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Herzog
& De Meuron. Archaeology of the Mind Roberto Zancan (con Andrea Guardo e Alexis Sornin) |
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ARCH'IT
presenta, a cura di Roberto Zancan (da qualche mese ospite del CCA,
Centre Canadien d'Architecture di Montreal), una breve serie di riflessioni
sulle principali esposizioni di architettura che si sono tenute in nordamerica
nel corso dell'anno appena trascorso. Si tratta di un percorso articolato
e ricco di interessanti spunti di riflessione che parte da un'intervista
a Serge Belet, responsabile tecnico per le esposizioni del Centre Canadien
d'Architecture, in merito alla mostra Herzog & de Meuron: Archéologie
de l'imaginaire, in arrivo a Basilea e Rotterdam dopo l'inaugurazione
presso il CCA; prosegue con una recensione, pubblicata originariamente
sull'autorevole "Artforum International" a firma del critico d'arte
Scott Rothkopf, della mostra
Scanning: the aberrant architecture of Diller + Scofidio, allestita
al Whitney Museum di New York e già presentata sulle pagine di ARCH'IT
con un'introduzione di Aaron
Betsky e un commento di Alicia Imperiale;
e si conclude con una vivace intervista a Mirko
Zardini, curatore di Out of the box, illustrata da un ricco
reportage fotografico della mostra che ha offerto al pubblico un'ampia
selezione degli archivi di Gordon Matta Clark, Aldo Rossi, Cedric Price
e James Stirling, recentemente acquisiti dal CCA. [PG] |
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UN
ULTIMO SGUARDO... PRIMA CHE LA FESTA RI-COMINCI. La mostra Herzog
& de Meuron: Archéologie de l'imaginaire al Centre Canadien d'Architecture
di Montréal si è conclusa da tempo. Documentata da un'imponente mole
di recensioni, essa si è proposta come uno degli "eventi" della scorsa
stagione. Prima che la mostra sbarchi in Europa -nella patria natale
dei due architetti, a Basilea, e quindi a Rotterdam- vogliamo aggiungere
un ulteriore documento utile a ricostruirne il profilo e a preparare
i nuovi visitatori. Presentiamo qui dunque la discussione con un protagonista
discreto: Serge Belet. Capace di aggiungere un punto di vista molto
particolare alle numerose ricostruzioni finora apparse, egli è colui
che ne ha seguito la realizzazione materiale in qualità di responsabile
tecnico interno alle esposizioni del Centre Canadien d'Architecture. Con questa intervista presentiamo una breve serie di riflessioni sulle grandi esposizioni di architettura svoltesi in nordamerica nel corso dell'ultimo anno. Accostando esperienze e giudizi, vogliamo raccontare come vengano concretamente concepiti e realizzati i grandi avvenimenti, come siano accolti in ambienti esterni a quelli del mondo dell'architettura e come si stiano riconfigurando alla luce delle critiche prospettive future. L'obiettivo è mettere in evidenza alcuni meccanismi capaci di rivelare cosa stia accadendo in questa fase di passaggio tra la riaffermazione della figura del "maestro" e il problema sempre più strutturale della crisi finanziaria delle grandi istituzioni culturali. Due aspetti solo apparentemente disgiunti, se si avanza l'ipotesi che, nell'attuale sistema di produzione della cultura, lo specifico ruolo assegnato all'architettura sembra essere diventato sempre più quello di aggiungere altre stelle al firmamento dei grandi artisti, senza voler disegnare alcuna nuova costellazione di senso. Un ruolo che paiono accettare anche le più prestigiose istituzioni, indebolite nella loro possibilità di poter costruire impegnativi progetti di ricerca trasversali, dalle attuali contingenze economiche e gestionali. Rispetto a questo quadro l'intervista con Serge Belet qui presentata risponde al desiderio di illustrare cosa voglia dire costruire una mostra dal punto di vista di un'istituzione. Ad essa sono legate una traduzione della recensione della mostra Scanning: the aberrant architecture of Diller + Scofidio, al Whitney Museum di New York, apparsa sull’autorevole Artforum international. Scritta da un giovane critico d'arte, Scott Rothkopf, essa ci pare particolarmente efficace ad illustrare il modo in cui viene recepita, nel modo dei critici d'arte, la recente deriva artistica del lavoro di molti celebrati architetti. La verifica si concluderà con un'intervista al curatore di Out of the box, Mirko Zardini, e un reportage fotografico di questa mostra, che, appena apertasi, presenta, sempre al Centre Canadien d'Architecture, un'ampia selezione degli archivi di Gordon Matta Clark, di Aldo Rossi, di Cedric Price, e di James Stirling, recentemente acquisiti da questa istituzione. Ecco dunque le piacevoli risposte che Serge Belet ci ha dato, con un amabile accento parigino, seduto sui divanetti del prestigioso Bombai Palace, a metà di una delle prime giornate di ottobre, in Rue St. Catherine a Montréal. ROBERTO ZANCAN: Credo sia opportuno iniziare con una presentazione di te stesso, delle tue mansioni di responsabile interno alla realizzazione delle esposizioni del Centre Canadien d'Architecture. In altre parole qual è l'identità di Serge Belet e"cosa fa" per l'istituto in cui lavora? |
[08jan2004] | |||
SERGE
BELET: La mia qualifica ufficiale è "capo delle esposizioni". Dirigo
il dipartimento che gestisce i progetti delle mostre, dalla concezione
alla realizzazione. Significa collaborare con i commissari, con i ricercatori,
con gli storici, con gli architetti chiamati ad allestire gli spazi.
