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Sopralluoghi

       Interazioni urbane. ON/Bogotà

Marialuisa Palumbo



 
    El andar como práctica estética. Interacciones urbanes è il titolo di un ciclo di seminari tenuti lo scorso febbraio a Bogotà da Francesco Careri, Giorgio D'Ambrosio e Alberto Iacovoni, organizzati dal Grupo Construcción de lo Público del dipartimento di Architettura dell'Università di Los Andes. La città, e le forme della sua investigazione, in rapporto all'esperienza di Stalker/Osservatorio Nomade il tema di fondo dei seminari. Negli appunti che seguono provo a raccontare alcuni dei punti centrali del dibattito ma anche la nostra esperienza di Bogotà: una città cresciuta di ben venti volte negli ultimi cinquant'anni fino a circa 7 milioni di persone, di cui oltre la metà abitanti in zone informali o clandestine. [MLP]



 
    IN VOLO. 37000 piedi sull'oceano atlantico, 1000 km/h. Fuori -52°. Contemplo ipnoticamente, sul piccolo schermo di fronte a me, l'immagine dell'aeroplano che sorvola l'oceano alternata alle informazioni sul volo. Il tempo trascorso dalla partenza, l'altitudine, la velocità e il tiempo para il destino: ciò che resta per terminare il volo, ovvero, il tempo che ci separa da Bogotà, nel cuore della Colombia...

Trascorsi i dieci giorni di questa avventura, volando a ritroso verso Roma, provo a riordinare le idee ma mi accorgo subito che sarà difficile dare un senso ai miei appunti: il quaderno è pieno zeppo di pagine di note sulle cose viste, le persone incontrate, i cibi e la frutta provata, le storie e gli aneddoti raccolti su questa folle città che da un lato ci accoglie con i cani antibomba ad ispezionare la macchina all'ingresso del garage dell'hotel, e i militari costantemente alla porta a controllare le borse, e dall'altro ci inonda con il sorriso, il calore, l'allegria e la gentilezza instancabile dei nostri ospiti e di tutte le persone con cui via via veniamo in contatto. Proviamo a fare un po' di zapping.



IL CENTRO INTERNATIONAL. Osservando la città dalla grande parete vetrata del ventesimo piano del Centro International dove si trova l'hotel, una cosa ci è subito chiara: qui il grattacielo e la bidonville sono davvero vicini. Eppure, ci dicono, le due città non si confondono ed esistono dei margini, tracciati dalla scacchiera di strade ortogonali senza nome, che è bene non superare. Qui infatti il carcere e il terrain vague (il luogo del massimo e del minimo delle regole) sono forme letteralmente in lotta tra loro: si fronteggiano, si assediano giorno dopo giorno, in un corpo a corpo costante che oscilla tra forme estreme e militarizzate di controllo del territorio alla completa rinuncia al controllo di qualcosa come più della metà della città sorta in forma clandestina, attraverso atti di lottizzazione e compravendita interamente autogestiti da chi in qualche modo è in grado di esercitare forme autonome di controllo del territorio. Tra questi estremi, scopriremo, si collocano spazi interessanti di progettualità morbida: ovvero, porzioni di città cresciute secondo una strategia di sviluppo progressivo, dove il progetto ha posto le regole del gioco, un tracciato regolatore pensato però per essere sopraelevato nel tempo dagli stessi abitanti secondo le loro esigenze.


Bogotà. Vista dal Centro International.



L'UNIANDES. Subito dopo il nostro arrivo dal Centro International ci muoviamo alla scoperta dell'università di Los Andes, una delle più importanti università private del Sud America. Superato il posto di polizia che controlla l'accesso con complicate procedure di registrazione non solo delle persone ma anche e soprattutto di tutte le nostre protesi elettroniche non tascabili, cominciamo a salire per vialetti e scale immerse nel verde di una ripida collina.


Piazza/prato dell'Università di Los Andes.

All'interno di un campus ricco e curato, con diversi edifici appena costruiti ed altri appena rinnovati, collegati da antiche strade in pietra punteggiate da cipressi ultracentenari, con una grande piazza/prato verde centrale e per rettorato una ex fabbrica di cioccolato, scopriamo una facoltà di architettura vivacemente articolata in tanti frammenti differenti. La costruzione principale è un ex ospedale per monache uscite di senno, di impronta coloniale, in muratura bianca, finiture in legno dipinto di rosso e mattonelle colorate, rosse e gialle, con una articolazione informale di cortili, passaggi aperti e chiusi; intorno all'ospedale, la chiesa è diventata la biblioteca; una villa suburbana è stata trasformata in un elegante ristorante per i professori; di una fabbrica di cappelli in mattoni gialli non ricordo la nuova destinazione; il vagone di un vecchio treno completamente dipinto di blu è un ufficio del dipartimento di progettazione. Il tutto avvolto da una vegetazione rigogliosa che non esita, appena un passo più in là del costruito, a divenire foresta.

