SOPRALLUOGHI

 

 

Peter Zumthor: copertura dei resti Romani a Coira
di Enrico Scaramellini

 

 

Casualmente mi avvicino dalla parte in cui nulla ostruisce la visione dell'edificio; esso si mostra austero, regale, di un'eleganza sobria appartenente ad una cultura semplice che non induce alla riverenza.
In esso sembra che "non accada nulla di superfluo e che si svolga soltanto il riconoscimento dei singoli particolari e quindi il loro intrecciarsi in uno stato di cose"; sono queste le parole che Zumthor riporta a proposito del lavoro di Peter Handke, lo scrittore austriaco assertore delle cose naturali, genuine, come depositarie di bellezza. La fase di avvicinamento contrasta volutamente con la visione iniziale, vi è una sorta di dinamismo nascosto, le pareti cominciano a vibrare, ad ogni passo esse perdono un poco della loro compattezza. La visione ravvicinata permette di scorgere l'interno, attraverso le feritoie si intravede una nuova materia.

 

La luce riflette sulle doghe lignee che hanno mantenuto la colorazione naturale; questo accorgimento di finitura distingue nettamente l'interno. Vi è un conflitto di emozioni: esternamente l'edificio appare come involucro impenetrabile, internamente è come se si verificasse un'implosione. La luce, il vento che passa fra le doghe aumentano questa sensazione di smarrimento; dentro, fuori, interno, esterno, definire con certezza le particolarità di questo spazio è un'azione azzardata.

 

  
Parete di legno, aria e luce.
Attraverso le doghe si intravede
l'interno.



L'interno, invaso dalla luce, si
rivela come un mondo
sovrapposto. Accogliente, caldo
ed inaspettato

 

Colpisce come, per tutti i percorsi, si sia optato per un materiale in antitesi, la natura metallica dei passaggi è rilevabile anche esternamente. L'ingresso e i collegamenti fra i tre cubi lignei sono concepiti come eccezione materica, allo stesso modo i lucernai e le due vetrate che si affacciano sulla strada sono in armonia con lo stesso principio.

 

L'architettura di Peter Zumthor è un'esperienza semplice e al tempo stesso destabilizzante. Inizialmente, la sensazione che ci pervade, è di averne già vissuto gli spazi, di conoscerne struttura, corpo ed anima; improvviso ci assale lo stupore, la curiosità ci induce a scoprirne la vera essenza, la tensione, la sovrapposizione di mondi.
La copertura dei resti romani a Coira è una delle prime opere di Peter Zumthor. Le impressioni iniziali, semplici, assimilabili ad un'esperienza quotidiana, senza clamore e caratterizzate da un approccio senza stupore, si rivelano in seguito fondamentali. Avvicinarsi è scoprire la matericità dell'edificio, definirne le particolarità che restituiscono la visione d'insieme. L'edificio è molto più simile ad un allestimento, ha il sapore di un'architettura effimera, temporanea. Questo carattere d'instabilità lo rende affascinante. Le pareti perdono la loro fisicità, si smaterializzano.

 


I collegamenti fra i corpi si
contraddistinguono nella texture e
nella loro matericità.



I lucernari costituiscono
l'eccezione, pacatamente forzano
la struttura rigorosa del progetto.

Le assi in legno, assemblate in orizzontale, non si toccano ma lasciano che una lama d'aria le separi. Solo una visione ravvicinata permette una simile constatazione, la visione d'insieme tradisce l'accorgimento tecnico e questa pelle sembra riacquistare una propria compattezza. I tre corpi che costituiscono la copertura si distinguono nettamente, nelle loro linee sono rigorosi e perfetti.

 

La tensione prodotta è il frutto di questa sovrapposizione (generale - particolare) che coinvolge il fruitore ed innesca un processo di scoperta; come se il progetto avesse la volontà di svelare ogni elemento costitutivo, ogni più intimo segreto. La sincerità, la schiettezza dell'opera riconducono ad un mondo di ricordi e di atmosfere appartenenti al quotidiano. Progettare è, per Peter Zumthor, un percorso permeato di immagini, ricordi, atmosfere. Ed è attorno ad esse che il progetto si costruisce, sul ricordo di un'atmosfera vissuta, di un'immagine e del potere rievocativo insito nella sua stessa natura. La "povertà" dei materiali, il modo in cui essi sono assemblati, ricorda in modo inequivocabile gli edifici rurali della zona, frutto di una cultura materiale sapiente ed esperta. Mi piace ricordare la frase che conclude il libro "Pensare Architettura - Peter Zumthor": "....produrre delle immagini interiori è un processo naturale che tutti conosciamo. È parte integrante del pensare.

 

Pensare associativamente, selvaggiamente, liberamente, ordinatamente e sistematicamente per immagini, per mezzo di immagini architettoniche, spaziali, colorate e sensuali. Ecco la mia definizione prediletta del progettare." Attraverso questa definizione abbiamo la possibilità di appropriarci del processo di concepimento dell'opera.


L'ingresso è di per sé elemento
concluso, discreto. Dispositivo
architettonico fondamentale nel
passaggio di emozioni che si
verifica entrando.


Particolari come parole per la
costruzione di un dialogo.



Il rigore delle forme come antitesi
ad un'architettura che fa del
contrasto elemento poetico.

 

 

 

 

Enrico Scaramellini è nato nel 1969. Laureatosi al Politecnico di Milano nell'anno accademico 1996/97, nello stesso anno si iscrive all'Ordine degli Architetti della Provincia di Sondrio e apre il proprio studio professionale. Negli anni precedenti alla Laurea collabora con vari studi professionali. Vive e lavora a Madesimo (SO), piccolo luogo di villeggiatura immerso "nelle alte vette". Forse per questo motivo, crede che il "fare architettura" sia, senza eccezioni, legato alla consapevolezza che "costruire" è un atto di modificazione del paesaggio. Nel periodo 1994/95, collabora con la rivista "GB-Progetti - Osservatorio Internazionale". Rivolge il suo interesse a qualsiasi argomento che possa contaminare il suo operato di architetto; consapevole che le tecnologie "messe a disposizione" permettono di essere ovunque, anche se "le finestre del tuo studio incorniciano un paesaggio innevato". Ha partecipato ai seminari "Architettura - Infrastrutture - Paesaggio" promossi dal Politecnico di Milano e nel 1998 ha vinto una borsa di studio per il "Laboratorio itinerante di Architettura: Le aree dismesse a Sesto Calende ", l'esito di questo corso è stato recentemente pubblicato da Alinea con il titolo "Architettura nel segno dell'acqua". Come libero professionista partecipa a numerosi concorsi e si occupa di progettazione architettonica. Dall'anno accademico 1998/99 è Cultore della Materia presso il corso di Progettazione Architettonica al Politecnico di Milano. E' sua convinzione che la ricerca sia elemento necessario alla pratica professionale.

 

 

 

per qualsiasi comunicazione
scrivete redazione@architettura.it


laboratorio
informa
scaffale
servizi
in rete