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FORME E OMBRE/2

Luigi Prestinenza Puglisi
Un'accelerazione durata dieci anni: 1905-1914 | Rivolgimenti, stravolgimenti: 1914-1918 | Commistione dei linguaggi: 1918-1925 | Maturazione e crisi dei linguaggi: 1925-1933
1. La guerra meccanica | 2. Purovisibilità e formalismi | 3. Tractatus | 4. Il linguaggio e la forma
5. Malevic, Tatlin e il grado zero della forma | 6. Dada e l'impossibilità di definire l'arte | 7. Theo van Doesburg e De Stijl
8. Il purismo e il ritorno all'ordine
Esce in questi giorni in libreria Forme e ombre. Introduzione all'architettura contemporanea. 1905-1933, di Luigi Prestinenza Puglisi. Pubblicato da Testo & Immagine (collana Controsegni, pp 232, ill., €14,46, ISBN 88-8382-014-2), il volume intende portare il lettore alla riscoperta di alcuni degli episodi che hanno caratterizzato la ricerca progettuale dei primi tre decenni del ventesimo secolo. Il percorso di indagine si pone all'origine delle letture sviluppate da Prestinenza Puglisi con This is Tomorrow e Silenziose avanguardie, dedicate agli anni a noi più vicini. Per gentile concessione dell'autore, che in concomitanza con l'uscita del libro inaugura il proprio personale website, ARCH'IT propone ai lettori il testo integrale dell'opera, qui pubblicato a puntate.



1. La guerra meccanica

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I volontari che vanno al fronte scandendo slogan patriottici hanno tutto il tempo per restarne delusi: il conflitto durerà quattro interminabili anni. Provocherà oltre dieci milioni di morti. Troppi anche per i futuristi, che hanno proclamato la guerra come la sola igiene del mondo e, con Balla, disegnato un vestito antineutrale. Marinetti e Russolo rimangono feriti. Boccioni muore in un incidente; Sant'Elia alla testa della sua pattuglia. Eppure, ancora nel 1917, Russolo compone una danza del cannone-macchina, accompagnata dal grido "Savoia!" della ballerina.

Rumori di cannoni e spari di mitragliatrici risuonano come incubi nelle orecchie degli artisti mandati al fronte. "Scampami dall'esplosione delle bombe", recitano i versi del venticinquenne Alfred Liechtenstein. Pagine dense e cupe scriverà Céline:

Il fuoco se ne è andato, il rumore mi è rimasto a lungo in testa, e poi le braccia e le gambe che tremavano come se qualcuno ti scuotesse da dietro. Avevano l'aria di lasciarmi e poi sono rimasti i miei arti. Nel fumo che pungeva gli occhi ancora per un bel po', l'odore acuto della polvere e dello zolfo ci restava come per uccidere le cimici e le pulci della terra intera.

Mai guerra è stata più inumana, più violenta di questa, e tragico l'errore dei futuristi, che hanno scambiato il ritmo sincopato delle parole in libertà con le raffiche delle mitragliatrici, il rombo dei cannoni e il rumore assordante delle macchine da guerra. Tanto per fare qualche cifra: l'offensiva inglese sulle Somme costa alla sola Gran Bretagna 420.000 soldati, di cui 60.000 soltanto il primo giorno dell'attacco. L'intero conflitto causa loro oltre mezzo milione di morti sotto i trent'anni, per un totale di 800.000. I francesi perdono il 20% degli uomini in età militare e hanno 1.600.000 morti. I tedeschi 1.800.000. Gli italiani 600.000. Gli americani entrano in guerra tardi e ne accumulano 116.000.

Afferma Eric J. Hobsbawm: la maggior parte degli uomini che combattono la prima guerra mondiale, per lo più arruolati con la coscrizione obbligatoria, maturano un convinto odio per la guerra. Grosz, cresciuto in ambienti militari e arruolatosi come volontario, ne è stravolto: "Gli urlarono così a lungo che alla fine trovò il coraggio di rispondere urlando". Il 4 gennaio del 1917 è ricoverato in un orribile ospedale, poi in una casa di cura. Heartfield si ammala e viene congedato per inabilità dal servizio: da oscuro artista commerciale si trasforma in uno dei più pungenti e impegnati critici di sopraffazioni e violenze. Max Beckmann, assegnato a un reparto sanitario sul fronte russo, trasferito poi nelle Fiandre, è congedato con i nervi a pezzi nel giugno del 1915, incapace di sopportare spettacoli così devastanti. Kirchner si trasferisce in Svizzera in preda a un gravissimo esaurimento nervoso. Sarà curato dallo stesso psichiatra che ha in osservazione van de Velde, in crisi di identità per essere belga di nascita e tedesco di adozione. Piscator matura un'avversione per il militarismo tale da caratterizzare tutta la sua successiva produzione teatrale. Otto Dix, mitragliere sul fronte, per non uscire pazzo deforma la realtà ritraendola come un grumo di energia. Moholy-Nagy, ufficiale d'artiglieria sul fronte dell'Isonzo, schizza ritmiche e vorticose linee scure. Mendelsohn esegue in trincea schizzi sublimi di architetture espressioniste, alcune dal fronte russo, ridotte a pochissime linee e tracciate di notte durante le veglie belliche: "I miei schizzi", dirà, "non sono che appunti, contorni di visioni subitanee [...] è di somma importanza fissare queste visioni sulla carta, così come ci balenano nella mente".

