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"Lo stile è il metodo". Per una estetizzazione della stratificazione. Intervista a Yannis Tsiomis su archeologia e progetto urbano.

di Luigi Manzione

[en français]

Yannis Tsiomis, organizzatore del convegno Le site archéologique et la ville. Transgresser les limites (Il sito archeologico e la città. Trasgredire i limiti, Parigi, Palais de Chaillot, 27-28 marzo 2000), è architetto e urbanista, professore all'Ecole d'architecture di Parigi-La Villette, alla Facoltà di architettura di Rio de Janeiro e alla Scuola Politecnica di Atene. Responsabile del programma "Progetto urbano-progetto cittadino" all'Istituto Francese di Architettura/Città dell'architettura e del patrimonio; esperto presso l'Unione Europea per lo sviluppo delle città. Ha realizzato studi ed opere d'architettura e d'urbanistica in Francia, in Germania, in Grecia e in Belgio. Attualmente lavora alla sistemazione del sito archeologico dell'Agorà di Atene e del quartiere circostante. Tra le sue recenti pubblicazioni: Ville-cité. Des patrimoines européens, Paris, Picard, 1998 e Le Corbusier, Rio de Janeiro 1929-1936, Rio de Janeiro, CAU, 1998.

Avevo formulato all'inizio quattro domande a Yannis Tsiomis riguardanti il convegno di Chaillot, ma lui ha preferito la forma molto più viva della conversazione, che ha avuto luogo nel suo studio parigino nel quartiere del Marais, di cui ho cercato di conservare il tono, anche nella traduzione italiana. Nel corso della riflessione "parlata", le quattro domande originarie si sono trasformate in un affresco molto più ricco, sia sul tema del rapporto tra archeologia e progetto urbano, sia sulla sua esperienza (in corso) sulla sistemazione del sito archeologico dell'Agorà di Atene, per diventare un vero e proprio "racconto", stimolante e appassionante, del lavoro dell'architetto su e a partire delle tracce del passato.





[14may2000]
LUIGI MANZIONE: "Creare una rete d'idee attraverso una rete di città" in una prospettiva mediterranea che ponga in relazione archeologia e città: in che modo è possibile inventare, concretamente, nuove strategie incrociate tra la salvaguardia e la valorizzazione dei siti archeologici, da un lato, e il progetto urbano, dall'altro; tra le ragioni del passato e quelle del futuro?

YANNIS TSIOMIS: Questa idea di "creare una rete d'idee attraverso una rete di città" è nata dalla volontà, non tanto di aggregare un insieme di studiosi e professionisti al fine di fabbricare artificialmente le cose, ma piuttosto di costituire una rete -e il tema della rete peraltro è oggi molto in voga...- in cui ciò che è più importante sono proprio le "ragioni" della rete, ossia le idee che i progetti veicoleranno.
Mi interessa anzitutto ciò che può aggregare gli architetti e gli archeologi sulla riflessione e sul confronto a partire dal progetto, non soltanto quindi sul lavoro compiuto sul progetto.
Riguardo alla seconda parte della domanda che tu mi poni -l'invenzione di nuove strategie incrociate- direi che si tratta di un "combattimento" reciproco che esiste da sempre, e che non si supererà mai. Se pensiamo oggi ai dibattiti sul tema, a partire dal 18° secolo, sul rapporto passato-presente, vediamo chiaramente che esso è un rapporto archetipico.
Il fatto di pensare al rapporto tra il passato e il futuro significa che si è regolata la questione del rapporto con la storia. Penso, al contrario, che non si deve mai dimenticare questo rapporto.
Esistono delle specificità nel trattare il passato in quanto esso è, da una parte, un 'affare' di storici e di archeologi e, d'altra parte, delle specificità nel trattare il progetto urbano, poiché esso è un 'affare' di architetti e di urbanisti. Non dimenticherei, tuttavia, che esiste sia un progetto urbano, sia un progetto archeologico.
Le questione archeologica stessa è un progetto, un progetto di futuro. Nello stesso tempo, il progetto urbano, dal momento in cui si concretizza, diviene già 'archeologico'.
Mi interrogherei allora sulle forme possibili dell'incontro di questi due progetti, e non sull'incontro tra passato e futuro. Si tratta in quest'ultimo caso di una questione diversa, filosofica prima che architettonica: se la riguardo in termini di filosofia, la comprendo; se la riguardo in termini di esplorazione del passato attraverso la storia per far luce sul futuro, la comprendo ancora, ma non riesco a comprenderla in termini di progetto, di confronto tra due progetti.

