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La giovane architettura italiana all'incontro di Milano

di Luigi Prestinenza Puglisi

 

Si è svolto dal 28 al 30 settembre 2000 a Milano il programma di "Stanze all'Aperto. Dialoghi per la nuova architettura italiana. Temi, idee, progetti e pratica professionale" realizzato dal locale Ordine degli Architetti in collaborazione con la Galleria AAM. Come memoria dell'evento, Arch'it pubblica una presentazione di Carlo Besana ed un'approfondimento di Luigi Prestinenza Puglisi dedicato alla giovane architettura italiana.



[24oct2000]
Può avere qualche senso parlare ancora di una giovane architettura italiana, quando gli architetti si laureano a trenta anni e costruiscono pochissimo sino a oltre i quaranta? E quando l'annuario dell'architettura italiana edito dalla Electa, per poter raccogliere realizzazioni pubblicabili, arriva a prolungare la gioventù sino ai cinquanta? E poi, a che età si è giovani? A venti, a trenta, a quaranta? E ha senso classificare l'architettura per fasce generazionali, avvalorando l'ipotesi -che però è tutta da dimostrare- che si può essere geniali a trenta e rimbambiti a sessanta? E, infine, il gioco delle età in architettura non è un espediente retorico e stantio per tentare di trovare a tutti i costi, all'interno della cronaca, novità che non ci sono o sono in fin dei conti insignificanti?

Forse. Ma certo l'incontro di Milano qualche dubbio ce lo pone. Anche perché, per una serie di fortunate circostanze, è venuto subito dopo un'altra due giorni di confronto tra trentenni e quarantenni ospitato a Venezia, ai giardini della Biennale. Cioè all'interno di una manifestazione che, la si giudichi come si vuole, certo segna l'atto di morte di una generazione di cinquantenni e ultracinquantenni che avevano dominato lo scenario architettonico della cultura italiana degli ultimi venti anni con la loro formazione accademica, le loro tettoniche, gli specifici disciplinari. Assenti, ma presenti nel pensiero di tutti, i defunti erano là. Li potevi evocare uno per uno: buoni o cattivi maestri che fossero stati. 

A cosa è dovuto questo capovolgimento di orizzonti? Tre fattori emergono, ma altri se ne potrebbero indicare. Sono i computer, i multimedia e la nuova cultura informativa che hanno messo fine alla retorica del segno ineffabile del disegno; sono le esperienze di lavoro e di studio all'estero che hanno permesso di scrollarci di dosso l'opprimente incombenza della tradizione e un deprimente provincialismo; e, infine, una nuova libertà mentale, stimolata da un mondo più veloce e informato, che ci ha fatto riscoprire i valori dello sperimentalismo, della ricerca, dell'avanguardia.

I quarantenni, ma soprattutto i trentenni e i ventenni (c'erano anche ventenni sia a Venezia che a Milano) si può dire che hanno vissuto una mutazione. Come le mosche dopo il DDT, hanno dovuto, per sopravvivere, superare una crisi del mondo delle costruzioni e della cultura architettonica senza precedenti, riorganizzare il loro codice genetico. Ignorare questo fenomeno o tentare di omologarlo a un semplice fatto di moda, sarebbe, allora, cadere in un errore di prospettiva storica grave, anzi gravissimo. Per carità, però, non si travisi. Non tutti i giovani abbracciano l'avanguardia. Il digitale non trionfa come paventano coloro che lo temono. Il decostruttivismo più deteriore, quello cioè fatto di linee a tutti i costi sghembe e piani inutilmente inclinati, è decisamente in ritirata. Anzi è morto.

Emergono, invece, tre linee di tendenza. La prima e forse più interessante è per una architettura realizzata con il minimo dei mezzi, materiali e espressivi. Al limite, evitando di costruire per lavorare, invece, su eventi, situazioni, stati mentali, punti di vista degli utenti. E' il metodo di lavoro che è stato dei situazionisti e di numerosi movimenti di avanguardia attivi tra gli anni Sessanta e Settanta. Vi si ispirano Stalker e Sciatto a Roma, Cliostraat a Torino, gli A12 a Genova. Mostrano che è fuorviante pensare di realizzare una città migliore giocando -come fanno tanti architetti- su raffinati formalismi. Centrale non è la forma dei manufatti edilizi ma i luoghi: nel loro uso e nella loro percezione. L'architettura non può evitare, quindi, di porsi il problema della gestione dello spazio, dei rapporti tra gli abitanti, della coesistenza delle diverse culture e etnie. Da qui gli happening urbani, la violazione dei confini, l'occupazione di aree dismesse o degradate, l'irrompere di nuovi soggetti all'interno dello spazio pubblico, la rilettura e riscoperta della città.

Il secondo approccio tende alla ricerca digitale per concretizzare, con forme visibili, ma sempre dinamiche e fluide, i flussi comunicativi che ci circondano. Quindi abitazioni mutevoli, grandi schermi, membrane e apparecchiature riceradiotrasmittenti. Ma soprattutto, come avviene con Mao, IaN+ e i brillanti ragazzi della rivista 2a+p (un miracolo editoriale inventato da studenti poco più che ventenni) una perseverante volontà a superare i labili confini che separano l'artificiale dal naturale e l'immateriale dal materiale, cioè la pura informazione e il mentale dal corporeo e dalla concretezza della sostanza edilizia.

Il terzo gruppo di architetti è attento alle occasioni professionali, dialoga con il moderno, cerca mediazioni tra le costrizioni materiali -una committenza formalmente illetterata, una industria edilizia arretrata- e le ragioni della ricerca artistica. Lo fa giocando con i materiali tradizionali, la luce e la storia. Ma a differenza degli ultracinquantenni non ha nostalgie, non rincorre archetipi, si muove in direzione di uno sperimentalismo cauto ma non inibito. Fidone, per esempio interviene con una sensibilità degna di Albini e di Gardella all'interno di contesti storici molto delicati. Cendron propone un High Touch, di alto valore spaziale, contrapposto all' High Tech.

Concludiamo. Possiamo noi italiani dire di essere usciti dal buco nero nel quale più di un critico americano ci vedeva sprofondati? La risposta è prudentemente affermativa, se vogliamo confidare nella potenzialità di energia creativa che queste manifestazioni mettono in luce. La risposta è invece negativa se vogliamo comparare la nostra con la produzione di realtà nazionali evolute. Siamo lontani dalla concreta e straripante vitalità olandese, giapponese o anche spagnola. Per raggiungerli bisogna, e non di poco, allungare il passo.

Luigi Prestinenza Puglisi
L.Prestinenza@agora.stm.it  





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