In particolare mi occupo della produzione materiale di ogni esposizione
realizzata al Centre Canadien d'Architecture: dal momento in cui questa
viene pensata fino a quando si fissano le opere al muro. Tutte cose
che faccio con l'aiuto di un'equipe, che segue la realizzazione dei
progetti e si preoccupa della logistica quotidiana. |
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View of the installation Gallery 3. With the works of: Andy Warhol Self-portrait (camouflage). The Andy Warhol Museum Pittsburgh Founding Collection, Contribution of the Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc. © Andy Warhol Foundation/ARS (New York)/SODRAC (Montréal) 2002; Richard Artschwager Blps. Collection of the artist. © Richard Artschwager/ARS (New York)/SODRAC (Montréal) 2002; Donald Judd Untitled National Gallery of Canada, Ottawa. © Donald Judd Foundation/VAGA (New York)/SODART (Montréal) 2002. © Canadian Centre for Architecture, Montréal/photo Michel Legendre. |
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Qual è stata l'elaborazione del concetto dell'esposizione di Herzog
& de Meuron e quali sono state le modalità della messa in opera dell'esposizione,
in particolare per ciò che ha riguardato l'allestimento degli spazi?
Abbiamo visto l'esposizione pubblicata in così tante riviste che ci
piacerebbe sapere qualcosa che non ha trovato posto nei resoconti celebrativi
o nelle letture critiche... |
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Nacht Blossfeldt, 1994. Thomas Ruff, photographer (Germany, 1958). Chromogenic colour print. Courtesy Peter Blum, New York © Thomas Ruff. |
È
chiaro che si è trattato di una esposizione nata da un dialogo molto
forte tra il commissario e gli architetti, Herzog & de Meuron, i quali
non sono stati soltanto l'oggetto della mostra, ma hanno avuto anche
l'incarico di progettarne l'allestimento. L'idea della mostra è scaturita
dalle discussioni tra Phyllis Lambert, Philippe Ursprung, Kurt W. Forster
e Nicholas Olsberg, e ha preso forma concreta nell'intenso dialogo che
è poi seguito tra Foster, Ursprung e Herzog. Philippe era arrivato con un'ipotesi iniziale: l'idea di un archeologo del futuro che, nel corso dei suoi scavi, troverebbe dei resti, o meglio -come li chiama Herzog- degli scarti, appartenuti allo studio Herzog & de Meuron. Per ricomporre tali frammenti, egli ha proposto una metafora che si affidava all'immaginario del XIX secolo, quella del museo di storia naturale. Una immagine appartenente al "XIX secolo", perché è in quel momento, o forse anche un po' prima, che questi musei si sono sviluppati. Concettualmente tale immagine gli permetteva di fare delle associazioni libere, poiché l'archeologo trova le cose un po' a caso. Inizialmente gli oggetti che rinviene, le opere d'arte, i manufatti, non sono infatti veramente analizzati, non sono ancora classificati, sono solo messi assieme: la loro posizione non è affatto decisa e definita. Questa immagine, ripeto, permetteva a Ursprung molta libertà nei legami che voleva suggerire tra i progetti di Herzog & de Meuron e gli oggetti che voleva aggiungere alla mostra. A partire da queste ipotesi è seguita una lunga discussione tra Jacques Herzog, un architetto rivolto prevalentemente verso il presente e il futuro, verso l'arte contemporanea e l'arte concettuale, e Philippe Ursprung, che possiede invece lo sguardo di uno specialista dell'arte contemporanea, ma che voleva sviluppare nell'allestimento un punto di vista che potesse richiamarsi più al XIX che al XXI secolo. E infatti è stata estremamente brillante la maniera in cui l'equipe di Herzog, e più precisamente l'architetto incaricato di seguire il progetto, Esther Zumsteg, ha interpretato e risolto questo tema. Si può vedere questa mostra da diversi punti di vista. Spazialmente Herzog ha tradotto l'idea delle vetrine del museo di storia naturale in un modo molto contemporaneo utilizzando dei mobili che possono anche essere spostati. Si tratta di alcuni parallelepipedi molto semplici, sui quali sono posti gli oggetti. In essi compare una sorta di allegoria della vetrina: un grande foglio di plexiglas trasparente -il materiale si chiama Lexan- che, grazie alla sua flessibilità, assume una propria forma piegandosi al disopra dello zoccolo di legno delle vetrine. |
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Puoi
spiegare meglio qual è il "modo di lavorare" di Herzog e de Meuron,
la forma che assume il loro impegno personale nel processo di allestimento
di una mostra? Ad esempio, hanno prima disegnato la teca, o hanno prima
scelto un materiale e quindi ne hanno seguito la piega della forma?