Non tutti gli artisti vanno in guerra. Alcuni riescono a sfuggirvi imboscandosi o scappando in paesi lontani o neutrali. Gleizes, Picabia e Duchamp emigrano negli Stati Uniti, i primi due dopo un soggiorno a Barcellona, Mondrian rientra in Olanda, Delaunay in Spagna. Numerosi intellettuali si recano in Svizzera, che in questi anni diventa uno dei centri della cultura europea. A Zurigo, tra gli altri, troviamo Lenin, che abita a pochi passi dal Cabaret Voltaire dove nasce tra il 1916 e il 1917 Dada: scrive i Quaderni filosofici e prepara la rivoluzione bolscevica ma, esasperato dai rumori degli spettacoli di quegli scapestrati giovanotti di mentalità borghese, non esita a chiamare la polizia e denunciare gli schiamazzi notturni. Sempre a Zurigo, Joyce lavora all'Ulisse, scrivendone le pagine più dense.

Le guerre sono incubatori tecnologici. Luogo – come ha notato Marshall McLuhan – di messa a fuoco e di sperimentazione delle potenzialità dei media e del pensiero che ne viene veicolato, siano queste le invenzioni più sofisticate o il più spericolato e dannoso immaginario umano. La Grande Guerra è la prima che coinvolge indistintamente tutta la popolazione. Condotta con armamenti moderni e tecnologie innovative, ne richiede quantità inimmaginabili, con uno sforzo che mette a dura prova gli apparati produttivi delle nazioni coinvolte.

Si persegue il controllo dei cieli grazie alle potenzialità dell'aviazione. Anche se i morti per bombardamenti aerei saranno qualche migliaio, quindi relativamente pochi rispetto alle reali dimensioni del conflitto, il nuovo mezzo avrà un effetto psicologico devastante, coinvolgendo civili e retrovie di solito risparmiati dalle ostilità. "In considerazione delle accuse di barbarie rivolte contro gli attacchi aerei", sarà detto nel 1921, "sarebbe opportuno pensare a salvare le apparenze limitando, formalmente, i bombardamenti agli obiettivi di carattere militare." Segno che così non è stato e, come dimostrerà la seconda guerra mondiale, non sarà.

Dannosissimi anche i sottomarini, ampiamente utilizzati per bloccare i porti e i movimenti delle navi, con gravi conseguenze per i rifornimenti alimentari della popolazione civile.

A contribuire alla perfetta riuscita della guerra meccanica vi sono poi i cannoni a lunga gittata, le mitragliatrici, i gas e le armi chimiche e un'incredibile profusione di mezzi di trasporto terrestre: biciclette, macchine, camion, blindati, treni. Si calcola che in pochi giorni, a partire dal 6 agosto 1914, 11.000 treni trasportano 3.120.000 soldati tedeschi. Sull'altro lato del fronte, 2.000.000 di soldati francesi impiegano 4278 treni.

Se la guerra si muove con gli ingranaggi delle macchine, la si gestisce sui fili elettrici. Sviluppatasi su uno scacchiere geografico gigantesco, produce un gigantesco flusso informativo che si può monitorare solo grazie a una capillare rete di osservatori comunicanti via telefono e via telegrafo. Mente e occhio divergono e lo spazio empirico si dissocia da quello teorico. Il risultato è che i comandi militari abbandonano il fronte, cioè il punto di vista di chi è al centro dell'azione, per seguire i movimenti dell'esercito da luoghi sicuri, tecnologicamente attrezzati, dove convergono dati e informazioni che giungono da punti di vista dislocati.

Nella battaglia della Marna, per esempio, il quartier generale francese è a duecento chilometri e il comando supremo dell'offensiva tedesca è collocato in Lussemburgo. Nasce la guerra tra tecnologie. Mentre i soldati combattono una logorante guerra sul campo, disputandosi a volte pochi metri di territorio, le comunicazioni dei tedeschi con il fronte sono frequentemente interrotte per interferenze provocate dalla lontana Torre Eiffel di Parigi. Nascono triangolazioni decisionali a distanza: notizie di un buco di schieramento vengono raccolte dagli aviatori francesi che le forniscono immediatamente al generale Galliéni il quale, autorizzato via telefono dallo stato maggiore a cambiare i piani, sferra nel punto giusto al momento giusto l'attacco risolutivo.

Trionfo della comunicazione in tempo reale. Ma anche sbandamento e disorientamento a gestire un sistema così veloce. Sul campo di battaglia, i generali non ancora abituati alle nuove tecnologie compiono errori disastrosi, con perdite umane decuplicate rispetto alle guerre tradizionali. Nel campo delle relazioni tra stati, non sono pochi coloro che lamentano gli errori di una diplomazia costretta a ritmi che poco aiutano la riflessione, la ponderazione e la mediazione, utilizzando strumenti nuovi, ultraveloci e ai quali non si è abituati.

È il caso, per esempio, del rapido susseguirsi di telefonate e di telegrammi che precedono la guerra. Tra il luglio e l'agosto del 1914 le consultazioni sono frenetiche. I tempi ristretti impongono comportamenti che vorrebbero essere precauzionali, ma che, di fatto, innestano un'escalation incontrollabile. La logica, tipica del comportamento della macchina, di azioni e reazioni automatiche prende il sopravvento sul buon senso e sulle distese relazioni di parentela tra le grandi famiglie regnanti che hanno sino a quel momento garantito le composizioni dei conflitti. Una mobilitazione parziale ordinata dallo zar, per paura di un'incapacità di risposta in tempi adeguati, è trasformata in mobilitazione generale. Nel giro di pochi giorni si susseguono gli ultimatum, alcuni con tempi di risposta limitati alle dodici ore. Tutti calcolati al minuto per impedire all'avversario di avere buon gioco. E, proprio per questo, generatori di reazioni inconsulte e avventate.