LM: Il progetto urbano può essere un mezzo di conoscenza del passato, oltre che di modificazione del presente?

YT: Il progetto urbano può costituire un mezzo di conoscenza del passato, così come lo è il progetto archeologico, che è però piuttosto una anticipazione del passato,
(1) una sorta di presa di posizione momentanea in relazione al passato.
Se si guarda alle critiche attuali agli interventi degli archeologi dell'Ottocento -Evans, per esempio, o Schliemann (a Micene o a Troia), o anche alla sistemazione archeologica di Pompei, o ancora alla maniera d'interpretare le Latomìe a Siracusa- e alle modificazioni indotte sul paesaggio nel corso dell'avanzamento degli scavi, ci si rende conto che il progetto aiuta a comprendere il passato, ma che non parla di questo passato come di qualcosa di definitivo.
Se considero l'Agorà di Atene, mi pongo anzitutto il problema di sapere di quale Agorà e di quale passato si parla. Siamo in una situazione in costante evoluzione: se attribuisco una immagine, se scelgo una immagine di questa Agorà, nascondo nello stesso tempo tutte le altre appartenenti anch'esse alla storia. Sono dunque nel "press'a poco", ai bordi dell'immagine del passato, ma pur sempre all'interno di un approccio approssimativo.
Direi allora che il progetto può trasmettere la conoscenza del passato in forma approssimativa, o meglio, può essere una maniera d'iniziazione al passato ("apprentissage"), ma non la conoscenza del passato.
Penso che noi architetti abbiamo esagerato il nostro ruolo riguardo alla conoscenza del passato. Dire, però, che abbiamo un potere d'interpretazione, d'accordo, ma un potere relativo piuttosto alla ricchezza di invenzione del passato.
E' proprio questa invenzione estremamente interessante e importante: tuttavia essa non è la conoscenza del passato. Con molto maggior rigore, e serietà, gli archeologi operano allo stesso modo. Il loro lavoro è anch'esso d'interpretazione, ma gli archeologi non dicono mai "questo è stato così". La ricostruzione del Partenone è lì: l'immagine del Partenone finito è però un'immagine ugualmente fallace, anche se ciò riguarda solo dei piccoli dettagli.
L'archeologia appare dunque anch'essa un universo aperto, e questa apertura è in fondo comune tanto al lavoro dell'archeologo, quanto a quello dell'architetto, ma a dei livelli diversi, poiché il rigore dell'archeologo, ripeto, non è il rigore dell'architetto.

LM: Ci sono degli approcci al progetto urbano, penso per esempio a Christian Devillers o a Vittorio Gregotti, dove l'invenzione si appoggia strettamente, direi "rigorosamente" (tra virgolette) alle tracce di preesistenza e di memoria e dove è essenziale il lavoro su ciò che è "già là"...

YT: Questo è del tutto vero. Tuttavia lavorare sulle tracce, è per far seguire alla traccia delle cose che non hanno "volume", delle cose che non sono là. La traccia rimane una traccia, ma non è là... Quindi il problema è: si tratta di un lavoro sulle tracce o di un lavoro a partire dalle tracce per trovare una verità? Se lo si intende come una ricerca della verità, allora io dico no, è un errore; se lo s'intende, invece, come un lavoro sulle tracce, allora il discorso cambia...

LM: Se non si può parlare di una verità -della verità in quanto concetto assoluto- possiamo pensare all'esistenza di tracce che rinviano a delle verità specifiche e locali, legate a dei contesti, geografici e storici, precisi?

