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ma0/emmeazero

 



Aprile 2001: fasi preparatorie per Europan6 (1), la prima cosa che scriviamo è questa lista: 

NO LAND ART (FRANCESE)
NO TIPOLOGICA (OLANDESE)
NO ECOLOGICA (TEDESCA)
NO ONIRICA (SURREALISTA)
NO LUDICA (SITUAZIONISTA)
NO FRATTALE (METABOLISTA)

[30jun2002]
Poi nonostante tutto proviamo uno di questi approcci, guardacaso quello ludico: apriamo a caso il vocabolario, puntando a occhi chiusi una parola: è "guida". Apriamo un elenco "guida telefonica" e con lo stesso procedimento di cui sopra ci imbattiamo in Stallone Giovanna (0678840535) che fare? La chiamiamo, e la prima cosa che le viene da dire è "sto mangiando". Chiamiamo anche Giovanna Ripepi, e lei invece ci dice: "eccoti confusa e aggressiva davanti allo specchio".

La sera, poi, ci ritroviamo tutti a mangiare, dal giapponese, seduti ad una grande tavolata di fronte ad un lungo specchio… e allegramente continuiamo: no primordiale, no computer, no pop no trash no kitsch eccetera eccetera. È indubbiamente un approccio ingenuo ad un progetto; questa sequenza di no ci ricorda una patologia che Oliver Sacks definisce agnosia visiva:

"E questo che cos'è?" chiesi sollevando un guanto.
"Una superficie continua, avvolta su se stessa. Dotata…" esitò "di cinque estensioni cave, se così si può dire".
In seguito se lo infilò per caso "Dio mio!" esclamò "E' un guanto!". La cosa ricordava Lanuti, un paziente di Kurt Goldstein, che riusciva a riconoscere gli oggetti solo se cercava di usarli al loro scopo".


Forse siamo come il signor P. incapaci di dare un significato alle forme, e dobbiamo innanzitutto indossarle, provare a dimenticare a cosa serve una cosa, esserci dentro per un po', per poi tornare a poter rappresentare una forma.

È un atto di smemoratezza volontaria, uno stato di minorità, che poi sembra essere una malattia cronica del XX secolo, che ha un enorme potere liberatorio: il vuoto in cui lascia svanire il significato è territorio vergine per nuove esplorazioni della forma, del suo uso, del suo significato e questo potere, questa libertà è duplice: retroattivo nel detournare l'esistente, nel sovvertirne l'uso e la percezione, ma anche progettuale nel produrre nuove forme, nuovi spazi, relazioni. E ancora: questa libertà implica la ricerca di un valore, di un principio etico della forma che appunto si basa sul valore esperenziale, percettivo, relazionale; questa libertà è il primo atto nel costruire il pretesto per le nostre architetture.

NOTA:

(1). Living Carpet, progetto di concorso per Europan 6 a Porto, Portogallo, terzo premio; ma0 + Francesco Careri, Romolo Ottaviani, Pia Livia Di Tardo
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> LIVING CARPET


Ci diciamo che "l'architettura (…) sembra in questi ultimi anni divenuta casuale ed interessante solo per i pretesti che assume di volta in volta per la sua validità." E che ad esempio, "la teoria delle sette invarianti sul piano dell'architettura equivale a qualsiasi altra teoria formalistica, con in più una mistificante pretesa di progressività, risolta in termini linguistici e psicologici; una sorta di misterioso ‘spazio' democratico dove il concetto di libertà non è in funzione dell'uso, ma della percezione… Di regola l'accademia recupera e sistematizza la vecchia avanguardia salvandone il contenuto linguistico, mai il contenuto liberante. Liberante non è avere la camera coi piani sfalsati e il quadro in alto a destra…".

Neanche noi abbiamo questa fiducia nella forma: aveva ragione Hugo a dire che l'architettura come linguaggio universale è stata uccisa dalla stampa, e oggi forse dalla rete. Questo ucciderà quello. Questo media ucciderà quello.

Attualità di una forma, ma non universalità di una architettura, forse perché vediamo "le cose in una molteplicità di relazioni, non come oggetti isolati"; "Spentosi il sogno di un sapere che si identifichi immediatamente con un potere, rimane la lotta costante tra l'analisi e i suoi oggetti, la loro irriducibile tensione."

400.000 o più cinesi costruiscono un diga sul fiume giallo (in primo piano: villette architettoniche - I° premio). 

E allora cosa rimane dell'architettura che poi, dopotutto produce forma? Come uscire da questa agnosia, dall'impossibilità di riconoscere ad una forma, un significato oltre a quello ideologico? Se vogliamo comunque alzare pareti, definire spazi, diventare agenti della trasformazione urbana, dobbiamo comunque operare una scelta, ad un certo punto riconoscere l'opportunità di una forma piuttosto di un'altra, di tracciare un contorno agli spazi.

"Figlia: Papà perché le cose hanno contorni?
Padre: Davvero? Non so. Di quali cose parli?
F.: Sì, quando disegno delle cose, perché hanno i contorni?
P.: Be', e le cose di un altro tipo… un gregge di pecore? O una conversazione? Queste cose hanno contorni?
F.: Non dire sciocchezze. Non si può disegnare una conversazione. Dico Le cose.
P.: Sì… stavo solo cercando di capire cosa volevi dire. Vuoi dire: "Perché quando disegniamo le cose diamo loro dei contorni?", oppure vuoi dire che le cose hanno dei contorni, che noi le disegniamo oppure no?".