Sostiene Stephen Kern in Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra otto e novecento, uno dei più illuminanti e documentati scritti apparsi sull'argomento:

Ci sono abbondanti prove che una causa della prima guerra mondiale sia stato il fallimento della diplomazia, ed una delle cause di questo fallimento fu che i diplomatici non poterono far fronte al volume e alla velocità della comunicazione elettronica. La maggior parte degli aristocratici e dei gentiluomini che costituivano i corpi diplomatici appartenevano per molti aspetti alla vecchia scuola, ed erano diffidenti verso la nuova tecnologia, così come alcuni generali erano diffidenti verso armi e strategie di nuova invenzione. [...] Essi facevano ancora assegnamento sull'efficacia delle parole pronunciate dall'uomo corretto, ma furono costretti a negoziare molte questioni importanti attraverso il filo di rame: le cataste di telegrammi inutili (come più tardi le file dei soldati morti) furono i resti tangibili del loro fallimento.


La guerra, inoltre, richiede un pressoché perfetto coordinamento dei tempi e dei mezzi. Esattamente come in una catena di montaggio o in una pellicola cinematografica di cui devono essere programmati i singoli fotogrammi. Gli orologi, per la prima volta, diventano parte dell'equipaggiamento militare, sincronizzati sull'ora del quartier generale. La battaglia della Somme, ricorda Kern, inizia il mattino del 1° luglio 1916, quando i comandanti dei plotoni inglesi, alle 7 e 30 in punto, soffiano all'unisono nei loro fischietti l'inizio dell'attacco, spedendo i soldati della Terza e Quarta armata sulle scale retrattili delle trincee verso la terra di nessuno. "I secondi che ticchettano mentre l'orologio avanza", scriverà un ammiraglio inglese in una poesia, "sono i soldati semplici che marciano con uno spirito così forte. I minuti sono capitani. Le ore del giorno sono ufficiali valorosi".

Nonostante o, sarebbe meglio dire, grazie a tutti gli immensi sforzi di coordinamento – delle truppe, degli approvvigionamenti, dell'informazione, dello spionaggio, del sistema produttivo – che richiedono un'organizzazione del tempo e dello spazio perfetta, quasi di tipo tayloristico, alla fine il risultato sembra assomigliare a una gigantesca composizione cubista. A un quadro prodotto in contemporanea da migliaia di punti vista diversi, di singole e parziali volontà di organizzazione, in cui simultaneità, unitarietà e frammentazione si confrontano convulsamente.
Se ne accorge Gertrude Stein quando afferma:

La composizione della guerra non è la composizione delle guerre precedenti. Questa composizione non è una composizione in cui c'è un uomo nel centro, circondato da una massa di altri uomini, è una composizione senza né capo né coda, una composizione in cui un angolo conta quanto un altro angolo: la composizione del cubismo, insomma.


I militari che se ne accorgono capiscono che devono cambiare strategia, orientandosi in uno spazio frammentario e sfruttando le potenzialità di una guerra decostruita, non più segnata da una geometria elementare, fatta da grandi e semplici movimenti, ma disarticolata in un disegno più complesso, con singole e indipendenti squadre di azione, che fanno i conti anche con un nuovo tipo di landscape naturale e artificiale, spesso ridotto a un insieme di piani o anche di schegge.

Nascono i primi autocarri mimetizzati: per confondersi con l'ambiente circostante ricorrono ai principi sperimentati dalle avanguardie. Quando Picasso con la Stein li vede sfilare sul boulevard Raspail, li assimila subito alle proprie ricerche, rivendicandone la paternità artistica. E non a torto, se Guirand de Scévola, lo stratega di questa tecnica, dichiara senza esitazione: "Per deformare totalmente gli oggetti, ho impiegato i mezzi che i cubisti usarono per rappresentarli – più tardi ciò mi permise di assumere senza dare spiegazioni alcuni pittori nella mia sezione, i quali in virtù della loro visione molto particolare avevano una predisposizione ad alterare la natura di ogni specie di forma, quale che fosse".

Alla fine della guerra nella sezione camoufleur, la cui insegna è un camaleonte, lavorano oltre tremila artisti, alcuni relativamente noti quali Forain e Segonzac. L'Inghilterra collabora con i francesi e dal 1917 attua, grazie al comandante Norman Wilkinson, una tecnica di mimetizzazione consistente nel dipingere le fiancate delle navi con figure geometriche e colori tali da confondere i riferimenti spaziali all'avversario. Tecniche simili usano gli americani e i tedeschi, i quali ultimi coinvolgono anche l'artista espressionista Franz Marc per dipingere reti e tele che servono per mimetizzare i cannoni tedeschi usati per la battaglia di Verdun.