Proprio alle spalle dell'università infatti si innalzano le cime di Monserrate e di Guadalupe, vette (3300 metri) della Cordillera Oriental: una delle tre catene andine che attraversano quasi interamente la Colombia raggiungendo punte di 5000 metri e facendo di questo Paese uno dei territori più articolati del Sud America, con un paesaggio che varia dalle costa caraibica (a nord), alle Ande (più o meno nella fascia centrale), alla fitta foresta pluviale del bacino amazzonico (nella parte sud-orientale). Ci colpisce, rispetto al Cerro di Monserrate che incombe su di noi (proprio alle spalle dell'università), che la nostra guida sconsigli caldamente di raggiungere la cima a piedi tranne che la domenica con la folla dei pellegrini onde evitare di essere "certamente" rapinati. I nostri ospiti confermano: l'ascesa a piedi è off limits tranne che nel bagno di folla domenicale.


L'estrema difficoltà di accesso all'interno dell'area recintata dell'università (ogni giorno i controlli e la registrazione dei documenti ci impediscono di muoverci liberamente tra dentro e fuori) non è dunque che l'altra faccia del fuori-controllo che si estende appena qualche metro più in là.
[16jun2005]
   


LECCIONES DE CIUDAD. Punto di partenza sono i libri di Francesco e Alberto: Walkscapes. Il cammino come pratica estetica e Game Zone. Playgrounds tra scenari virtuali e realtà (1). Dal confronto teorico tra i temi del gioco e del cammino, come strumenti per costruire un'idea di architettura e di città, si prosegue giorno dopo giorno col racconto del percorso del laboratorio di arte urbana Stalker (di cui Francesco, Alberto e Giorgio sono parte): dal giro di Roma, a Campo Boario, sino a Corviale, la via Egnazia e l'evoluzione di Stalker in Osservatorio Nomade, nuova formazione estesa, rete sul territorio e tra territori (2).

Le questioni in gioco sono questioni di fondo: che cos'è e come nasce l'architettura? Come guardare e come fare la città? Come utilizzare il progetto per ridurre la distanza tra architettura e vita reale? Come costruire e che ruolo dare allo spazio pubblico? Domande che qui, in questa città in crescita esponenziale apparentemente al di fuori di ogni possibile piano e controllo, suonano particolarmente urgenti e significative. Anche perché se ovunque la questione della gestione del territorio è anche e immediatamente, oltre che questione architettonica, questione sociale e politica, qui, in un territorio conteso tra forze in guerra tra loro, la faccenda è particolarmente complessa. E in particolare, parlare di architettura come qualcosa che nasce dall'atto di attraversare lo spazio, e cioè dalla pratica nomade del mettersi in cammino e nel cammino dal segnare e nominare lo spazio, in una città dove interi quartieri sono sconosciuti ai più perché estremamente pericolosi, in un Paese dove fino a qualche anno fa spostarsi in macchina da Bogotà (la capitale) a Cartaghena (la principale città sulla costa) significava rischio di sequestro o di rapina, dove la ferrovia è stata abbandonata perché eccessivamente esposta alle azioni di sabotaggio o di attacco, dove intere regioni, come per esempio il nord del Paese (unico collegamento via terra tra Centro e Sud America), sono assolutamente impraticabili perchè territorio dei narcotrafficanti, in questa città, parlare del cammino come prima pratica di costruzione dello spazio ha un valore speciale.

 

Sur occidente.