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La
questione della protezione degli oggetti era un vincolo museografico.
Avevamo, non so, forse mille oggetti: c'erano seicento plastici dello
studio Herzog & de Meuron -la maggior parte dei quali potevano stare
nella tasca di un visitatore-, poi c'erano degli oggetti provenienti
dalla loro collezione personale, e infine gli oggetti della collezione
del Centre Canadien d'Architecture e del Carnagie Museum di Pittsburg,
che era uno dei partner della mostra... Bisognava dunque pensare ad
una protezione. Essi non hanno però cercato di imporre un savoir
faire già sviluppato altrove. Avevano dei vincoli e hanno cercato
con noi dei prodotti che fossero già sul mercato per risolverli. Infatti
gli abbiamo spedito per FedEx dei grandi fogli di Lexan ed hanno fatto
delle prove per arrivare alla forma finale. Hanno chiamato questa forma
"a wrap"! Sai c'era l'idea di sushi box, di bento-box... Anche i materiali erano ridotti al minimo. Quello che si percepiva nelle gallerie era solo la linea di base dello zoccolo in legno, sul quale erano posti gli oggetti, i plastici, le foto, i fossili, le rocce cinesi, la polvere e i dipinti di Yves Klein, le foto di Joseph Beuys, e una scultura di Beuys stesso... e sopra, ondulata, questa copertura di Lexan, con questa specie di curva che tale materiale assumeva, e che, cosa molto interessante, ritrovavi in certi progetti di Herzog. Peraltro la maniera stessa in cui hanno affrontato il design di questo intervento era quello di un qualsiasi altro progetto di architettura. Questa esposizione aveva, non so, il numero 1083 nella loro lista di incarichi. Prima c'era il negozio Prada di Tokyo, che non so quale numero fosse, e poi c'era L'archeologia dell'immaginario che era appunto il progetto 1083. Hanno disegnato questo intervento con la stessa attenzione che avrebbero avuto per un progetto ad un'altra scala. |
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View of the installation Gallery 7. With the works of: Thomas Ruff Bibliothek Eberswalde (Eberswalde Library) CCA Collection. Gift of Elise Jaffe and Jeffrey Brown. © Thomas Ruff/VG Bild -Kunst (Bonn)/SODRAC (Montréal) 2002; Andy Warhol Heinz Tomato Ketchup Box. Carnegie Museum of Art, Pittsburgh. Gift of Mrs. Henry J. Heinz II, 1988. © Canadian Centre for Architecture, Montréal /photo Michel Legendre. |
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Un
simile dispositivo intendeva suggerire il tono informale della mostra,
ma vi era anche un altro elemento dell'allestimento che esplicitava
questa intenzione, questo muro di feltro, di cui alcuni campioni, mi
ricordo hanno decorato per tanto tempo il tuo ufficio. |
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All'epoca
non avevo alcuna idea di cosa servisse il feltro. Pensavo fosse usato
solo per fare dei cappelli... Dunque, quando hanno detto che volevano
utilizzare del feltro, non sapevo bene cosa intendessero fare. Sapevo
che alcune opere di Joseph Beuys erano state realizzate con del feltro
e che nell'esposizione se ne presentava una. Si trattava di uno dei
costumi che Beuys aveva concepito per il carnevale di Basilea, al quale
Jacques Herzog e Pierre de Meuron lo avevano invitato a partecipare.