Guerra, movimento, velocità, frammentazione: il filosofo francese Paul Virilio vede in questa miscela uno degli aspetti più inquietanti della nostra epoca. Un portato di cui sconteremo sino ai nostri giorni e oltre le conseguenze: prova ne sia la gigantesca distruzione delle Twin Towers a New York, interpretata come un effetto dell'ansia di annichilimento che pervade il secolo. La tesi convince in parte: una cosa è il lavoro di decostruzione dell'oggetto realizzato dall'avanguardia al fine di ampliarne la conoscenza attraverso la conquista di nuovi punti di vista, sia pure inusuali, altra le esplosioni e dissoluzioni di uno spazio reale in cui l'opera distruttiva è solo tatticamente e non intrinsecamente legata al fine, qualunque giudizio se ne voglia dare.

È ai primi del Novecento che si acquista la consapevolezza che l'arte e l'architettura aiutano a creare un uomo nuovo, gli permettono di appropriarsi di un sistema percettivo non alienato, lo indirizzano verso una migliore conoscenza del reale e dello spazio esistenziale. Non pochi artisti e architetti abbracceranno con fervore ideali palingenetici, a partire dall'entusiasmo con cui affronteranno la rivoluzione russa o, più tardi, sul versante opposto, il vitalismo fascista; lo vedremo tra poco. Ma se l'arte si confronterà con la rivoluzione sarà solo attraverso una mediazione culturale, che riconoscerà alla ricerca specificità e autonomia. Se questo è il momento delle rivoluzioni, realizzate o desiderate, è anche quello dei più rigorosi formalismi.

Ricorda Arp:

In rivolta dalla carneficina del conflitto mondiale del 1914, [...] ci dedicammo alle arti. Mentre le pistole sparavano a distanza, noi cantavamo, dipingevamo, componevamo collage e scrivevamo poemi con tutte le nostre forze. Cercavamo un'arte basata su fatti fondamentali, per curare la follia del nostro tempo, e trovare un nuovo ordine di cose che avrebbe restaurato l'ordine tra il cielo e l'inferno.


In che misura mediare la realtà effettuale della vita con la virtualità reale dell'arte: sarà questo il problema dei successivi quindici anni. Non ci sarà praticamente polemica senza che un artista accusi l'altro di essere un sognante formalista o uno sciocco funzionalista. Tutti sosterranno di aver perfettamente risolto l'equazione, proponendo la propria ricetta: architettura è rivoluzione, architettura o rivoluzione, architettura e rivoluzione, architettura e basta, rivoluzione e basta. Tutti saranno frustrati nel vedersela rifiutare. Sino a quando, a partire dal 1930, i regimi totalitari prenderanno il potere e semplificheranno la questione, asservendo la forma a strumento propagandistico della loro – questa sì effettiva, anche se tradita – rivoluzione.



[03jan2004]
2. Purovisibilità e formalismi

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Nel 1915 esce a Basilea il libro Kunstgeschichtliche Grundbegriffe (Concetti fondamentali della storia dell'arte), scritto da Heinrich Wölfflin. Lo studioso, allievo di Jakob Burckhardt, è il più eminente teorico del purovisibilismo. Il metodo – le cui origini abbiamo già tracciato nel precedente capitolo – abbandona l'impostazione hegeliana secondo cui l'arte è racconto di un'idea, per ritornare all'ipotesi di Kant che sia anzitutto attività formativa, rielaborazione aprioristica della realtà.

Coerentemente con l'assunto kantiano, il contenuto dell'opera – sia questo l'evento storico raccontato in un quadro, l'allegoria rappresentata in una scultura o il simbolismo di un'opera di architettura – viene svalutato. Nessun racconto, infatti, avrebbe alcun valore se non venisse percepito da un soggetto, secondo il suo punto di vista e reso con coerenza all'interno di un specifico medium.

È proprio quest'attività formativa che, oggettivizzando una soggettività con gli strumenti specifici dell'arte scelta, rende ciascuna opera unica e intraducibile. Se così non fosse, basterebbe, per comprenderla, una semplice parafrasi, cioè una banale trasposizione del suo contenuto nel linguaggio verbale. Ma, allora, tanto varrebbe evitare la prima e darsi subito alla seconda, essendo quest'ultima più chiara, comprensibile e immediata. Inoltre, dovremmo ammettere che musica e architettura sono arti minori, perché i contenuti narrativi vi giocano un ruolo del tutto secondario.

Secondo il punto di vista purovisibilista, invece, è molto più stimolante pensare la forma come il medium che racchiude l'universo dell'artista. Essa agisce su di noi provocando i nostri sensi, misurandosi con il nostro corpo, favorendo o meno un certo tipo di tattilità, anche visiva, abbagliandoci o incupendoci. Insomma: emozionandoci o, se vogliamo usare un termine proprio di quel periodo, attivando reazioni empatiche.

In tutta l'arte, e soprattutto in architettura, gioca un ruolo centrale lo spazio, cioè il luogo dove si danno queste interrelazioni. Per comprenderne ruolo e senso occorre trascurare l'interpretazione di simboli, allegorie e riferimenti testuali e la valutazione di come è organizzata tecnicamente l'opera, cioè la sua tettonica. Wölfflin con il suo Kunstgeschichtliche Grundbegriffe lo fa mettendo a punto una fenomenologia dei modi di percezione dello spazio. Corrispondono a cinque punti di vista diversi che possono essere resi da altrettante coppie di termini. Sono: lineare/pittorico, superfi-cie/profondità, forma chiusa / forma aperta, molteplicità/unità, chiarezza assoluta / chiarezza relativa.