  Perché significa mettere al centro della questione architettonica il problema politico del conflitto concreto per il controllo dello spazio. Come dire che se l'azione architettonica consiste in una apertura dello spazio nel corso di un attraversamento che è atto conoscitivo e organizzativo, in questo Paese occorre innanzitutto conquistare il diritto all'attraversamento. Camminare la città nelle sue zone proibite significa fare ciò che non si può fare, riprendersi temporaneamente il diritto di muoversi e, così facendo, aprire dei varchi nell'ordine costituito. Rispetto ad un approccio formalistico che guardi la città alla ricerca dei segni, e della loro evoluzione e permanenza, come oggetti d'analisi e strumenti di progetto, qui l'orizzonte è ribaltato: a partire dalla centralità dell'azione fisica nello spazio (il movimento) ciò che conta e che va indagato, mappato e articolato, sono le forme d'uso dello spazio, le modalità con cui viene vissuto, le relazioni che vi si intrecciano, le storie cui dà luogo: le forme di incontro tra dimensione pubblico collettiva e privato individuale.

 
    E in questo senso parlare di gioco, ovvero di un'attitudine ludica come strumento di progetto, vuol dire appunto ribadire la centralità dell'uomo e della sua libertà d'azione (di uso, configurazione e riconfigurazione dello spazio) come obiettivo primo del progetto. Ma vuol dire anche ribadire il ruolo liberatorio (o più esplicitamente sovversivo) del progetto nei confronti del reale che ci circonda come un dato immodificabile ma che, al contrario, non è che uno dei mondi possibili.

Attitudine nomade ed attitudine ludica dunque come pratiche differenti ma complementari: l'una mirata ad aprire lo spazio attraversandolo, l'altra a progettare lo spazio così da renderlo disponibile ad una continua apertura. E cioè al piacere di scoprirlo, di utilizzarlo e di viverlo facendolo proprio, iscrivendovi i propri percorsi, le proprie abitudini, la propria dimensione, che si tratti dello spazio di una sedia, di una casa o della città. Ricerca dunque di una progettualità aperta o di una informalità che non è né plastica né casuale ma, al contrario, precisamente finalizzata ad ampliare il raggio d'azione (le possibilità di movimento, di uso, di trasformazione) dell'utente, che dialoga sorprendentemente con le sperimentazioni sui quartieri a crescita progressiva che tanto ci colpiscono in questa città.



LA CRESCITA PROGRESSIVA. Tra le tante cose viste, infatti, una di quelle che ci affascina di più sono proprio i quartieri a crescita progressiva progettati e realizzati intorno agli anni '70. L'idea è semplice ed efficace e in certo modo utilizzata spesso in molti progetti di questi anni che mirano a creare soluzioni abitative flessibili, che possano parzialmente essere modificate nel tempo.


Bachuè. Quartiere progressivo.

Ma qui la cosa interessante è la scala di flessibilità proposta e realizzata. Infatti, ad essere flessibile qui non è una minima appendice dell'alloggio (come la possibilità di chiusura/apertura di una loggia) o la sua struttura interna, ma una vera e propria sopraelevazione di uno o più piani di cui il progetto definisce le linee guida ma la cui realizzazione effettiva è demandata nel tempo agli abitanti. Una strategia che non solo permette di accogliere e prevedere un processo di crescita nonché di espressione individuale all'interno di un sistema di regole comuni ma che, anche, sostanzialmente privilegia e salvaguarda il disegno del collettivo, cioè dello spazio pubblico, e della soglia tra pubblico e privato. Un aspetto questo non da poco di fronte all'incalzare di una città informale dove, come ci ricorda Renè Carrasco (professore di urbanistica ed autore del quartiere progressivo "El Trigal", che incontriamo visitando l'università pubblica, la National, un luogo molto molto diverso dall'UniAndes), la dimensione dello spazio pubblico (e cioè di strade, piazze, parchi, servizi) è praticamente inesistente.

 
   
Bachuè.

In questo senso la scelta dell'amministrazione di intervenire nei quartieri clandestini di Ciudad Bolivar e Kennedy (circa un milione ed un milione e mezzo di abitanti per uno), che visitiamo con Clemencia Escagion, attraverso la realizzazione di un primo sistema di strade, percorsi pedonali e ciclabili nonché quattro grandi biblioteche pubbliche fortemente rappresentative, ci sembra convincente.


Biblioteca El tunal.

Anche se ancora una goccia d'acqua in mezzo al mare. In università, discutendo con gli studenti che ci interrogano sulle nostre impressioni su Bogotà e sui loro progetti, proponiamo che un progetto urbano debba puntare a definire qualcosa che non possa essere raccontato in un'immagine, ma sia al contrario il disegno di un processo: di una strategia progressiva che anziché ridurre ampli le possibilità di trasformazione, suggerendo dunque non solo gradi di flessibilità all'interno di uno scenario unico, ma un sistema di scenari possibili ed aperti ad evolversi nel tempo.