Credo perciò che il muro di feltro avesse molteplici ruoli: penso che
fosse un omaggio a Beuys, che è un eroe per questi architetti, ma credo
fosse presente anche la fascinazione che i due hanno per i materiali
bruti. Infine la necessità di sviluppare il loro linguaggio in tutti
gli spazi del Centre Canadien d'Architecture, non soltanto nelle gallerie
d'esposizione, ma anche nel corridoio che serve le sale espositive e
nella Maison Shaughnessy. È per mezzo di questo corridoio che ha accesso
il pubblico, e loro hanno cercato di trasformarlo totalmente, di abitarlo
totalmente, da cui questa idea di srotolare su tutta la sua lunghezza
un feltro di sette centimetri di spessore, per una altezza di un metro
e ottanta. C'è stato tutto un lavoro di ricerca su quale tipo di feltro utilizzare, quale densità, quale spessore, in modo che cadesse perfettamente lungo questa struttura che avevamo costruito per sostenerlo. Non bisognava che fosse un rivestimento, bisognava che avesse una materia, un corpo, che fosse un elemento reale, non della decorazione! Realizzato, trasformava lo spazio in modo concreto. I nostri corridoi, che hanno un pavimento in granito nero, un soffitto basso e delle vetrine di vetro, e perciò hanno la tendenza a risuonare acusticamente in quanto i materiali di cui sono fatti sono molto freddi, molto duri; tutto d'un colpo... con questa disposizione del feltro, hanno cambiato acustica! Il suono si è completamente trasformato, è diventato morbido. Dal feltro usciva inoltre anche del suono perché hanno presentato anche la colonna sonora di Dominus Winery. Si tratta degli stridii di alcuni uccelli il cui tono impedisce ai serpenti di annidarsi tra le rocce del rivestimento e agli uccelli di altre specie di fare i nidi nelle vigne circostanti. Il feltro era la parete nella quale hanno integrato anche gli schermi video nei quali passavano i filmati di alcuni dei loro progetti. Tra questi compariva anche un intervento d'artista di Jacques Herzog, realizzato mente si trovava alla Scuola di Belle Arti, e poi delle interviste, degli estratti di film... |
View of the installation Gallery 7. With the works of: Thomas Ruff Bibliothek Eberswalde (Eberswalde Library). CCA Collection, Gift from Elise Jaffe and Jeffrey Brown. © Thomas Ruff/VG Bild -Kunst (Bonn)/SODRAC (Montréal) 2002; Thomas Ruff Nacht, Blossfeldt (Night, Blossfeldt). Collection Peter Blum. © Thomas Ruff/VG Bild -Kunst (Bonn)/SODRAC (Montréal) 2002. © Canadian Centre for Architecture, Montréal/photo Michel Legendre. |
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Era
dunque qualcosa che accoglieva il visitatore in modo molto ospitale,
smorzando la solennità dell'edificio del Centre Canadien d'Architecture
con la sua scalinata di ingresso... |
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View of the installation Gallery 5. With the work of Thomas Ruff Ricola Laufen. Collection of the artist. © Thomas Ruff/VG Bild -Kunst (Bonn)/SODRAC (Montréal) 2002. © Canadian Centre for Architecture, Montréal/photo Michel Legendre. |
Sì,
era estremamente sensuale, non potevi frenarti dal toccarlo. Era "confortevole",
tanto quanto lo è il feltro grigio... Ti ci potevi poggiare, anche se
ovviamente non incoraggiavamo troppo i visitatori a farlo. Allo stesso
modo, anche il plexiglas era piacevole... Eravamo curiosi di sapere se le vetrine di Lexan avrebbero protetto veramente le opere. In effetti ciò che si voleva era fornire un segnale al visitatore, dire "quello che è sotto queste vetrine è fragile e prezioso, non toccatelo". Ma per gli oggetti veramente molto fragili e molto preziosi alla fine abbiamo costruito delle altre teche in plexiglas. Ciò ha permesso di differenziare gli oggetti delle collezioni, i quali erano appunto disposti dentro queste nuove scatole, dagli oggetti di Herzog, che erano totalmente liberi. Quello che voglio sottolineare a proposito del Lexan è che aveva una apparenza di fragilità e che le persone non osavano troppo avvicinarsi perché se lo toccavano un po' si metteva a vibrare. Era geniale! Non lo si aveva veramente previsto, ma quando è stato montato faceva questa specie di oscillazione... Svolgeva il suo compito meravigliosamente, senza dover scrivere dappertutto "non avvicinarsi, non appoggiarsi, non toccare". Aveva le sue trasparenze e un aspetto poco resistente, ma di fatto era assai solido. È un materiale che quando è molto spesso è utilizzato per fare le vetrine antiproiettile delle banche. Nel nostro caso lo spessore era soltanto di qualche millimetro, ma risultava comunque infrangibile. |
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View of the installation, Gallery 5. Photo Michel Legendre (CCA Photographic Services, 21 October 2002). © Canadian Centre for Architecture / Centre Canadien d'Architecture. |
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Per
ritornare allo spazio d'accesso, l'ambiente creato dal feltro era completato
da due grandi divani sui quali ci si poteva sedere, osservare i video,
leggere i cataloghi... |
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Sì!