Certo, nessuna opera sarà perfettamente lineare, di superficie o aperta. Né, per fare un altro esempio, pittorica, unitaria e di chiarezza relativa. I termini sono infatti da intendersi come tipi ideali cui ci si avvicina senza per questo mai raggiungerli, un po' come ciascuno di noi propende verso stati limite quali buono/cattivo senza però essere mai assolutamente né l'uno né l'altro.

Wölfflin suggerisce che le cinque coppie si possano, alla fine, ridurre a una: plastico/pittorico, giungendo a una suddivisione sostanzialmente simile a quella cui erano giunti due altri importanti critici purovisibilisti, Bernard Berenson e Alois Riegl; quest'ultimo aveva già da tempo (lo studioso, lo ricordiamo, muore nel 1905) preferito parlare di contrapposizione tra tattile e ottico.

La scelta di Wölfflin di ricorrere a una classificazione per tipi ideali è stata certo favorita dalla contingenza storica. Ai tipi ideali ricorre, infatti, gran parte della sociologia del periodo e in particolare Georg Simmel. Max Weber ne dà anche una brillante spiegazione teorica nel suo saggio del 1904 dal titolo L'oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale:

Il tipo ideale è ottenuto mediante l'accentuazione unilaterale di uno o più punti di vista e mediante la connessione di una quantità di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore misura, e talvolta anche assenti, corrispondenti a quei punti di vista unilateralmente posti in luce, in un quadro concettuale in sé unitario.


La scelta di Wölfflin non è quindi particolarmente originale e si inserisce all'interno di un metodo per tipi che all'inizio del Novecento è diffuso tra le scienze umane, soprattutto tra gli studiosi di area germanica. Tuttavia, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe ha il merito di sintetizzare in forma conclusiva un trentennio di ricerche su questi temi. Due dati d'ora in poi saranno acquisiti: il primo è che l'arte si può apprezzare solo analizzandola nello specifico, cioè in quanto attività formativa; il secondo è che un'opera si può classificare solo relativamente alle altre. Infatti il giudizio di vicinanza a un tipo ideale avviene per comparazione, relativizzando il giudizio rispetto a un'altra opera che funge da metro di misura. Wölfflin mette così a punto una tecnica specialistica per analizzare e, quindi, per guardare e concepire l'arte. Come spesso accade, l'applicazione del metodo produrrà risultati alterni. Rileggendole a distanza di anni, alcune analisi appaiono superate. Alcune troppo ingenue. Ma, certo, d'ora in poi l'arte non sarà più lasciata ai dilettanti.

Inoltre – e ciò è particolarmente importante – centrato l'interesse sulla forma, si fanno giocoforza strada, all'interno delle fortezze accademiche, le ragioni dell'astrattismo e delle avanguardie. Anche se Heinrich Wölfflin in Svizzera, Bernard Berenson in America e in Italia, Lionello Venturi in Italia apprezzeranno poco Picasso, Mondrian e compagni, ormai il tempo, anche dal punto di vista teorico, è maturo per un nuovo sentire. Si delineano all'orizzonte le nuove scuole di pensiero del circolo di Mosca, dell'Opojaz di Pietroburgo e del Warburg Institute di Amburgo. Soprattutto le prime avranno con l'avanguardia rapporti d'intensa e mutua collaborazione.



3. Tractatus

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Di carattere scontroso e passionale, con tendenza all'asocialità per l'assoluta sincerità e mancanza di quel minimo di cortese ipocrisia che rende i rapporti tra le persone piacevoli e non sempre angosciosamente impegnativi, Ludwig Wittgenstein già a poco più di vent'anni è un enfant prodige, un logico in grado di mettere in crisi personaggi di levatura internazionale.

Si trasferisce, tra il 1911 e il 1913, a Cambridge, il centro principale della filosofia analitica in Europa. Vi trova personaggi del calibro di Russell, Moore e Whitehead. Con il primo lega subito, stabilendo un rapporto tra il filiale e il fraterno. Dirà Russell:

Egli ha esattamente i miei difetti: la tendenza ad analizzare ogni cosa, il bisogno di mettere a nudo i sentimenti sino in fondo e la volontà di capire esattamente cosa una persona provi di lui. Mi rendo conto che tutto ciò è molto defatigante e avvilente per le persone che si amano. Penso trattasi di una caratteristica dei logici.

Ludwig, per amore di verità, non esita a smantellare le teorie di chiunque e soprattutto di chi gli è più caro. Confesserà Russell:

Io scrissi un mucchio di cose sulla teoria della conoscenza che Wittgenstein criticò con grande severità. [...] La sua critica [...] fu un avvenimento di enorme importanza nella mia vita e influì su tutto ciò che ho fatto in seguito. Compresi che aveva ragione, e mi resi conto che non potevo sperare di riuscire a far mai altro che avesse un valore fondamentale in filosofia. Il mio impulso in quella direzione si infranse come un'onda con la scogliera. Fui preso da un profondo scoraggiamento.


Attraverso Russell, Ludwig entra in contatto con Keynes, uno dei maggiori economisti dell'epoca, un intellettuale versato in tutti i campi delle scienze e delle arti, in contatto con Lytton Strachey e gli esponenti del circolo di Bloomsbury di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. Keynes e Strachey proveranno a introdurlo, non senza sua riluttanza e successive dimissioni, al circolo della Società degli Apostoli, un'associazione segreta di intellettuali, mirata all'approfondimento, nella massima libertà, dei più scottanti e impegnativi temi culturali.