Ciudad bolivar.


Ciudad bolivar.



EL COLEGIO DEL CUERPO. Nel seminario su l'esperienza di Stalker a Campo Boario intervengo per raccontare brevemente del mio lavoro, radicato nella danza e nel teatro, del rapporto spazio/corpo ovvero sull'esplorazione fisica dello spazio col corpo e, viceversa, sull'esplorazione del corpo (e dei corpi, cioè delle relazioni) attraverso lo spazio (usando cioè lo spazio come campo da gioco, come fanno i bambini con nascondino o moscacieca) e del laboratorio tenuto appunto nel '99 a Campo Boario. Sono, in verità, un po' a disagio, perché mi chiedo che senso abbia parlare della danza come strumento ulteriore per mettere in questione lo spazio e per lavorare sulle relazioni tra le persone, proprio in questa città dove milioni di persone vivono in condizioni estreme e dove la libertà stessa di camminare senza paura per la città è così lontana.

Alla fine del seminario Catalina (studente di architettura nonché nostra abile traduttrice) mi invita ad incontrare Alvaro Restrepo e il suo colegio del cuerpo, un gruppo di giovanissimi danzatori provenienti dalla scuola fondata sei anni fa da Alvaro a Cartaghena con una missione molto particolare: raccogliere ragazzi di strada ed educarli alla danza. Ovvero, educarli al rispetto del corpo, proprio e dell'altro: in un Paese dove per 50.000 pesos si può fare ammazzare un uomo (circa 15 euro), educarli al rispetto del corpo come qualcosa che ha un valore, qualcosa che va costruito e custodito, qualcosa di sacro. Oggi la compagnia vera e propria, un gruppo di una decina di ragazzi che appartenevano al primo gruppo di bambini entrati nella scuola, danza in tutto il mondo ed è un punto di riferimento fondamentale per decine e decine di bambini e ragazzi dei quartieri più poveri di Cartaghena: mostrando sulla propria pelle, con i propri gesti e racconti, che cambiare, anche ciò che sembra più difficile, è possibile.



DERIVE. Mentre giorno dopo giorno cominciamo ad orientarci nella griglia di strade ortogonali cui cominciamo ad associare un numero ed un significato (la Carrera Séptima che corre parallela alla montagna per l'intera lunghezza della città e che collega il Centro International a Plaza de Bolivar, la piazza principale qui come in tutta la Colombia dedicata a Simon Bolivar; la Carrera Decima che, parallela alla precedente, divide il centro in una parte superiore, ad est, "tranquilla" ed una "decisamente pericolosa", ad ovest; la Avenida Jiménez, la strada degli affari e della finanza, l'unica che, costruita sul letto di un fiume, col suo andamento sinuoso sfida la regolarità della griglia e la logica dei numeri...), con fatica molto maggiore cominciamo a farci un'idea della situazione politica di questo Paese. (3) Un Paese, invero, in cui la pratica della democrazia appare piuttosto lontana, a partire dalla evidente difficoltà di sostenere posizioni politiche difformi che si tratti della pluralità di stampa (esiste un solo quotidiano, filogovernativo, e tentativi di nascita di nuovi giornali sono stati soffocati nel sangue) o di azione politica vera e propria.

Uno degli eventi più significativi per capire il livello dello scontro, e della mistificazione dell'informazione, riguarda un singolare gruppo di guerriglieri, l'M-19. Un gruppo, come ci racconta Paolo (venuto qui anni fa dall'Italia con una borsa di studio post lauream e adesso professore di storia all'uniAndes), protagonista di una serie di azioni di stampo quasi situazionista quali l'annuncio via comunicati quasi pubblicitari sui giornali della formazione del gruppo prima della sua effettiva entrata in azione, la presa simbolica della spada di Bolivar dal museo in cui era conservata, la sottrazione di armi da uno dei più importanti centri militari attraverso un tunnel nella notte. Nel 1985, durante una importante serata di gala, i guerriglieri occupano il palazzo della corte suprema così da inscenare, in una nuova azione simbolica, un pubblico processo al presidente, con l'intera corte riunita. Con una controazione, evidentemente mirata a togliere di mezzo in un sol colpo tanto i guerriglieri quanto l'unico organo democratico rimasto, l'esercito fa irruzione nel palazzo e ammazza tutti i presenti: guerriglieri e magistrati ma anche cuochi, camerieri e qualsiasi possibile testimone. Il massacro viene ufficialmente attribuito ai guerriglieri.