YT: Si, è proprio lì che bisogna articolare il rigore dell'architetto che segue la traccia e il rigore dell'archeologo (e dello storico) che identifica la traccia. L'architetto non può identificare una traccia: può valorizzarla, nel tempo che questa identificazione resta credibile, in quanto essa stessa può trasformare la traccia.
Ti citerò un esempio, sempre a partire dall'Agorà di Atene, relativo alla rete dell'acqua. Questa rete è stata ristrutturata molte volte dall'epoca classica (in età ellenistica, poi romana e infine bizantina). Si è seguita la traccia dell'acqua, ma ogni volta è stata necessaria l'interpretazione da parte dell'archeologo per dirci come veramente gli uni e gli altri hanno utilizzato l'acqua, come la raccoglievano e la canalizzavano. E' l'archeologo, quindi, che può dirci quale tipo di canalizzazione e in quale epoca essa è stata realizzata. Il nostro compito, certo insieme all'archeologo, è di valorizzare queste diverse tracce, queste stratificazioni.
Il nodo è allora l'estetizzazione della stratificazione: spetta a noi renderla leggibile, renderla "bella". Ciò fa parte del lavoro dell'architetto, ma sempre con l'archeologo, e questo lavoro compiuto sul sito deve mantenere uno spirito di "modestia", deve essere un gioco di modestia, che può ispirare l'architetto anche quando si trova ad operare altrove.

LM: Si tratta dell'apprendimento di un metodo?

YT: Si, di un metodo e di un'energia per immaginare altrove situazioni che possono essere del tutto diverse. La mia esperienza con gli archeologi sul sito dell'Agorà di Atene è proprio un lavoro metodologico. È l'acquisizione di uno "stile": lo stile è il metodo, infatti, piuttosto che una determinata morfologia, che costituirebbe semplicemente una falsificazione.

LM: Archeologia e progetto urbano mostrano un punto di convergenza, lo abbiamo visto, nella ricerca delle tracce, o a partire dalle tracce. Il paradigma "indiziario" in comune può definirsi come il legame, insieme teorico ed operativo, a partire dal quale produrre delle prefigurazioni coerenti e "ragionate" dell'avvenire delle città storiche?

YT: Penso che sia importante leggere i legami tra la teoria e le pratiche, ossia situarsi laddove possiamo avere una sorta di teoria che non è mai la operatività, ma neanche la materializzazione pura di una speculazione.
Bisogna lasciare aperto il "libro", il discorso dello storico, l'interpretazione stretta e rigorosa dell'archeologo nel dominio della teoria. L'operatività, come dicevi prima, è già un lavoro sulle tracce e a partire dalle tracce da parte dell'architetto. In tale lavoro traspare una visione del passato, ma non la costituzione (o ricostruzione) del passato. Direi quindi che il lavoro sulle tracce è un'esegesi, un'interpretazione dell'interpretazione. Nel lavoro degli archeologi vediamo una interpretazione che poggia su fondamenti teorici; nell'operatività dell'architetto si potrebbe vedere, invece, una "libera interpretazione" dell'esegesi degli archeologi.
C'è allora un'anticipazione del passato, come ho già detto, nel senso che non ci si fermerà mai d'interpretarlo, dunque di modificarlo. Se prendiamo i discorsi degli storici dell'Antichità -se pensi, ad esempio, sul versante italiano a Momigliano o, in Francia, a Vidal-Naquet o a Vernant, e oggi alle nuove interpretazioni relative al teatro greco-, si vede bene che siamo nell'ambito dell'esplorazione di limiti a partire dagli stessi documenti. Il documento rimane lo stesso, ma lo storico lo interpreta costantemente in maniera diversa.
In questa prospettiva dell'anticipazione del passato, il progetto archeologico diviene un progetto nel senso forte del termine, proprio in rapporto al tempo.
Tuttavia, a livello operativo, ciò che noi facciamo, deve restare reversibile.
Esiste oggi, infatti, una differenza di fondo in rapporto agli interventi realizzati negli anni '20 e '30, durante il fascismo, a Roma e a quelli realizzati a Creta, a Cnosso (Evans, 1902): lì si trattava di operazioni non reversibili (nella scelta dei materiali, nelle colmate e nel riporto di terreno, etc.). Interventi che hanno fissato un'immagine definitiva, o presunta tale. Oggi non si potrebbe accettare quel tipo di ricostruzione, con quei materiali, ma si preferirebbe certamente il genere di intervento compiuto dagli italiani a Festo, molto più vicino alla "lettera" e alla realtà delle pietre ritrovate. Anche se esistono delle lettere mancanti, è possibile comunque leggere delle parole, delle frasi, che permettono di volta in volta una interpretazione diversa.
In questi casi, bisogna lasciare il "disegno", l'interpretazione dell'archeologo senza spingersi più in là.
Nella mia esperienza sull'Agorà di Atene, con delle discussioni peraltro molto complesse con i colleghi, il solo materiale alla fine utilizzato è stata la terra stabilizzata.
Simbolicamente la terra ha un significato: l'Agorà è stata terra, e solo a partire dall'epoca ellenistica si comincio' a rivestire di marmo e di pietra il suolo.
Esiste dunque una relazione con la realtà attraverso la terra: è il rapporto con il mito. Il mito della terra, dell'autoctonìa, mi sembrava sufficientemente forte per dire che non avevo bisogno di sottolineare ulteriormente, con materiali più "perentori". È molto più "marcante" dell'iper-marcato, come ho detto durante l'incontro al Palais de Chaillot: la decisione di non fare, è fare.
In altre zone dell'Agorà, avrei anche immaginato la presenza di materiali più stabili, più forti, tuttavia mai dei materiali irreversibili.
Per ritornare ora al rapporto tra il teorico e l'operativo, direi che il teorico è allora proprio questa interpretazione attraverso una visione della storia, la definizione di una teoria su una civiltà che mi consente di dire in che modo -per allusione- i miei materiali sono appunto "allusivi" (come quando parlo della terra stabilizzata...).

