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Diller + Scofidio: Whitney Museum of American Art New York

Scott Rothkopf
ARCH'IT presenta, a cura di Roberto Zancan (da qualche mese ospite del CCA, Centre Canadien d'Architecture di Montreal), una breve serie di riflessioni sulle principali esposizioni di architettura che si sono tenute in nordamerica nel corso dell'anno appena trascorso. Si tratta di un percorso articolato e ricco di interessanti spunti di riflessione che parte da un'intervista a Serge Belet, responsabile tecnico per le esposizioni del Centre Canadien d'Architecture, in merito alla mostra Herzog & de Meuron: Archéologie de l'imaginaire, in arrivo a Basilea e Rotterdam dopo l'inaugurazione presso il CCA; prosegue con una recensione, pubblicata originariamente sull'autorevole "Artforum International" a firma del critico d'arte Scott Rothkopf, della mostra Scanning: the aberrant architecture of Diller + Scofidio, allestita al Whitney Museum di New York e già presentata sulle pagine di ARCH'IT con un'introduzione di Aaron Betsky e un commento di Alicia Imperiale; e si conclude con una vivace intervista a Mirko Zardini, curatore di Out of the box, illustrata da un ricco reportage fotografico della mostra che ha offerto al pubblico un'ampia selezione degli archivi di Gordon Matta Clark, Aldo Rossi, Cedric Price e James Stirling, recentemente acquisiti dal CCA. [PG]



Quella qui presentata è la seconda di una breve serie di riflessioni sulle grandi esposizioni di architettura in nordamerica dell'ultimo anno. Una serie che presentiamo in coincidenza con l'apertura autunnale di un nuovo ciclo di mostre. Accostando esperienze e giudizi, si vuole così raccontare come vengano concretamente concepiti e realizzati alcuni grandi avvenimenti, come vengano accolti in ambienti esterni a quelli del mondo dell'architettura e infine come essi si vengano riconfigurando alla luce delle poco rosee prospettive sul futuro. L'obiettivo è quello di mettere in luce alcuni meccanismi capaci di rivelare cosa stia accadendo in questa fase di passaggio tra la riaffermazione della figura del "maestro" e il problema, sempre più strutturale, della crisi finanziaria delle grandi istituzioni culturali. Due aspetti solo apparentemente disgiunti, se si avanza l'ipotesi che, nell'attuale sistema di produzione della cultura, lo specifico ruolo assegnato all'architettura sembra essere diventato sempre più quello di aggiungere altre stelle al firmamento dei grandi artisti, senza voler disegnare alcuna nuova costellazione di senso. Un ruolo che paiono accettare anche le più prestigiose istituzioni, indebolite nella loro possibilità di poter costruire impegnativi progetti di ricerca trasversali, dalle attuali contingenze economiche e gestionali.

La traduzione della recensione qui presentata è stata preceduta da un'intervista con Serge Belet, il cui intento è stato quello di illustrare cosa voglia dire costruire una mostra dal punto di vista di un'istituzione. La serie si conclude con un'intervista al curatore di Out of the box, Mirko Zardini: una mostra che, appena apertasi, presenta, sempre al Centre Canadien d'Architecture, un'ampia selezione degli archivi di Gordon Matta Clark, di Aldo Rossi, di Cedric Price, e di James Stirling, recentemente acquisiti da questa istituzione.

L'intento della riproposizione della recensione di Rothkopf è quello di indicare quello che è ritenuto un esempio positivo di una tendenza in atto nel mondo delle esposizioni di architettura, non sia giudicato altrettanto favorevolmente da parte della più autorevole rivista del dominio adiacente: quello del mondo dell'arte. Rilevante sarà allora notare che l'invito a lavorare entro i propri limiti disciplinari contenuto nella recensione non sembra affatto precludere una relazione con le arti, ma anzi suggerisce che, anche quando avrà smesso il vestito dell'artista, all'architetto resterà ancora molto da fare lungo questa direzione.