Tatiana Urrea. Reccorido Notturno.

Orientarsi nei racconti di questi eventi ovviamente non è facile (e non mi è facile adesso scriverne sapendone così poco ma lo faccio soltanto per restituire l'idea che noi ci siamo fatti della cosa), ma una cosa è assolutamente certa: la violenza, di destra o di sinistra che sia, qui è un fatto reale e anche provare a far sentire la propria voce (fare un giornale) o camminare (al di là di un margine) può costare la vita. Per questo, quando il venerdì sera, alla fine del seminario in cui Alberto e Francesco hanno raccontato l'origine di Stalker dal contesto dell'occupazione dell'università nel '90, ci accingiamo a cominciare una deriva notturna per Bogotà, sfruttando la forza del gruppo e la conoscenza del territorio della nostra guida, Hernando Gomez, l'emozione è davvero grande. Perché camminare, in zone off limits, la notte, da queste parti è davvero una pratica radicale: una modalità dello sguardo che allargherà il nostro orizzonte e quello dei tanti, tra studenti, amici e docenti architetti e non, che pur vivendo a Bogotà non hanno mai percorso molti di questi luoghi. Uniche raccomandazioni: non allontanarsi dal gruppo e, per nessun motivo, mostrarsi armati.

Alle 9 ci riuniamo sulla piazza della chiesa di Los Agnas e prima di cominciare a camminare ci contiamo per sapere orientativamente quanti siamo: circa 200 persone! Poi, con continue pause per gli infiniti e incredibili racconti di Ernando, via per la Calle 19, Carrera 39, Calle 22, fino alla piazza del Museo de Arte Moderno. Attraversato il Parque de Indipendencia, proseguiamo per il Centro International e la Calle 26. Guardare il gruppo che si sposta è qualcosa di veramente emozionante: è un fiume di gente che invade le strade e le piazze, una massa critica che ci rende forti anche se la tensione è alta (e quasi la metà del gruppo abbandonerà la camminata prima di inoltrarsi nelle zone più pericolose). Costeggiato il Cemeterio Central e il suo deserto mercato dei fiori, passiamo attraverso la "zona de tolerancia" di Santafè, zona di bordelli e travestiti che salutano festosamente il nostro corteo. Da qui via per l'avenida Caracas per arrivare verso mezzanotte a piazza San Victorino dove un suonatore con la chitarra ci canta El Camino de la Vida. Saliamo poi per la Candelaria, il colorato quartiere coloniale centro storico della città. Proseguiamo per Plaza de la Concordia e poi ancora su, per stradine con un'incredibile pendenza, sino a Plaza de Egipto. Dopo una lunga sosta, ci prepariamo in una formazione serrata (con Ernando in testa e un suo amico a chiudere la coda) a salire ancora e ad entrare in una delle zone clandestine, interamente autocostruite, sulle colline a ridosso della Cordillera: il Barrio Santa Rosa, un quartiere sotto il controllo dei guerriglieri.

In un silenzio rotto soltanto dal latrare sempre più forte dei cani, ci muoviamo quasi in punta di piedi in quella che sembra una città fantasma, deserta, addormentata, apparentemente indifferente al nostro passaggio. Camminiamo lungo la strada carrabile che risale a curve larghe la pendenza. Poi ci inoltriamo su per una delle strette e ripide scalinate che si attestano numerose sulla strada conducendo alla fitta trama di case di cui non una è uguale all'altra. Quasi tutte costruite sfruttando una tecnica ad "ampliamento progressivo" ovvero allargando di qualche decina di centimetri la pianta di ciascun livello superiore. Ognuna, arricchita da un diverso elemento decorativo: finestre traforate secondo la tecnica in mattoni di Salmona (il più importante architetto di Bogotà), finestre d'angolo (una vera passione che unisce l'architettura spontanea e l'architettura aulica della città), cornici di colore intorno a porte e finestre oppure pareti colorate, piante, giardinetti, improbabili decorazione costruite per esempio con vasetti dello yogurt. Complessivamente, l'impressione è che qui, come nelle altre aree autocostruite, si ricostituiscano i meccanismi di complessità, differenza e ricchezza di alternative e di soluzioni individuali e articolate nel tempo, che caratterizzano la città storica. Imboccata la scalinata improvvisamente lo spazio si restringe e il gruppo, compresso come nel collo di un imbuto, si trasforma in una fila indiana che sfila rapidamente, ansimando, nell'oscurità appena rischiarata dalla luna. Stretti tra le case, strisciamo contro i muri. Dei guerriglieri, avvertiti da Ernando del nostro passaggio, non sembra esserci traccia. Forse, dall'altra parte del muro, dorme semplicemente un raccoglitore di cartone, uno dei milioni di riciclatori che ogni notte batte la città frugando nella sterminate tonnellate di spazzatura che ogni giorno la città produce.