LM: Sono questi dei materiali "concettuali", posti lì per dire anche "altro"...

YT: Ecco, si tratta di materiali esattamente "concettuali", nello stesso tempo.

LM: Passerei adesso alla questione dei "limiti". "Trasgredire i limiti": in quali termini si può immaginare un approccio interdisciplinare, rivolto a ricercare le forme e i modi della compatibilità tra memoria e progetto, tra persistenza e trasformazione?

YT: E' opportuno precisare anzitutto i tipi di limite.
Da un lato, abbiamo i limiti fisici, ossia la città e il sito archeologico, dall'altro i limiti tra due territori: un territorio fisico (ancora la città e il sito archeologico) e un territorio disciplinare (con gli architetti e gli archeologi, insieme, nel sito archeologico e gli architetti e gli urbanisti all'esterno, nell'ambito della città).
In tale territorio disciplinare, allora, troviamo un lavoro da compiere per cercare di articolare le logiche. Quando dico "logiche", intendo i discorsi, il corpus, non le logiche nel senso di riflessione "congelata", intendo in realtà delle "pratiche".
Articolare queste pratiche implica un lavoro molto lungo. Dal punto di vista teorico, abbiamo visto questo insieme di temi snodarsi nel passato. Se pensiamo alla riflessione italiana sulla città, anche attraverso i diversi progetti relativi alle "forme": la maniera stessa di riflettere sulla città propria degli architetti e degli urbanisti è completamente diversa rispetto a quella degli archeologi.
Abbiamo, quindi, un lavoro effettivamente interdisciplinare davanti a noi, che deve iniziare proprio dall'articolazione delle logiche. Non è però, a mio avviso, "interdisciplinare" il fatto puro e semplice di mettere in comune degli apporti, idee o strumenti che siano. Penso, invece, che bisogna mettere in luce, dare voce ai disaccordi, ai confronti, ai conflitti, per superare i corporativismi.
E ciò, nella situazione attuale, è vero tanto in Italia, che in Grecia e in Francia. Ma posso ricordare che anche in altre epoche storiche -come ad esempio nel Brasile delle Missioni dei Gesuiti-
(2) esisteva un corporativismo, in cui ciascuno considerava come "riserva di caccia" il proprio territorio.
In tal senso, il territorio archeologico "appartiene" agli archeologi, il territorio della città agli architetti e agli urbanisti, e ciascuno vi opera con le proprie idee. Si tratta allora di "banalizzare" il confronto, di accettare delle regole pubbliche per cominciare a discutere. A discutere di cosa?
Passo adesso all'altra distinzione di limiti, quella tra la città e lo spazio archeologico, e alla loro trasgressione.
Io sono completamente d'accordo con numerosi archeologi quando mettono in guardia a proposito del rischio che implica la democratizzazione e il turismo di massa.
Si richiede al sito archeologico di essere redditizio, di diventare una ragione e un mezzo per guadagnare soldi. In ogni città dove esiste un sito archeologico, si considera questo patrimonio come un bene economico, da sfruttare in modo intensivo.
Ritengo questa visione legittima, ma nello stesso tempo catastrofica, anche se ciò può apparire contradditorio nella sua essenza. Quando dico "catastrofico" e "legittimo", si tratta certamente di qualcosa di contradditorio, ma è proprio di questa contraddizione che si deve tener conto. Se si continua, per esempio, ad accogliere centinaia di migliaia di turisti all'anno sull'Acropoli di Atene, credo che sia preferibile costruire un'Acropoli altrove e farla visitare, oppure ricoprirla interamente!
