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La realtą ha bisogno dell'architettura

Luca Molinari
Con questo intervento Luca Molinari, responsabile scientifico del settore architettura della Triennale di Milano, risponde sul tema proposto da Pier Vittorio Aureli, Andrea Costa, Ilhyun Kim, Giuseppe Mantia, Luka Skansi, nell'articolo Cittą e Architettura. Note a margine della crisi pubblicato nei giorni scorsi su ARCH'IT.




Fa un certo effetto vedere citati i nomi di Vittorio Gregotti, Giancarlo De Carlo, Gino Valle, Gianugo Polesello, Giorgio Grassi, Carlo Aymonino e Aldo Rossi come autori "oramai dimenticati o abbandonati" dal dibattito attuale, se non altro per la loro forte presenza accademica (tranne per De Carlo e Rossi) e la non indifferente esposizione mediatica.
Ma è indubbio che molti di questi autori e molto di quello che scrivono o che hanno pubblicato in passato sembri prematuramente invecchiato sotto le recenti folate digitali, metropolitaniste, regionaliste e dirtyrealiste, come se improvvisamente gli strumenti concettuali elaborati e molti dei sacri testi avessero perso valore e capacità interpretativa della realtà che ci circonda e in cui l'architetto, volente o nolente, si trova ad operare.
Forse un effetto di fuga della realtà dall'università dove i Maestri hanno operato?
Forse un invecchiamento precoce degli strumenti concettuali, politici ed ideologici che li presupponevano?
O forse un cambiamento di prospettiva culturale dei fruitori (ovvero studenti ed architetti)?
Si tratta solo di superficialità e perfidia delle nuove generazioni o ci sono ragioni più consistenti?
Ma non sta a me difendere né i Maestri obliati (ci penseranno le vestali di turno) né i metropolitanisti interdisciplinari (sono bravi a farlo da soli) o i regionalisti d'assalto (basterà la prossima mostra).

[26dec2002]
Interessa invece il tono di fondo dei due interventi, molto diversi ma altrettanto importanti, di Ciorra prima e del quintetto Aureli, Costa, Kim, Mantia e Skansi dopo, ovvero basta disperdere energie inutilmente, basta parlarsi debolmente addosso, adesso è venuto il tempo per una riflessione polifonica ed insieme radicale sulla condizione dell'architettura italiana, sulla sua debolezza concettuale, sull'assenza apparente di una produzione teorica, sulla fragilità di una critica che constata la realtà invece di interpretarla.
Ma è proprio necessario partire unicamente dai sacri testi dei Maestri "abbandonati" e dalle loro "biografie scientifiche"?

Perché, invece, non riflettere contemporaneamente sulle ragioni del fallimento della cultura Radicale in Italia proprio in contemporanea all'affermarsi politico e culturale delle pietre miliari della nostra cultura architettonica post 1965 (ovvero Vittorio Gregotti "Il territorio dell'architettura, 1966; Aldo Rossi "L'architettura della città", 1966; Manfredo Tafuri, "Teorie e storia dell'architettura, 1968)?
Perché non considerare, visto che si pone giustamente al centro "l'architettura a mezzo di architettura", le differenti esperienze di contestualità colta (da Urbino a Matera, da Terni a Pisa, da Udine a Ivrea, ovvero, vedi: De Carlo, Quaroni, Aymonino, Ridolfi, Carmassi, Valle, Figini e Pollini, Gabetti e Isola) che hanno lavorato su di un rapporto stretto tra progetto, urbano e paesaggio producendo le uniche vere importanti mediazioni tra cultura del Moderno e lettura operativa dei contesti storici?
Oppure, per contro, perché non domandarsi cosa è significato per la cultura architettonica italiana il ripiegarsi sulle preesistenze ambientali affossando, di fatto, molte delle potenziali spinte concettuali e linguistiche che sarebbero potute nascere da una strada di modernità più radicale?