Prima di lasciare il lettore al testo andrà sottolineato che è specifico della condizione americana il fatto di dover tuttora presentare l'architetto, o meglio un certo tipo di architetto -quello a forte contatto con il mondo dell'arte-, come un'intellettuale, e più in particolare, un intellettuale che riflette sulla società e le sue costrizioni spaziali. Paradossalmente nel momento in cui si assiste ad una contestazione del dominio culturale americano -valgano da esempio le molte opere italiane all'ultima Biennale d'Arte di Venezia realizzate da architetti- sono proprio simili atteggiamenti ad essere assunti e fatti propri in Italia. L'impressione che si voglia costruire un illusorio mercato del lavoro è difficile da rimuovere, così come quella che non basti apparire in alcune vetrine facilmente accessibili dello spettacolo dell'arte internazionale per raggiungere quella rinascita culturale che tanto si invoca e a cui tutti aspiriamo.

Roberto Zancan
zancan@brezza.iuav.it



[08jan2004]
Nel recente gran parlare dei legami sfocati tra architettura e le arti visive, nessuno ha fatto più rumore in entrambi i campi da quando Michelangelo si era occupato di San Pietro. Se il ventesimo secolo ha offerto la sua parte di architetti-artisti, come Le Corbusier, Theo van Doesburg e Tony Smith, tutti sono stati conosciuti più per il loro lavoro su un lato della divisione disciplinare che sull'altro. Recentemente diversi artisti come Vito Acconci, Pierre Huyghe e Jorge Pardo hanno tentato qualche forma di architettura, mentre numerosi architetti hanno sottoposto i loro disegni e anche le loro sculture alla vivida luce delle gallerie. Oggi gli architetti Diller + Scofidio sono diventati il nostro giudice di sedia più alla moda, conosciuti meno per i loro edifici che per il loro lavoro nelle performance e nei video, così come per i loro applauditi allestimenti espositivi. Tuttavia la loro recente retrospettiva al Whitney Museum, Scanning: The Aberrant Architecture of Diller + Scofidio, dimostra inconsciamente la distanza tra l'arte dell'installazione e le installazioni artistiche.

Elisabeth Diller e Ricardo Scofidio formano la loro partnership nel 1979, quando una debole economia offriva agli architetti poche opportunità di costruire. Piuttosto che proseguire, come molti dei loro colleghi la "architettura di carta", scelgono di disegnare scenografie per spettacoli di teatro e di danza sperimentali, opere d'arte pubbliche e installazioni scultoree, molte delle quali impegnate nelle questioni sociali, incluso il nostro contemporaneo valore di sorveglianza e i "rituali quotidiani e i pregiudizi di genere", così come li definiscono i curatori dell'esposizione, Aaron Betsky e K. Michael Hays.

Al Whitney, l'investigazione di Diller + Scofidio sui codici domestici e sui ruoli di genere è rappresentata da un gruppo di belle camicie bianche stirate come degli origami, così come da alcuni oggetti domestici, compresa una saponetta e un set di asciugamani per lui e per lei cifrati con slogan provocanti. Come in molto del loro lavoro, questi oggetti hanno una qualità visiva, ma il loro sovradeterminato atteggiamento critico nei confronti del "domestic habitus" e al senso della proprietà sembra anacronistico – un commento più adatto all'era in cui June Cleaver inamidava le magliette di Ward, piuttosto che alla nostra fatta di partnership domestiche e di abbigliamento business-casual.

Questo senso di arretratezza si manifesta in maniera ancora più problematica nella relazione sviluppata da Diller + Scofidio nei confronti della recente storia dell'arte, perché la loro pratica spesso sembra impegnata a vestire in abiti eleganti quello che una volta era il lupo minaccioso dell'arte concettuale. Si prenda, ad esempio, il pezzo centrale della loro retrospettiva: Mural, 2003, una figata di trivella robotica che corre nelle gallerie su una rotaia e perfora i muri dell'esposizione. Una targhetta descrive l'opera come un commento sulla "cosiddetta neutralità dei muri dei musei", ma "il cubo bianco" non è stato visto come neutrale da più di trent'anni (ci si chiede se gli architetti siano consapevoli del lavoro di Michael Asher, Daniel Buren, o dei numerosi artisti che hanno egualmente dipinto, grattato, lucidato e scheggiato i musei e le gallerie). Mural, come la maggioranza dei testi su Diller + Scofidio, suggerisce che gli architetti soffrano di un grave caso di invidia di Dunchamp: vogliono fare per l'architettura ciò che Duchamp ha fatto e per l'arte. Essi rendono la loro reverenza nei suoi confronti esplicita in modo quasi imbarazzante inserendo un pezzo della parete del MoMA (precedentemente coperto da uno dei suoi dipinti) in un muro della loro retrospettiva. Ma in molte maniere Duchamp stesso è forse già stato il Duchamp dell'architettura, nella misura in cui i suoi readymades hanno portato l'attenzione sulla capacità semantica di loro intorni fisici. Il fatto che una camicia piegata ad arte possa oggi passare come un commento sull'architettura, a condizione che lo dica un architetto, serve solo a confermare lo spettro del maestro.