Qual è l'essenza, in fondo, di questa massificazione della visita?
È necessario, a mio parere, riconsiderare anche il viaggio.
Mi è indifferente se oggi il viaggio risulta facile: va a vantaggio delle compagnie aeree, ma è la logica delle agenzie di viaggio che domina. Non dico che dobbiamo trascurarla, ma che lì esiste un altro conflitto, da prendere di nuovo in mano e cercare di regolare.
Ritornando alla questione dei limiti, nel modo in cui tu l'hai posta, mi sembra che, se riguardo al problema relativo a dove finisce il sito archeologico e dove comincia la città, se tengo presente che i limiti dei siti archeologici fanno parte della città e che questi stessi siti fanno parte della città, non posso tuttavia affermare che la città è "aperta". Bisognerebbe, infatti, trovarsi in un'altra civiltà, avente non solo il rispetto, ma anche il desiderio di meditare sui siti archeologici, non solo consumarli (e qui siamo in una logica di consumo, non di meditazione...). Non ci troviamo, dunque, in quest'altra civiltà, e probabilmente non ci saremo mai più.
Il limite, malgrado tutto, costituisce una separazione protetta, ma anche una sorta di spazio tra i tempi, tra le epoche storiche: attraversando queste tracce, queste separazioni, io passo dal tempo della città al tempo di una certa lettura del suo passato (non del passato). Ma se sono nella città, non posso che guardarla in quanto utente, in quanto consumatore della città (ho bisogno di camminare, acquistare, mangiare, etc.).

LM: A proposito ancora dei limiti e della loro trasgressione, possiamo parlare della necessità di un approccio pedagogico all'uso del patrimonio del passato?

YT: Credo che l'espressione sia proprio questa: un approccio pedagogico, e didattico, nel senso che si riflette su come si racconta una storia (e in questo campo l'architetto ha molto da dire, e non soltanto l'architetto, certo...). Dunque, didattico e pedagogico, perché apre la possibilità di costruire delle interpretazioni e, nel contempo, di immaginare dei visitatori.
E qui si ritorna al problema del "numero", di cui dicevo prima.
E' evidente che la modalità del viaggio, oggi, impedisce la meditazione. Perciò sarà necessario ripensare il viaggio, fino ad organizzare in altre forme tutta una serie di cose estremamente concrete e pratiche (i modi e i tempi di visita, per esempio), associando le forze economiche (tanto i commercianti presenti nelle aree, quanto le agenzie di viaggio).
Penso a dei siti archeologici che hanno "ucciso" la città, anche se essi sono protetti, separati da questa (perché ci sono gli archeologi a proteggerli); siti che hanno ucciso la città circostante. La mia preoccupazione in rapporto all'Agorà di Atene è stata proprio di realizzare un intervento che scongiurasse il pericolo di uccidere la città.
Ma come fare affinché il sito archeologico non uccida la città? Fino a tempi recenti, il rischio era che la città uccidesse il sito archeologico, adesso è l'inverso, ed è questa inversione che si deve ben considerare.