Erano dei prototipi magnifici che Herzog & de Meuron stavano sviluppando
per il negozio Prada a Tokyo. Erano interessanti perché erano molto
bassi, pressappoco la stessa altezza degli zoccoli delle vetrine nelle
gallerie, ma erano molto larghi e molto confortevoli. Erano fatti di
una base in resina con una specie di grande cuscino in schiuma, un agglomerato
di piccoli pezzi di schiuma multicolore come quella utilizzata per i
sedili delle auto, ma incollati assieme. Questo era un progetto che
stavano sviluppando -penso che l'abbiano terminato visto che il negozio
Prada a Tokyo è stato inaugurato ed ora è lì- e lo hanno presentato
in esclusiva per l'esposizione. Erano delle grandi panche sulle quali
il visitatore poteva sedersi, leggere i testi introduttivi, guardare
i video con le interviste di Jacques Herzog e di Pierre de Meuron. Trasformava
queste gallerie in un ambiente molto accogliente perché c'era questa
parete interamente coperta di feltro che ti portava verso le sale dell'esposizione
e poi questo luogo in cui potevi sostare, sfogliare i cataloghi, discutere.
Le persone stavano lì, e quello che era veramente straordinario era
vedere la gente sorridere. Tu entravi nell'esposizione e vedevi tutta
questa gente seduta mentre guardava delle cose, e... rideva! |
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La
prima volta che ho visitato la mostra ero con delle persone che non
sono architetti, e che si sono divertiti molto a vedere questi oggetti
eterogenei, come dei giochi per bambini... |
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Penso
che questa attitudine fosse nelle intenzioni dei commissari e dei designer.
Si voleva che il visitatore avesse l'impressione di guardare da dietro
le spalle dell'architetto mentre questo lavora. Quando sono andato,
prima dell'apertura della mostra, in settembre, a Basilea nello studio
di Herzog & de Meuron, ho trovato lo stesso ambiente che ho riconosciuto
poi nelle gallerie... Il loro studio è una serie di padiglioni lungo il Reno, con delle stanze per i plastici, altre per i prototipi, altre ancora per i computers... Dappertutto ci sono tavoli con i campioni, mentre i plastici a grandezza naturale trovano posto nelle corti e nei giardini interni. Di fatto tutto è abbastanza mischiato, e questa è l'impressione che ho provato poi provato alla mostra. Si arrivava e non si trovava un allestimento del XIX secolo, nulla di assolutamente passatista, ma qualcosa che appariva pienamente nel presente: l'architettura nel suo farsi. E l'architettura nel suo farsi secondo la pratica di Herzog & de Meuron sono pezzi di carta piegati, incollati assieme, sono pezzi di schiuma dipinti, sono i pezzi di vetro che collezionano. È anche il loro rapporto con le opere d'arte che erano appese ai muri (c'erano dei Ritter, dei Warhol, dei Judd, un Giacometti). Ciò che si vedeva era un po' il loro universo. Effettivamente, sin dall'inizio, la mostra non è stata concepita per avere un approccio sacralizzante. Perfino la maniera in cui sono state redatte le etichette, e la loro gerarchia, ha seguito questo approccio. Alcune erano veramente delle informazioni sul progetto, altre, scritte da Philippe Ursprung, le quali raccontavano invece le ragioni per le quali altri oggetti stavano in mostra, restituivano il suo dialogo con Jacques Herzog. Non bisogna ovviamente dimenticare il lavoro di Pierre-Edouard Latouche, che è conservatore al dipartimento Disegni e Stampe, che era commissario interno delle collezioni del Centre Canadien d'Architecture per l'esposizione -e che ha lavorato con Louise Désy per la collezione fotografica. È lui che ha aiutato a trovare sia tutti gli oggetti che facevano parte delle collezioni del Centre Canadien d'Architecture, sia quelli appartenenti alle collezioni del Carnegie o di altri musei, al fine di creare questa giustapposizione di elementi che seguiva le direzione data da Philippe. Vi erano dei dagherrotipi, dei fossili, delle pietre litografiche, del filo da pesca giapponese arenato sulle spiagge dell'Alaska che abbiamo comprato su e-bay per sette dollari, e che era posto a fianco di una specie di pietra molto antica, preistorica, che veniva da un museo. Forse il tutto appariva irriverente, nel senso che si mostrava un reliquiario del XIII secolo a fianco di un plastico di gesso, ma non c'erano delle gerarchie, gli oggetti erano percepiti insieme senza una subordinazione né di valore, né storica. Era veramente una libera associazione di idee tra il pensiero degli architetti e quello del commissario. |
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Panel from the Library of the Eberswalde Technical School (Eberswalde, Germany, 1994–99). Herzog & de Meuron, architects (2001). Chromogenic colour print. Photo Alain Laforest (CCA Photographic Services, 16 March 2001). © Canadian Centre for Architecture/Canadian Centre for Architecture, Montréal, photo Alain Laforest. |
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A
fronte di una disposizione così frammentaria degli oggetti e un'attitudine
così favorevole al visitatore è interessante capire in cosa sia consistito
il progetto dell'allestimento. Di quali materiali era fatto concretamente?