Un clima, quello di Cambridge, aperto quindi non soltanto alle ricerche logiche e matematiche, ma soprattutto a problemi etici ed estetici. I quali appassionano immediatamente Ludwig, che a questi è stato introdotto a Vienna. Appassionato lettore di Kraus, Ludwig ha frequentato gli intellettuali di maggior spicco della capitale austriaca, alcuni dei quali attraverso contatti frequenti e diretti. Il padre Karl, un ricco industriale dell'acciaio con aspirazioni di mecenate, è infatti un esperto di musica e un sostenitore della Secessione viennese; ha pagato di tasca sua l'affresco La filosofia di Klimt per l'università di Vienna, respinto sdegnosamente dall'indignato collegio dei professori; ospita a casa opere di Segantini, Klimt, Rodin e Max Klinger; ha scelto per la progettazione della residenza di campagna l'architetto Josef Hoffmann.

Nel 1913 e 1914, poco prima dello scoppio della guerra, Ludwig si trasferisce in Norvegia per amore di solitudine e perché conta di mettere a punto il proprio sistema logico, risolvendo i problemi a cui non riescono a dare soluzione i suoi maestri. Terrorizzato soprattutto dalla propria propensione al suicidio – è uno dei temi ricorrenti delle lettere e dei diari – detta a Russell, prima di partire, le coordinate principali del proprio programma di ricerca. L'idea è realizzare un sistema limpido, chiaro, efficace e, spera non senza ingenuità giovanile, definitivo, inattaccabile e lontano da ogni retorica o luogo comune. Quasi una trasposizione in filosofia del programma krausiano, ma rivisto alla luce di una perfetta organizzazione logica anglosassone.

In Norvegia, nello Hochreith, una località lontana dalla civiltà e difficilmente accessibile dal villaggio vicino, progetta per il suo ritiro una baita in legno. Sembra la risposta all'apologo della casa sul lago di Loos, il quale dubitava che mai architetto ne avrebbe potuta più costruire una che non fosse in drammatico contrasto con l'ambiente. Ludwig la disegna in assoluta semplicità e nella tradizione del luogo, evitando insieme concessioni al folklore e ammiccamenti allo stile contemporaneo. Il risultato, austero ma volutamente banale, s'inserisce senza problemi nel contesto paesistico.

Poco prima dello scoppio della guerra si trova a Vienna. Decide di distribuire 100.000 corone dell'eredità paterna (il padre Karl è morto nel 1913, lasciandogli una cospicua fortuna da dividere con i fratelli e le sorelle) ad artisti che si trovano in cattive condizioni economiche. Tra questi ci sono Rilke, Kokoschka e Loos. Nell'occasione conosce quest'ultimo, con cui si avventura in lunghe discussioni sull'architettura. Si incontrano al Café Museum, disegnato dallo stesso Loos e soprannominato Café Nihilismus, per la laconicità dello spazio e la povertà dei mezzi decorativi. I due familiarizzano: tra l'opera architettonica del primo e quella logica del secondo vi sono analogie. Il 7 agosto Wittgenstein parte come volontario.

La guerra è per lui una tragedia e una liberazione. Una tragedia perché il conflitto contrappone l'Austria all'Inghilterra, cioè la patria a una nazione di cui ha massima considerazione. Una liberazione perché, ponendolo a diretto contatto con la morte, può far capire il valore della vita a lui che costantemente rimugina l'idea del suicidio. Ludwig, nonostante abbia problemi di ernia, un'istruzione superiore e faccia parte di una delle più importanti e ricche famiglie viennesi, si arruola come soldato semplice e si dà da fare per svolgere le mansioni più pericolose. Per il suo eroismo, che rasenta la temerarietà, riceve medaglie e decorazioni ed è promosso ufficiale alla fine del 1916.

Durante la guerra, tra estreme difficoltà, Ludwig termina il suo libro. Già nel giugno del 1915 lavora alle parti più tecniche e in una lettera a Russell del 22 ottobre accenna a una sintesi conclusiva. È nel soggiorno a Olmütz, dove si reca per frequentare un corso per ufficiali, che l'opera può dirsi davvero conclusa. Qui entra in contatto con Paul Engelmann, un giovane architetto allievo di Loos. Si reca anche a Vienna in licenza, dove incontra Loos con cui ormai è in amicizia. Invia il manoscritto a Jahoda, l'editore di Kraus. Ritorna nelle zone di guerra e dal marzo del 1917 è trasferito sul fronte italiano, dove assiste alla capitolazione del Piave e, insieme ad altri trecentomila soldati, è fatto prigioniero.

L'editore Jahoda rifiuta il libro, aforistico e quasi illeggibile. Anche Russell e Frege, cui è inviata copia, stentano a capirne il senso. Frege polemicamente afferma di non averne compreso una parola. L'incomprensione deriva anche dal fatto che i lettori si ostinano sugli argomenti più specificatamente tecnici – cioè afferenti la logica simbolica – trascurandone gli aspetti più propriamente filosofici e mistici, che in questo momento angosciano il filosofo.