LM: Sito archeologico "assassino" e/o città "assassina": rimane tuttavia al centro il tema dell'utente, altro soggetto spesso "ucciso"... Paul Ricœur, in un contesto del tutto diverso, ha scritto: "Il racconto non conclude il suo tragitto nella cinta del testo, ma nel suo vis-à-vis: il lettore, questo protagonista dimenticato dallo strutturalismo". Il lettore -nel nostro caso l'utente, dall'abitante al turista- non è anch'esso il protagonista spesso dimenticato dai discorsi e dalle pratiche degli specialisti (archeologi, architetti, urbanisti)?
Si tratta, ancora, di un problema di "limiti" e di loro trasgressione: uso e conservazione sono compatibili?


YT: E' certo che spessissimo gli specialisti dimenticano tutto questo, ma io ritengo che l'utente della città intorno al sito archeologico sia diverso dall'abitante, e l'abitante a sua volta diverso dal turista.
Penso che non esista in realtà una distinzione operante in termini storici e filosofici, forse in termini metodologici. Spero che arriveremo un giorno a essere molto più antropologi, a seguire un approccio antropologico che permetterà di scorgere le differenze di comportamento, le differenze a partire dalla memoria, le differenze a partire dagli usi stessi che ciascun vivente, intorno o no ai siti archeologici, mostra nelle sue preoccupazioni e nei suoi atti.
Se non si fa questa distinzione, resteremo ancora sul problema del "numero", ossia sulla necessità di avere più o meno "numeri", più o meno quantità anonime.
Il numero ha pero' già posto, implicitamente, il problema della qualità. E se guardiamo alla qualità, dobbiamo anche distinguere all'interno di qualità: esattamente il "lettore", e considerarlo come "lettore". Ci sono, allora, lettori diversi del sito archeologico: dunque occorrerà dire "turista", oppure "viaggiatore", o anche "turista" come l'intendevano gli inglesi nel Settecento.
Le letture sono diverse, ma in che senso?
Esiste senza dubbio un problema di limiti, nel senso anche metaforico del termine. Vale a dire: se ci poniamo la domanda se "l'uso e la conservazione sono compatibili", io direi, allora, si, ma a condizione di comprendere le culture dei visitatori (ed esistono diverse culture del visitatore, cosi' come esistono diversi tipi di visitatore).
La compatibilità si andrà a ricercarla, quindi, tra l'uso e la conservazione, poiché la conservazione non sarà "altra" in rapporto all'uso, considerando gli usi possibili e tenendo conto anche della distinzione tra consumo, uso ed usura, laddove esistono dei limiti propriamente fisici. Quando vediamo, per esempio, le tracce del passaggio su delle superfici divenute lisce a causa di questo continuo attraversamento, in fondo, non possiamo non pensare che anche lì siamo di fronte ad una banalizzazione...
Per citare un altro esempio, ancora tratto dall'Agorà di Atene, parlerei del dibattito molto interessante intorno alla proposta di ricostruire un portico appartenente all'epoca ellenistica. Se si ricostruisce questo portico, si impedirà la lettura della topografia precedente, quella dell'epoca classica. L'Agorà ellenistica è una forma geometrica chiusa, mentre l'Agorà classica è una forma aperta, non geometrica, pensata per gli usi, una forma, direi, disegnata a posteriori.
In questo caso, quale selezione sarà legittimo che io faccia?
La questione dei limiti, del tempo, si ricollega qui ai limiti dell'uso, poiché posso dire che esiste oggi un problema preciso a proposito di questo portico. Esiste già, infatti, un portico, quello di Attalo [Stoà di Attalo, metà del II secolo a.C.] -il museo dell'Agorà- anch'esso di età ellenistica. Un secondo portico press'a poco dello stesso periodo sarebbe, diversamente dall'Agorà, molto spettacolare, ma costituirebbe, nello stesso tempo, la negazione di una topografia storica, per me più importante: quella del periodo dell'Assemblea, della democrazia. Non è solo lo sguardo che permette di contemplare la città attraverso l'Agorà e di comprendere la città, ma anche il fatto che le vestigia, le fondazioni dell'Agorà sono poverissime, non spettacolari, sono tuttavia di maggiore importanza rispetto a un portico ellenistico, di cui pure conosciamo tutti i "pezzi", e che possiamo ricostruire. Allora, è una scelta ideologica quella che si profila, una scelta storica e politica.