Riprendiamo dunque il vocabolario, seguendo l'analogia di Hugo tra architettura e mezzi di comunicazione, cercando questa volta, non a caso, media. Ma venti anni fa, quando veniva stampato il nostro vocabolario di italiano del liceo, questa parola ancora non faceva parte del linguaggio comune. Sul vocabolario di inglese è al singolare medio, punto di mezzo, e ambiente, habitat, su quello di latino medium è il mezzo, il centro, luogo accessibile, a disposizione, visibile, pubblico, ma anche via di mezzo, compromesso. È vero, ogni media, anche quelli tecnologici, sono nel mezzo, come lo è ogni strumento che mette in relazione due o più territori separati.

Scartando l'idea che l'architettura sia un mezzo di comunicazione linguistico rimane dunque il fatto che essa è, basicamente, costruire pareti, limiti, palesarsi come medium tra territori diversi, un dentro e un fuori, un privato e un pubblico, un immateriale e un materiale, è dunque arte dell'essere in mezzo, di essere limite. Se dunque stiamo parlando di uno strumento di separazione e di relazione tra spazi e territori differenti allora dobbiamo indagare in che modo la forma di un progetto possa produrre lungo quel limite un evento, un'esperienza, uno scambio. Gli strumenti a nostra disposizione sono tutti quelli che ci permetteranno di allargare quella linea, "di guardare al confine come ad uno spazio, e non alla "linea che lo istituisce".

Oscar Newman scriveva, in un testo fondamentale sui rapporti tra forma dell'architettura e spazi di difesa, che "qualcuno potrebbe leggere che un progetto d'architettura possa avere un effetto causale sulle interazioni sociali. L'architettura opera più nel campo della "influenza" che del "controllo", a ricordare che l'architettura allo stesso tempo è ciò che sta sul limite tra diversi territori, nel mezzo di innumerevoli dinamiche, prima fra tutte quella tra i nostri desideri e la realtà costruita, oltre ad altre molto più potenti rispetto alle quali l'architettura è veramente "come la Coca-Cola"…

(…) Due settimane dopo il progetto è in chiusura, la forma che è uscita fuori un po' ci spaventa, vorremmo avere più tempo per limarla e riportarla nell'alveo della correttezza se non dell'eleganza disciplinare, ma il dispositivo che interviene sui confini tra spazio pubblico e privato è evidente, e le immagini su cui lavoriamo possono solo simulare un'architettura che sarà la risultante di molteplici dinamiche; una fotografia di una collina in Iran ricoperta di tappeti ad asciugare sembra aspettarci tra le pagine di un Photo degli anni '70 a raccontare con altrettanta evidenza il senso del dispositivo stesso, le fotografie di altri luoghi ci confortano nell'idea che quello stesso dispositivo è già intervenuto a strutturare altri spazi urbani. Le analogie e i rimandi si moltiplicano nei mesi successivi, e quando al Forum di Europan ci chiedono se veramente crediamo che quel progetto, quel dispositivo porterebbero a quell'uso degli spazi, ovvero se il nostro lavoro sul limite avrebbe portato veramente alla creazione di nuovi spazi di relazione, non possiamo che rimandare ad un'altra storia…

Un amico che lavora nella cooperazione raccontava una volta di in un villaggio di un qualche paese in via di sviluppo dove un tempo, prima che il denaro e la tecnologia dei paesi industrializzati realizzassero un efficiente rete idraulica, gli abitanti erano costretti ogni giorno a fare provviste d'acqua in fondo ad una gola raggiungibile dopo una lunga e faticosa camminata. Contemporaneamente all'arrivo dell'acqua corrente nelle case si era registrato l'inizio di un inesorabile declino della natalità. Pura coincidenza?

Apparentemente no: infatti solitamente chi si occupava di fare i rifornimenti di acqua erano le giovani delle famiglie che recandosi in fondo alla suddetta gola avevano la possibilità di incontri più o meno casuali con i giovani del villaggio che vi si recavano per la caccia. Scomparsa l'esigenza della provvista d'acqua scomparivano così anche le occasioni per incontri amorosi che, evidentemente, erano causa della fertilità della popolazione di quel remoto villaggio.

È la vecchia storia del battito d'ali della farfalla e del ciclone, ristretta nei limiti di un villaggio, di fenomeni che stabiliscono tra loro relazioni imprevedibili. È un aspetto della complessità di relazioni causali in cui si inserisce ogni azione, progetto o modificazione del territorio: è architettura più di ogni altra cosa. È la storia di un'altra città sottile, come Isaura, il cui "perimetro verdeggiante ripete quello delle rive buie del lago sepolto, un paesaggio invisibile condiziona quello visibile".
Critical Borders: ma0/emmeazero con (in ordine di apparizione): [1] Liberamente ricomposto da: Oliver Sacks, "L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello", Adelphi 1986, [2] Luigi Moretti, "Ricerche d'architettura", in "Spazio", 4 gen/feb 1951, p. 69, [3] Franco Raggi "Templi e roulottes", Casabella 408/1975, [4] Robert Smithson, "Fredercik Law Olmsted and the dialectical landscape", 1973, [5] E. Sottsass jr., Casabella 408/1975, [6] G. Bateson, "Verso un'ecologia della mente", Adelphi, Milano, 1985, p. 62 citato in P. Zanini, "Significati del confine", Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 27, [7] P. Zanini, op. cit., p. XVII, [8] Oscar Newman, "Defensible Space, Crime Prevention Through Urban Design" Macmillan, New York 1972, [9] "Programma elementare di urbanismo unitario", in "Internazionale Situazionista" 6, 1961, [10] Italo Calvino "Le città invisibili", Einaudi.
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