Si trattava di un album di disegni? Oppure era un catalogo di materiali
di arredamento? O ancora, un abaco di istruzioni che regolava la dimensione
e la posizione di ogni elemento? |
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Questo
rappresenta l'aspetto affascinante del fatto di lavorare con architetti
diversi alla preparazione dei progetti espositivi. I documenti che lo
studio Herzog & de Meuron ha prodotto per l'esposizione sono stati assolutamente
magnifici, di una chiarezza straordinaria. C'è stata una grande continuità tra ideazione e processo di design. All'inizio, come in qualsiasi progetto di architettura, c'è stata una fase di studio, nel corso della quale sono emerse delle idee, degli schizzi; e poi questi sono stati sviluppati e discussi fino al livello esecutivo. In uno delle primi incontri, Ester dello studio Herzog & de Meuron è arrivata con un grande quaderno 11 per 17 pollici, pressappoco un A3. Era un po' il sommario delle sue numerosissime visite al Centre Canadien d'Architecture, nel corso delle due occasioni in cui era venuta a Montréal. Visite durante le quali aveva filmato interamente l'edificio: tutti gli uffici, le gallerie, ecc. Aveva visto anche le fotografie degli oggetti. Tutto ciò era documentato nell'album, e c'erano anche dei riferimenti a delle immagini di musei di scienze naturali, oltre a riferimenti ad artisti, e cose del genere. Con il quaderno ci ha portato anche una presentazione in Power Point. È stata la prima volta che ho visto una bella presentazione al Power Point! Sai in generale col Power Point la gente subisce un po' la dittatura di Microsoft, e il design domina un po' il pensiero. Ed è da lì che vedi la qualità di questo studio, la loro maniera di comunicare è controllata fino in fondo. Dunque la presentazione in Power Point era molto bella, i titoli erano belli, la grafica era bella, le immagini erano ben collegate tra loro, hanno fatto dei plastici di studio nel loro ufficio, li hanno fotografati... Dunque potevi avere già un'impressione di come sarebbero stati. Questa era la fase degli schizzi, il momento nel quale si è studiato come mettere gli oggetti sul tavolo. Noi al Centre Canadien d'Architecture abbiamo fatto letteralmente le foto di ogni oggetto, le abbiamo inviate a loro, e loro per molti di questi oggetti le hanno stampate a grandezza naturale. Infatti quando sono andato a lavorare per quattro giorni con loro, su un tavolo nel atelier c'erano le foto degli oggetti e loro le sistemavamo e risistemavano continuamente. Poi prendevano delle foto, le guardavano, e discutevano per decidere come collocare gli oggetti. Hanno anche fatto una pianta magnifica di tutte le gallerie, con sopra le icone delle immagini di tutti gli oggetti in Photoshop o Illustrator, non so, ma molto piccole. Prima di questa avevano ne avevano preparata un'altra con incolonnate tutte le foto degli oggetti per ogni galleria, utile a cominciare a stabilire le sequenze. Questi disegni erano magnifici, non soltanto l'informazione era eccellente, ma già questa, se vuoi, era un'opera di Herzog & de Meuron, anche se forse loro rigetterebbero questa idea, perché per loro ancora una volta tutto questo sono delle revisioni, degli scarti. Ma è chiaro che la maniera con la quale comunicano le loro idee crea già una tensione, e permette a tutti i partecipanti e a noi del museo di comprendere che cosa vogliono realizzare e cosa domandano. Successivamente i disegni di fabbricazione sono stati assolutamente geniali. Per esempio, per il Lexan c'era il disegno di come questo andasse fissato sul legno e le foto di ogni tappa della preparazione, poiché ne avevano fatto un prototipo a grandezza naturale a Basilea ed avevano stabilito che andasse fissato in questa maniera, girato in quest'altra, e fissato nella scanalatura. Abbiamo lavorato assieme sui materiali disponibili. Hanno integrato le dimensioni del mercato americano, che non sono le stesse di quello europeo, al loro design. Hanno preparato dei disegni esecutivi, eseguiti come dei disegni architettonici, che io ho progressivamente consegnato ai fabbricanti. Ho dovuto fare dei prototipi, e ciò vuol