Il Tractatus logico-philosophicus, questo il titolo che Moore gli darà, si fonda su un presupposto: che il linguaggio non può accrescere il contenuto della realtà, perché non è altro che uno strumento. Ne consegue che la logica, che è la modalità attraverso cui il linguaggio e quindi il pensiero si articolano, dev'essere trasparente, cioè tautologica. Se così non fosse accrescerebbe la realtà, si sostituirebbe all'esperienza, il che è appunto assurdo. Insomma: sono solo i fatti che possono essere oggetto di esperienza, mentre il linguaggio può solo elaborare, senza aggiungere o togliere nulla, ciò che noi abbiamo già introiettato dalla realtà per vie extralinguistiche. Inutile tentare di forzare questa condizione esistenziale: se si acquisisse la realtà attraverso il linguaggio, si costruirebbe solo un castello di vuote parole. "Il punto principale", afferma Wittgenstein, "è la teoria di ciò che può essere detto mediante proposizioni – ossia mediante il linguaggio – (o, che è lo stesso, di ciò che può essere pensato) e di ciò che non può essere detto mediante proposizioni, ma solo mostrato; e questo io credo, rappresenta il problema fondamentale della filosofia."

È il kantismo di Wittgenstein: il linguaggio metafisico fa travalicare l'intelletto dai propri confini, confondendo ragionamento scientifico e mistica, logica e metafisica; un linguaggio trasparente e corretto, invece, rinuncia alle connotazioni, alla retorica, e cerca di essere il più possibile asciutto e stringato, imponendosi di non debordare dai confini assegnati.

Per costruire un linguaggio formalmente puro e una logica assolutamente tautologica, Wittgenstein rivoluziona la filosofia. Se ne accorgono, a partire dagli anni Venti, i logici del Circolo di Vienna, che lo eleggono a maestro e punto di riferimento ideale. Risalgono inoltre a lui le tavole di verità, così importanti per lo sviluppo della logica e dell'informatica, e l'ossessione per la purezza denotativa della proposizione che sarà alla base del linguaggio scientifico moderno. Ciò che però interessa a Wittgenstein non è l'esperienza mondana della scienza quanto l'extramondana della mistica la quale, per usare una metafora, è l'oltre, ciò che è visibile solo per assenza. In questi anni, preso da crisi religiosa, Ludwig è incerto se ritirarsi in convento o se fare il maestro per leggere ai bambini il Vangelo. Sceglierà la seconda ipotesi dopo aver rinunciato all'eredità familiare a favore dei parenti. Intransigente e severo, sarà però un pessimo maestro.

È interessante notare che il Tractatus di Wittgenstein ha forma di architettura virtuale. Tra il 1926 e il 1928 il filosofo, abbandonato l'insegnamento e anche per sfuggire a un'ennesima crisi di nervi, si cimenta con la costruzione della casa per la sorella, dove tenta di tradurre i principi della sua logica in un'architettura concreta, visualizzandoli e spazializzandoli. La costruisce insieme a Paul Engelmann, il giovane architetto seguace di Loos che ha a lungo frequentato a Olmütz. La casa è, insieme alla Maison de verre di Chareau e Bijvoet, alla Dymaxion House di Buckminster Fuller, ai progetti espressionisti di Mendelsohn, Häring e Scharoun, alle composizioni di Malevic e van Doesburg, alle sintesi austro-californiane di Schindler, uno dei principali testi del dopoguerra. Ci torneremo nel prossimo capitolo. Per ora notiamo in Wittgenstein corrispondenze tra architettura, arte e logica attraverso il tema del linguaggio. Vi è comune un ideale di rigorosa articolazione sintattica, la ricerca di una forma pura che rifugge dalla retorica, dal sensazionalismo e dal lirismo. Grado zero, quindi, in cui un quadro è un quadro, un edificio è un edificio, e una rosa – per usare una famosa espressione della Stein – è una rosa.

Siamo oltre Loos, per il quale la riduzione stilistica è un problema di laconica eleganza, di contatto con la tradizione, non un imperativo per la costruzione di un mondo logicamente ineccepibile. Nonostante i non trascurabili punti di contatto che abbiamo evidenziato, più i due si conoscono più emergono le differenze. Se Loos fatica a capire il giovane Ludwig ironizzando sui suoi comportamenti monacali e maniacali, quest'ultimo non perdona gli atteggiamenti estetizzanti dell'altro: "Giorni fa", scrive a Engelmann, "ho fatto visita a Loos. Ne ho provato orrore e disgusto. Ha assunto un'aria da intellettuale e da snob che lascia allibiti... Ero andato da lui già depresso e questo ha compiuto l'opera".

In fondo Ludwig pone un problema di linguaggio, Loos di stile. Con il funzionalismo, il costruttivismo e la nuova oggettività alcuni architetti sfioreranno – a volte giungendoci per altre vie – queste problematiche. Logica, etica ed estetica finalmente sembrano coincidere.



4. Il linguaggio e la forma

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Mentre Wittgenstein mette a punto il Tractatus, in Russia artisti e critici indagano il senso dell'equazione forma = linguaggio. Sono influenzati sia dalle ricerche simboliste, centrate sulla parola, la metafora, i ritmi e le immagini, sia dalle innovazioni futuriste. Già nel 1912 Majakovskij, Burljuk, Chlebnikov, Krucenych scrivono un manifesto dal titolo Schiaffo al gusto del pubblico. Proclamano di voler buttare Puškin, Dostoevskij e Tolstoj "dalla nave del nostro tempo" e dichiarano un assoluto disprezzo per il linguaggio che li ha preceduti. L'attenzione è focalizzata sul significante. Supremazia, quindi, della forma sul contenuto, attenzione al linguaggio in quanto "entità autonoma che organizza il materiale dei sentimenti e dei pensieri", emancipazione della parola, rivolta contro il significato, sino alla pura eufonia in cui, come afferma Krucenych, la forma determina il contenuto.

