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Controparte politica e realtà del mercato

Massimo Ilardi
Massimo Ilardi interviene sul tema proposto da Pier Vittorio Aureli, Andrea Costa, Ilhyun Kim, Giuseppe Mantia, Luka Skansi, nell'articolo Città e Architettura. Note a margine della crisi pubblicato nei giorni scorsi su queste stesse pagine.




Il progetto come controparte significativa della realtà: così affermano all'inizio del loro intervento Aureli, Costa, Kim, Mantia e Skansi. Il punto di partenza è di quelli forti, di quelli che ti spingono ad andare oltre perché capisci subito che finalmente, in questo mondo dell'inciucio perenne, qualcuno sta prendendo posizione, vuole essere parte, dichiara apertamente il suo punto di vista. E se va sottolineato che tutto lo scritto fino alla fine non tradirà mai questa impostazione iniziale, va però anche detto che qualcosa blocca gli autori in mezzo al guado, non gli permette quel salto decisivo per approdare alla sponda opposta. E questo qualcosa è proprio in quella affermazione iniziale che manca di due specificazioni essenziali e che stranamente vengono sempre ignorate nel corso dello scritto: controparte politica e realtà del mercato. A meno che gli autori non intendano, come credo di capire in alcuni passaggi del loro discorso, che l'essere controparte vuol dire produrre teoria architettonica come dispositivo critico nei confronti di una realtà che gli stessi autori indicano in generici fenomeni urbani non meglio specificati. Se così fosse però il rischio che corrono diventa lo stesso che vogliono combattere: la dispersione di una teoria del progetto e il suo dissolvimento dentro quelle categorie universali, neutre e unificanti che sono la 'città' e l''architettura'.

[21dec2002]
Assumersi il ruolo di controparte vuol dire innanzitutto indicare chiaramente il nemico: e se il nemico dichiarato del progetto è la realtà allora le va dato un nome perché nella metropoli contemporanea le realtà sono tante quanti sono i 'fenomeni urbani'. Ma c'è una realtà che fa da contenitore a tutte le altre, ed è il mercato. A questo punto si può dire che il progetto diventa la controparte significativa del mercato. E, dunque, il 'progetto è politico' (come abbiamo scritto sull'ultimo numero di 'Gomorra') proprio per quello che affermano i nostri autori: "il progetto si concentra alla fine su un sito specifico e circoscritto [...] e non si disperde su tutto il territorio". In altre parole, produce un contesto materialmente determinato, traccia confini e provoca differenze nell'uniformità dello spazio globale del mercato. Solo così "l'architettura può divenire un fenomeno rilevante e 'concreto'".

Infine un'ultima considerazione. Sono d'accordo con gli autori quando rivendicano con forza l'autonomia dell'architettura e la relativa domanda di progetto; e sono anche d'accordo quando affermano che compito del progetto non è quello di "rappresentare, o peggio ancora di risolvere, le complessità e le contraddizioni del mondo." Se così fosse, saremmo di nuovo davanti al tentativo di resuscitare un progetto totale con il disegno strategico di una nuova società e di un nuovo Stato. Ma da qui ad affermare che il progetto "è un dispositivo formale autonomo, coscientemente costruito e radicalmente differente dalla realtà esistente" il passo è lungo e rischia di farlo precipitare nell'astrattezza e nell'impotenza. Il progetto di architettura, invece, pur nella sua autonomia, non può non definire il suo percorso dentro il 'politico' metropolitano, che è violenza, disordine, sconnessione. Non siamo più nella città del moderno dove l'ordine dei discorsi costruiva le relazioni sociali. Oggi l'ordine è impossibile perché il conflitto è costitutivo dell'esperienza metropolitana ed è irrisolvibile. Il progetto, dunque, non può essere un dispositivo creato dalla ragione una volta per tutte, ma un processo che ha in sé costitutivamente il concreto non razionale e, di conseguenza, la possibilità sempre presente della distruzione delle sue premesse e del suo fondamento.

Massimo Ilardi
ilardie@rdn.it

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