Si potrebbe contestare che queste sono più domande da storico che da progettista-teorico, ma vogliamo ancora continuare a tenere in piedi la separazione tafuriana dei saperi oppure vedere nella riflessione storico critica uno strumento fondamentale per individuare ragioni e contenuti essenziali a ripartire nella costruzione di nuove teorie del progetto?
Sta di fatto che non basta più dire che la cultura del progetto in Italia versa in uno stato di profonda crisi, anche perché la situazione negli ultimi dieci anni si è evoluta in termini culturalmente e figurativamente molto complessi in cui convivono punte alte e molto basse di riflessione progettuale e teorica ed in cui anche i diversi contesti di riferimento sono profondamente cambiati.
Non basta fare risorgere le biografie scientifiche dei nostri Maestri per individuare un punto zero da cui ripartire, anche perché molte di quelle storie e di quelle elaborazioni teoriche sono la naturale evoluzione di percorsi politici e ideologici che trovavano nella cultura marxista, idealista e strutturalista un naturale sfondo teorico. Quando Rossi, Gregotti, Polesello, Aymonino, ma anche Meda, Bonfanti, Scolari e Purini (solo per fare altri nomi di ascendenza veneziana) lavorano sui testi ed i progetti che noi tutti conosciamo hanno in mente un preciso obbiettivo che prima di essere progettuale è politico ed ideologico. La città ed il territorio che loro guardano e da cui sono condizionati, ovvero l'Italia e l'Europa dei primissimi anni Sessanta, quella per intendersi che il boom economico ed edilizio stava appena cominciando a somatizzarle, sono molto lontani dai contesti che noi siamo costretti ad affrontare.
Ma per tagliare la testa al toro, per uscire dalle secche dello sprawl che tutto avvolge, si dice che "il progetto si concentra alla fine su un sito specifico e circoscritto", che "non tutto l'ambiente costruito deve essere considerato dallo spettro dell'esperienza architettonica" e che "la realtà non ha bisogno dell'architettura".

Ammetto tutto il fascino molto intellettualistico e scolastico che queste frasi possono suscitare provocando gridolini di gioia a partire dal Leon Battista Alberti passando per Lodoli fino ad arrivare ai nostri Rossi e Gregotti (dubito che De Carlo e Valle possano sottoscrivere le stesse frasi).

Credo anche io profondamente che l'architetto non sia il deus ex machina inviato nel mondo per salvare la realtà in cui opera, ma non sono per questo convinto che la realtà non abbia bisogno di architettura, anzi di buona architettura.
E l'autonomia dalla realtà che viene rimarcata con molta forza assume un significato molto pericoloso perché potrebbe essere presa per l'ennesima volta come l'ennesima fuga dalla realtà dell'architettura italiana. Vogliamo ancora tornare al triste vanto della supremazia dell'architettura disegnata su quella costruita tanto malinconicamente vantata da alcuni Maestri dei nostri ingloriosi anni Ottanta? Oppure cercare una autonomia del pensiero progettuale che vuol dire anche, ma non esclusivamente, riflessione sugli strumenti e i contenuti della teoria del progetto oggi?
La dimensione oppositiva e politica dei progetti degli anni Sessanta di Rossi, Gregotti, Polesello e Aymonino è frutto di una presa di posizione ideologica che innanzitutto parte dalla realtà in cui gli stessi autori operavano e la massimalizzazione dei loro interventi, teorici e progettuali, deriva da una necessità tipica della radicalità modernista di affermare il contenuto razionale del portato progettuale su di una realtà che continuamente ha rifiutato ogni possibile esperienza di modernità.

È tanto che l'architettura italiana non riesce a parlare alla società.
E allora cosa facciamo, ci rinchiudiamo nella torre d'avorio sempre più piccola a causa dei tagli di Tremonti, e costruiamo le nostre teorie indifferenti al mondo?
Da che presupposti culturali, politici, ideologici nuovi può ripartire una nuova teoria del progetto?
Con che discipline dialogare per avviare una nuova fase di riflessione teorica?
Da che contenuti interni al progetto ripartire?
La condizione di multidisciplinarietà è propria del progetto e della sua cultura e non deve necessariamente essere considerata superficiale o deviante, ma per questo basta leggere la bibliografia di riferimento di "Architettura della città" per capirlo.
La curiosità, il dialogo, la laicità dello sguardo e dei contenuti, la capacità di affrontare il senso e i nodi della crisi, la visione del progetto come chiave per affermare all'interno della realtà nuovi contenuti ideologici, sociali e culturali dovrebbero essere alcuni degli elementi da cui ripartire.

La generosità, che vuol dire mettersi in gioco ed alzare il tono della discussione e delle riflessioni, è un motore essenziale per riprendere a camminare e a discutere ed è per questo che è fondamentale, oggi, ritrovarsi per discutere ed insieme ritrovare il tempo per studiare, riflettere e scrivere.

Luca Molinari
luca.molinari@triennale.it

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