Se le loro installazioni forniscono spesso l'impressione di essere, anche se con stile, illustrazioni di consumate teorie critiche, Diller + Scofidio sono al loro meglio quando lavorano all'interno piuttosto che all'esterno dei vincoli di un programma architettonico dato. Come è evidente al Whitney, le implicazioni funzionali e sociali di una commissione particolare forniscono la trazione espressiva per i loro interessi e talenti. Questa sorta di impegno è immediatamente apparente nel loro piacevole e sottile ridisegno della brasserie del Seagram Building, dove le camere nascoste e una scalinata assurdamente sproporzionata, rendono ogni entrata nel locale "grandiosa" nel momento stesso in cui la pongono sotto l'attenzione dei riflettori. Il loro progetto per l'Institute of Contemporary Art di Boston si estende fuori del suo sito sulla nuova passeggiata a mare della città, che gli architetti fanno piegare all'interno del loro edificio con una tribuna senza distinzione tra interno ed esterno, per la visione della varietà naturale, urbana e artistica. Sebbene le forme piegate di questo progetto e i loro piani per Eyebeam echeggiano il lavoro di Rem Koolhaas e MVRDV, il design di Diller + Scofidio dimostra l'acuta sensibilità per le caratteristiche fisiche e culturali di un particolare sito, una qualità permeante quasi tutti i loro progetti architettonici, dalla Slow House del 1991 al Blur Building per l'esposizione svizzera del 2002, che letteralmente trasforma il suo sito acquatico in un padiglione a guisa di nuvola.

Purtroppo, a parte il Blur Building, questi progetti ricevono scarsa attenzione al Whitney, dove sono compressi in una galleria grande come una scatola di scarpe, oppure sono semplicemente omessi. Forse gli organizzatori della mostra temevano che i modelli o le fotografie degli edifici fossero meno attraenti delle installazioni multimediali, ma ultimamente è l'"arte" di Diller + Scofidio che impallidisce di fronte alla loro "architettura". Naturalmente la loro pratica ibrida ha per obiettivo di confondere questa distinzione, e durante gli ultimi trenta anni molti artisti e architetti hanno perseguito una causa alleata. Pertanto a discapito di questi sforzi, c'è forse ancora qualche verità nel dogma modernista che i limiti o le barriere di una particolare disciplina –non importa quanto sfilacciati– possano offrire stimoli produttivi per la pratica artistica. Questo è certamente il caso di Diller + Scofidio, è proprio quando attaccano i vincoli di un dato programma architettonico che essi generano edifici che incarnano, piuttosto che semplicemente illustrare, il loro più irresistibile commento formale e sociale.

Scott Rothkopf

Articolo pubblicato originariamente su Artforum, June 2003. Traduzione italiana di Alexis Sornin.

Scott Rothkopf, uno storico dell'arte residente a Cambridge - Massachussets, ha organizzato la scorsa primavera Mel Bochner: Photographs, 1966-1969 all'Arthur M. Sackler Museum della Harvard University. Rothkopf sta attualmente lavorando a un libro sui giovani artisti e critici interessati al surrealismo in America negli anni ‘60 ed è co-organizzatore, con Linda Norden, di una mostra sul lavoro di Pierre Huyghe, che si aprirà al Carpenter Center for Visual Arts della Harvard University nel 2004.

> IMPERIALE: INSTALLING DILLER+SCOFIDIO AT THE WHITNEY

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