LM: Questa scelta si compie prima o con l'intervento dell'architetto?

YT: Penso con, perché la topografia storica è anche cio' che ci consente di leggere realmente il sito. Qui siamo ricondotti ad un'altra tematica: quella del paesaggio, indipendentemente dalle antichità.
Se guardo questo sito come paesaggio, ho delle colline che sono leggibili, e ciò ha a che fare con la permanenza del paesaggio.
Questa permanenza è costituita dalle tracce. Io posso "abbellirle", renderle più o meno forti -in termini di paesaggio e di architettura- ma cercherò anzitutto di lasciarle leggibili. Si tratterà, dunque, di un'architettura costruita da "rendere" con un'architettura simile, d'allusione, attraverso l'insediamento (o l'installazione) o, al contrario, attraverso la cancellazione, la sottrazione dell'insediamento.
Ma li' si tratterà, ancora, di lavorare "con"... Lì penso si tratti di argomenti d'architetto, poiché il problema è la ricostituzione di uno "sguardo", quello di Pausania, o quello di Aristofane: si tratta, cioè, di immaginare un paesaggio a partire dal testo, senza tuttavia impedire al testo di essere immaginato dal momento che vi ho costruito qualcosa.
Il paesaggio diviene il supporto del testo, esattamente come il testo diviene una sorta di racconto del paesaggio: proprio come in un'opera teatrale, in cui può aversi una messa in scena a partire dallo stesso testo e, nello stesso tempo, più interpretazioni di questo testo.
Nel mio intervento nell'Agorà di Atene, nell'edificio che ho realizzato, ho "cancellato" diverse epoche e anche diversi testi, essendo il testo più significativo quello precedente le costruzioni ellenistiche.
Farei certamente un discorso del tutto diverso esaminando un diverso sito archeologico; tuttavia come principio, come riflessione, come tendenza operativa, siamo sempre all'interno dell'interrogativo che mi hai posto, tra l'approccio teorico e l'operativo. Il mio interesse è proprio lì: non in una teoria astratta sul modo in cui io farei lo spazio, da una parte, e una operatività concreta, dall'altra, intesa quale semplice risposta, ma è piuttosto il rapporto con il testo ad essere in gioco.
In quel momento, mi trovo all'interno di una interpretazione, non di un'ambientazione, di un "décor", ma in una situazione completamente diversa: prossima all'interpretazione di un'opera teatrale, diciamo il "Prometeo incatenato" (o il "Dom Juan" di Molière o, ancora, il "Don Giovanni" di Mozart). È un problema d'interpretazione, dunque, che non coincide però col lavoro dell'attore, bensì con quello del regista prima di scegliere i suoi attori.

LM: L'interpretazione di un testo proposta da un regista, quindi... Ma questa ermeneutica del sito da parte dell'architetto si situa, a sua volta, in una mentalità, in una cultura, più o meno diffusa?