dire che abbiamo lavorato su diversi tipi di impiallacciatura, di rivestimento, e ho dovuto inviarli a loro. C'è quindi stato un traffico molto intenso tra Montréal e Basilea, sia per i materiali che per l'approvazione, ma sono stati molto disponibili. Jacques Herzog non cerca di produrre quello che può fare in Svizzera, altrimenti tutto sarebbe stato fatto in Svizzera, con le loro conoscenze, e sarebbe stato spedito qui. Non era questo il suo caso... Non solo non è economico, ma non è nemmeno intellettualmente interessante. Il suo modo di fare le cose è molto aperto e consiste nel guardare a ciò che è disponibile laddove si trova, e fare con esso. Il feltro, per esempio... Forse sarebbe stato meglio se fosse stato più alto, ma l'altezza massima era di un metro e ottanta centimetri e loro hanno detto "Ok, prendiamo questo!" E funzionava molto bene. Molte decisioni, che forse con altri architetti sarebbero state più complicate, con loro si risolvevano con un: "Ok, è questo che esiste? È con questo che faremo!". |
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View of the installation Gallery 4. With the work of Gerhard Richter 612 -1Untitled. Carnegie Museum of Art, Pittsburgh. AW Mellon Acquisition Endowmwnt Fund. © Gerhard Richter. © Canadian Centre for Architecture, Montréal /photo Michel Legendre. |
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Quanto
tempo ha preso la realizzazione della mostra? |
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Direi
che è un'esposizione che si è fatta in diverse tappe, e che il design
è stato preparato in circa un anno; ma la concezione, la ricerca intellettuale
è durata molti anni. È stato prodotto anche un catalogo, curato da Philippe
Ursprung, nel quale vi erano più autori. Questo ha preso un po' di anni. |
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Quale
è stato il costo dell'esposizione e come si è distribuito nei differenti
aspetti della mostra? Cioè come è stato investito il capitale a disposizione? |
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Per
esempio per i mobili ci sono stati dei prezzi totalmente differenti.
Sono stati molto ragionevoli perché alla fine si è optato per una soluzione
la meno cara possibile, ma che dava un risultato eccellente perché si
è lavorato con ottimi falegnami. I mobili erano fatti con dei pannelli
di conglomerato -credo fossero i meno cari che potessimo trovare sul
mercato- controplaccati con un materiale di base, che non aveva neppure
la vernice, molto economico. Il plexiglas aveva il prezzo dei fogli
di plexiglas che è ovunque lo stesso, il feltro aveva il costo del feltro
industriale... Dove hanno investito più soldi? Il trasporto è stato molto oneroso, relativamente se vuoi, ma è legato al numero degli oggetti. C'erano numerose opere d'arte che venivano dai musei, accompagnate dal loro responsabile che doveva restare lì fintanto che non venivano installate. Questo è stato un costo che ha inciso. I seicento plastici che si doveva fare venire da Basilea. Che sono venuti tutti insieme, ma Ester, è arrivata anche lei con dei plastici portati a braccio, e anch'io quando sono partito da Basilea per tornare a Montréal, sono partito con una scatola gigantesca in braccio, nella quale c'erano dei disegni che erano il risultato dei nostri collage e del lavoro sul posizionamento degli oggetti sui tavoli. Sono arrivato anche con il prototipo di una lampada, la Pipe-light. Era questa lampada che si trovava nella galleria di introduzione sopra le panche di Tokyo. È questa specie di lampada organica che avevano adottato per l'esposizione poiché già esistente. Penso che adesso sia in produzione, ma all'epoca era in esclusività per l'America del Nord e per la mostra. Erano montate con un braccio di 3 metri di lunghezza allorché nel loro design originale sono lunghe solo un metro e mezzo. |
Ricola Warehouse (Baselstrasse, Laufen, Switzerland, 1986-87). Herzog & de Meuron, architects (1994). Chromogenic colour print. © Margherita Spiluttini. |
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Stai
soffermandoti sulla comunicazione e la produzione di materiali di lavoro...