Alle 3 del mattino siamo sull'estremo crinale erboso, non ancora occupato, della collina: da qui la vista è mozzafiato, una infinita trama di luci si estende davanti a noi, sotto una mezza luna che, con nostra grande sorpresa, non sta in piedi ma distesa...

Dopo quasi sei ore di cammino, cominciamo la discesa verso il centro. Prendiamo un taxi per tornare in albergo, ci fermiamo a comprare dei dolci e poi a fumare guardando l'alba dal nostro appartamento al ventesimo piano con le grandi vetrate che inquadrano, al di là dei grattacieli, le colline di Santa Rosa da cui poco prima osservavamo la luna. A casa, dall'altra parte del mondo, è quasi mezzogiorno.



IDEE. L'ultimo giorno Francesco propone di trasformare il seminario conclusivo in un momento di presentazione reciproca tra tutti i gruppi che giorno dopo giorno hanno preso contatti con noi raccontandoci delle loro ricerche e attività su Bogotà così da poter avviare un processo di conoscenza e collaborazione tra i gruppi. L'idea di base è che queste giornate non siano che una tappa di un processo avviato da tempo dal Grupo Construccìon de lo Publico guidato da Camilo Salazar e parallelamente da molti altri gruppi presenti agli incontri, e che il lavoro potrebbe procedere, con un possibile ritorno di Osservatorio Nomade, affrontando un'area ed un progetto concreto. La campagna per la proposta di idee è aperta...

Marialuisa Palumbo
malupa@libero.it



PS. Un ringraziamento speciale per Camilo, Tatiana, Diana, Pacio, Margherita, Raul, Catalina, Alessandra, Paolo e Alvaro e tutti quelli che ci hanno così calorosamente accolto a Bogotà!
 
    NOTE:

1. Francesco Careri, Walkscapes. El andar como pratica estética, Gustavo Gili, 2001; Alberto Iacovoni, Game Zone. Playgrounds between virtual scenaries and reality, Birkhauser, 2003.
2. Su Stalker e il Giro di Roma vedi http://www.stalkerlab.it, su Osservatorio Nomade e Immaginare Corviale http://www.osservatorionomade.net.
3. Dagli anni della liberazione dagli spagnoli (1819), di cui Bolivar è il mito indiscusso, la Colombia vive in uno stato di continua guerriglia interna. Alla fine degli anni '50 del nvecento, i due principali gruppi avversari, conservatori e liberali, timorosi della comparsa alla ribalta di nuove conformazioni politiche più radicali, si accordano per una gestione alternata del potere che esclude dalla scena qualsiasi opposizione politica. In breve tempo l'insoddisfazione e la tensione danno vita a gruppi d'opposizione di estrema sinistra, legati a Mosca e all'Avana, alle cui azioni di guerriglia cominciano ad opporsi non solo l'esercito regolare ma anche gruppi paramilitari di estrema destra, più o meno ufficiosamente collegati al governo e, soprattutto, ai vicini Stati Uniti i cui interessi sul controllo di Panama e del sud america in generale generano una politica di interferenza che spesso sembra aumentare il disordine più che facilitare la pace nell'area. La presenza e il peso dei narcotrafficanti è un ulteriore elemento sulla scena, di tale impatto che ad un certo momento nei primi anni '80 i boss messi alle strette da una campagna antidroga particolarmente dura del governo, arrivano a proporre un "cessate il fuoco" comprato pagando l'intero debito pubblico del paese: il governo respinge il compromesso con un conseguente periodo di esplosione estrema di violenza tra le parti. Violenza che è insieme esterna ed interna alla città: non solo infatti quasi la metà del territorio della Colombia non è sotto il controllo effettivo dello stato, ma all'interno della stessa città di Bogotà, oltre alle zone sud sorte clandestinamente, ma anche alcuni quartieri del centro città pare siano sotto il controllo di forze altre da quelle dello Stato.
 
   

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> ALVARO MORENO HOFFMANN

 

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