroterra culturali diversi hanno concepito queste opere. Perrault enfatizza la simmetria, Gehry la disintegra; l'uno utilizza caratteri monumentali, l'altro trae vantaggio nel calibrare il suo gesto formale senza ricorrere alla sua monumentalizzazione. La biblioteca all'orizzonte aiuta a comprendere appieno l'American Center. Opera creativa che stimola i sensi, la curiosità. Contrariamente l'architettura del progettista francese, eccessivamente simmetrica ed imponente, ricorda alcune opere di regime che inducono in qualche modo alla sottomissione e sminuiscono la partecipazione del pubblico. Chi entra nell'American Center si sente parte di un organismo. Chi si muove al suo interno comprende il fine principale del progettista: è un'opera per l'uomo e non un'opera che mortifica le sensazioni dell'uomo.
La compattezza delle pareti
rivendica la vocazione scultorea
dell'opera.
 

Attraversato il diaframma vetrato si è avvolti dal calore della luce che pervade l'atrio di ingresso; ventre accogliente di pietra calcaree. L'utilizzo del materiale che riveste l'intero edificio, sottolinea il carattere sospeso di questo spazio. Spazio di mediazione, interno non interno, esterno non esterno, implosione. Sollevo lo sguardo e il chiarore delle pareti annunciano un nuovo scenario. Due rampe di scale, di cui una si protende in modo quasi precario sopra le nostre teste, fungono da richiamo. Come "sirene" ci invitano ad addentrarci in questo "corpo misterioso". Accedo ad una piattaforma , piazza sospesa, foyer. Vero e proprio palcoscenico di attori, ove tutti sono comparse dello spettacolo architettonico. Dalle vetrate è possibile cogliere la complessità dell'edificio, i volumi si affacciano all'interno, creano un flusso continuo di energia. Attraversando gli spazi centrali si ha la sensazione di essere sospesi, i passaggi si dematerializzano, si assapora la misura del vuoto. Logica conclusione di questo percorso ascensionale sono le terrazze , ci si ritrova nuovamente all'esterno per godersi in maniera teatrale Parigi.

 

Il tentativo di Gehry è quello di dare all'uomo nuovi spazi e generare nuove sensazioni, attraverso opere frutto di un'apertura mentale e non di schematizzazioni condizionanti.
Rimane un unico rimpianto; un'architettura, capace di "istruire" attraverso la semplice fruizione, per motivi di gestione economica si è trovata recentemente privata del fattore umano. Ridotta a grande scultura, speriamo possa presto tornare ad accogliere il pubblico.

 

 

 

 

 

Enrico Scaramellini è nato nel 1969. Laureatosi al Politecnico di Milano nell'anno accademico 1996/97, nello stesso anno si iscrive all'Ordine degli Architetti della Provincia di Sondrio e apre il proprio studio professionale. Negli anni precedenti alla Laurea collabora con vari studi professionali. Vive e lavora a Madesimo (SO), piccolo luogo di villeggiatura immerso "nelle alte vette". Forse per questo motivo, crede che il "fare architettura" sia, senza eccezioni, legato alla consapevolezza che "costruire" è un atto di modificazione del paesaggio. Nel periodo 1994/95, collabora con la rivista "GB-Progetti - Osservatorio Internazionale". Rivolge il suo interesse a qualsiasi argomento che possa contaminare il suo operato di architetto; consapevole che le tecnologie "messe a disposizione" permettono di essere ovunque, anche se "le finestre del tuo studio incorniciano un paesaggio innevato". Ha partecipato ai seminari "Architettura - Infrastrutture - Paesaggio" promossi dal Politecnico di Milano e nel 1998 ha vinto una borsa di studio per il "Laboratorio itinerante di Architettura: Le aree dismesse a Sesto Calende ", l'esito di questo corso è stato recentemente pubblicato da Alinea con il titolo "Architettura nel segno dell'acqua". Come libero professionista partecipa a numerosi concorsi e si occupa di progettazione architettonica. Dall'anno accademico 1998/99 è Cultore della Materia presso il corso di Progettazione Architettonica al Politecnico di Milano. E' sua convinzione che la ricerca sia elemento necessario alla pratica professionale.

 

 

 

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