Dunque è stata la produzione delle immagini a costituire un costo importante? |
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La
stampa di tutti questi documenti ha dei costi obbligatori. |
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Institute for Hospital Pharmaceuticals (Rossetti Grounds, Basel, Switzerland, 1995-98). Herzog & de Meuron, architects (1999). Chromogenic colour print. © Margherita Spiluttini. |
Usine-entrepôt de Ricola-Europe SA (Mulhouse-Brunstatt, France, 1992-1993). Herzog & de Meuron, architects (1994). Épreuve par procédé chromogène. © Margherita Spiluttini. |
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Dunque
non è un allestimento che sia costato più di altre esposizioni, una
volta che si era deciso di fare questo tipo di mostra... |
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Il
costo è legato anche alla durata della preparazione. Quanto tempo c'è
voluto per preparare l'esposizione, quanti viaggi di andata e ritorno
tra Basilea e Montréal sono stati fatti, quanti viaggi ha fatto il commissario
tra Zurigo e Basilea -dove lui vive e insegna- e quanti viaggi ha fatto
al Carnegie per visionare e recuperare gli oggetti. Ma è un costo che
incide in qualunque esposizione che ricorra a molti oggetti che vengano
dall'esterno delle collezioni e che bisogna fare arrivare alle gallerie. |
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Quale
ti pare essere stata la specificità di questa esposizione se paragonata
con le esperienze che hai vissuto precedentemente, ed esattamente quali
altre mostre del Centre Canadien d'Architecture hai seguito? |
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La
grande esposizione che ho seguito prima è stata Mies in America,
una mostra che ha viaggiato in tournee al Whitney di New York, al CCA
di Montréal e al Museo d'arte contemporanea di Chicago. Si trattava
di un'esposizione alquanto complessa, nel senso che erano presenti delle
proiezioni video, delle opere d'arte, eccetera… Poi c'è stata l'esposizione
su John Soane che è stata montata per la Royal Academy con Umberto Riva,
il quale aveva disegnato tutti gli arredi, e che presentava delle specificità
nella scelta delle vernici, dei colori delle pareti e nella scelta di
lavorare molto con la museografia, per trascrivere l'idea di architettura. Quello che ha detto Jacques Herzog nell'introduzione della mostra è che l'architettura è fatta per essere sperimentata: la conosci quando visiti un edificio. Che cosa si mostri nell'architettura, quando si fanno delle scenografie, delle museografie un po' complesse, è solo un tentativo di trascrivere un po' questa idea di spazio che è propria all'architetto. Come specificità c'era il fatto che dal punto di vista dell'organizzazione è molto raro che si faccia una esposizione con seicento plastici di cui la maggior parte, quando li fai uscire dalla scatola, non sai nemmeno in quale senso si presentino. Quindi si è trattato di un'esposizione che si è potuta montare esclusivamente con la presenza di Ester Zunteg, del suo assistente, Monica Aumont, perché loro hanno inviato alcune scatole con le loro etichette, ma non si sapeva nemmeno come prenderle, quale fosse il loro lato di utilizzo... Esagero, ovviamente, perché eravamo iper-organizzati, abbiamo un ufficio protocollo che si occupa dello spostamento di tutti gli oggetti, del trasporto e gestione degli oggetti tra il luogo da cui vengono e il museo, e anche all'interno del Centre Canadien d'Architecture. Ciò ha voluto dire che tutti i giorni, a fine giornata, Ester e la mia equipe, dicevano all'ufficio protocollo "portateci su tutti gli oggetti della galleria numero 1, numero 2, numero 3, numero 4, numero 5". Per cercare di rispondere direi ancora che era la grandezza della scala dell'esposizione che ne costituiva un elemento di specificità in relazione alle altre esposizioni. Copriva tutti gli spazi espositivi del Centre Canadien d'Architecture. Abbiamo parlato del feltro, ma c'erano anche, nella hall di ingresso, tutte queste ampolle sospese che venivano dal progetto di Dominus Winery, in cui il filo a spirale passava all'interno dell'ampolla di vetro. Il feltro, per esempio, appariva molto semplice, ma c'era tutto un lavoro di preparazione. Abbiamo dovuto costruire le chiusure di contro-placcaggio, sulle quali abbaiamo fissato del velcro, sollevare il feltro molto molto pesante. Bisognava essere in tre persone per manipolare dei rotoli enormi e molto pesanti e metterli in posizione corretta. Abbiamo fatto la serigrafia sul feltro, quando salivi vedevi il titolo dell'esposizione sul feltro, i testi di introduzione e gli sponsor. Queste erano cose che non avevamo mai fatto, quindi bisognava fare numerose prove e non abbiamo avuto molto tempo per potercene occupare. Ciò che la rendeva specifica in conclusione erano alcuni oggetti come quelli ora descritti ed altri elementi che si sono dovuti produrre. Come il feltro che è stato molto lungo da produrre. Bisognava definire tutto ciò di cui avevamo bisogno, e alla fine era cruciale che la serigrafia funzionasse, perché avevi soltanto un lato per poterla fare, poi non ci sarebbero state altre possibilità. C'era un'opera nella galleria ottogonale di Dan Graham, l'installazione della quale è stata alquanto delicata, perché era fatta da uno specchio convesso. L'impianto elettrico per tutte le ampolle. Fare venire i mobili, i prototipi Prada da Milano e anche le Pipe-light che venivano da Artemide di Milano. È stata soprattutto la logistica a risultare complessa e sofisticata. Si è trattato di una mostra molto complessa dal punto di vista logistico, ma si scrive nell'ordine normale delle cose. |
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> CENTRE CANADIEN D’ARCHITECTURE |
La
sezione Allestimenti laboratorio
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