YT: Certamente. È qui che si pongono i limiti disciplinari, vale a dire laddove l'architetto deve saper diventare "più realista del re". Non imporre, allora, la "sua" interpretazione, ma cercare di penetrare il testo sotto i suoi occhi, comprendere il discorso dello storico (storico che, di solito, è assente dal sito archeologico, ma che mi piacerebbe partecipasse con l'archeologo al confronto e al dibattito).
Abbiamo, in conclusione, tutta una serie di attori che lavorano a questo "testo-sito" -gli storici, gli archeologi, gli architetti, gli urbanisti, i tecnici della città, gli ingegneri, etc.- quindi un insieme di interpretazioni, un insieme di saperi situati tra la teoria e l'operatività. Ma abbiamo anche altri soggetti: gli attori istituzionali, con le strategie dei ministeri (dell'Urbanistica, dell'Equipement, della Cultura); il Comune; gli attori economici (i commercianti, gli artigiani, le agenzie di viaggio, etc.), e tutto ciò ha una sua influenza su delle questioni di ordine pratico (come, ad esempio, la circolazione, il turismo, etc.). A questo aggiungerei, poi, le strategie dei percorsi degli abitanti, dei turisti, delle persone che sono nella città, strategie spessissimo implicite.
(3)
Esiste allora un insieme di strategie, ma se pensiamo ad un consenso a priori su tali strategie, non riusciremo mai a costituirlo, perché bareremo inevitabilmente, seguendo della pratiche molto democratiche, consultando tutti, certo, ma alla fine colui che avrà il vero potere sarà il politico, che dirà "ecco come bisogna fare". O sarà l'archeologo, nella nostra situazione, e non mi riferisco solo alla Grecia...
Al contrario, se parliamo dell'idea di conflitto, dobbiamo lasciare che questo conflitto si esprima: dobbiamo vedere quali sono i territori, fisici ed intellettuali, dove hanno luogo questi conflitti. A quel punto si arriverà, probabilmente, a ridefinire delle nuove strategie. Penso che, in fondo, è necessaria proprio una ridefinizione delle strategie, piuttosto di accontentare tutti, ciò che sarebbe comunque impossibile. Bisognerà, alla fine, definire le strategie per le strategie e attraverso le strategie.

Parigi, maggio 2000






Luigi Manzione, architetto, insegna all'Ecole d'architecture di Parigi-La Villette (corso Ville et banlieue). Prepara una tesi di dottorato in Urbanisme et aménagement presso l'Università di Paris VIII-Saint Denis. Ha in corso ricerche sui temi dell'urbanistica e della storia della città, in particolare sul rapporto città-periferia; sulla teoria del progetto urbano in Italia e in Francia tra gli anni '20 e '40; sulle trasformazioni del paesaggio della periferia europea. Si interessa, inoltre, di arte contemporanea e di fotografia.












note

(1) Yannis Tsiomis parla del progetto archeologico come "lavoro di anticipazione del passato" nel saggio "Pour une archéologie de demain", Urbanisme, n° 303, 1998, dove scrive: "(...) l'archeologia è un lavoro di anticipazione del passato, non un lavoro sul passato, l'urbanistica, il disegno della città, il progetto urbano non sono un lavoro di progetto sull'avvenire" (p. 85).
(2) Yannis Tsiomis scrive della "lezione" degli architetti barocchi dei Guarani in Ville-cité. Des patrimoines européens, cit.
(3) Yannis Tsiomis allude qui, credo, alle strategie implicite di cui Michel De Certeau ha parlato nell'Invention du quotidien 1.Arts de faire, Parigi, 1980 (Gallimard, 1990), di cui vorrei tradurre un passaggio illuminante a proposito del "'testo' urbano che [i 'praticanti ordinari della città'] scrivono senza poterlo leggere": "Tutto accade come se un accecamento caratterizzasse le pratiche organizzatrici della città abitata. Le reti di queste scritture avanzanti e incrociate compongono una storia multipla, senza autore né spettatore, formata secondo frammenti di traiettorie ed alterazioni di spazi: in rapporto alle rappresentazioni, essa rimane quotidianamente, indefinitamente, altra. (...) Queste pratiche dello spazio rimandano a una forma specifica di operazioni (delle 'maniere di fare'), ad 'un'altra spazialità' (una esperienza 'antropologica', poetica e mitica dello spazio) e a un'orbita opaca e cieca della città abitata. Una città transumante, o metaforica, s'insinua cosi' nel testo chiaro della città pianificata e leggibile" (p. 141-142).
Archeologia e città: la trasgressione dei limiti

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