È già dal seminario di Vengerov, insigne professore di letteratura russa, che molti allievi orientano le loro ricerche in senso specificatamente formale. "Due o tre anni fa", ricorda lo studioso in un articolo apparso nel 1916, "notai per la prima volta nel mio seminario un gruppo di giovani dotati che s'applicavano con grande zelo a studiare lo stile, il ritmo, la rima e gli epiteti, a classificare i temi, a stabilire analogie tra gli artifici usati dai diversi poeti e ad affrontare altri problemi riguardanti la forma esteriore della poesia."

Le ricerche dei giovani letterati russi hanno non pochi punti di contatto con le tesi purovisibiliste di Hildebrand, di Worringer e, in considerazione della sua particolare attenzione per la classificazione stilistica, di Wölfflin. Registriamo poi, sul piano squisitamente linguistico e filosofico, l'influsso delle Ricerche logiche (1913-1921) di Edmund Husserl e delle ricerche di De Saussure, due studiosi di eccezionale levatura che in Germania e in Francia introducono, contro un approccio genericamente psicologista e genetico, una consapevolezza strutturale del lavoro sulla parola. Nota Victor Erlich: d'ora in poi "tutte le forme espressive, compreso il linguaggio, vanno viste non come prodotti secondari o sintomi sensoriali di processi psicologici, bensì come realtà autonome, come oggetti sui generis, che esigono un'analisi strutturale".

È nel 1915 che un gruppo di giovani studiosi universitari fonda ufficialmente il Circolo linguistico di Mosca. Tra i soci Pëtr Bogatyrëv e Buslaev, ma la figura dominante è Roman Jakobson, che ne sarà anche il presidente. L'anno successivo a Pietroburgo nasce la Società per lo studio del linguaggio poetico, Opojaz. Vi partecipano tra gli altri, accanto a Viktor Šklovskij, che è il personaggio di maggior rilievo, Boris Ejchenbaum, Bernstein e Osip Brik. Gli sforzi del Circolo di Mosca si dirigono su più fronti: contro la mancanza di metodo nelle ricerche letterarie, dove si mischia, senza costrutto, costume, psicologia, politica e filosofia; contro il decadentismo simbolista; per uno studio scientifico dei fatti, a partire dalla classificazione delle strutture formali, delle ricorrenze poetiche, dei suoni.

Più orientato sul versante dello studio della funzione poetica è l'Opojaz e, in particolare, Šklovskij, per il quale l'arte è anzitutto capacità di trascendere il senso delle cose, puro artificio che deve necessariamente porsi su un piano altro da quello della comune esistenza. Luogo dove l'abituale è reso inconsueto, dove il discorso appare rallentato e obliquo per restituirci una visione fresca e infantile delle cose. Se così non fosse, infatti, non riusciremmo a staccarci dal mondo in cui viviamo, non riusciremmo a guardarlo dal punto di vista contemplativo che è proprio dell'artista.

Ma se l'arte, come vuole Šklovskij, è "sempre indipendente dalla vita", e se, come suggerisce Majakovskij , "la poesia è un tipo di produzione [...] assai laboriosa e complessa, è vero, ma pur sempre produzione", non ha senso perseguirla attraverso l'ispirazione. Sganciata dal linguaggio referenziale, è artificialità, creativo sistema di invenzione di regole, costruzione.

Sentendosi produttori di un bene così indispensabile all'uomo, e non altrimenti fungibile, formalisti, futuristi, costruttivisti, suprematisti si buttano a capofitto nella rivoluzione bolscevica del 1917, che promette un nuovo mondo in cui c'è spazio per la libertà e l'arte. Contro il realismo socialista propugnato da Marx e Engels sostengono le leggi della forma, l'autonomia del mestiere. All'inizio lo scontro con i burocrati, che li accuseranno di essere degenerati dell'arte, appare vincente. Saranno momenti indimenticabili, presto seguiti dalla disillusione di una realtà molto più prosaica e molto meno creativa.



5. Malevic, Tatlin e il grado zero della forma

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Secondo Casimir Malevic, il suprematismo nasce nel 1913. In quell'anno l'artista russo, in realtà, sta ancora sondando futurismo e cubismo con una progressiva preferenza verso i collage di Picasso e Braque. È possibile quindi che il celeberrimo Quadrato nero sia stato eseguito più tardi, forse a guerra iniziata e predatato. Comunque siano andate le cose, certo è che intorno a questi anni la pittura di Malevic comincia a cambiare registrando la sempre più affollata compresenza di generi diversi, tra cui una non facilmente definibile pittura transmentale. Nel quadro Mucca e violino del 1914 vi è in nuce un'ideologia predada, oltre ad allusioni alla pittura metafisica per lo strano inserimento, in un'opera in apparenza cubista, di icone figurativamente ben delineate ma fuori scala e non legate da alcuna logica apparente.

Nel febbraio del 1915 Ivan Puni, a causa della guerra tornato, come tanti altri artisti, dall'estero – e in particolare da Parigi e Monaco, dove si sono recati attratti dal particolare clima culturale – organizza a Pietrogrado una collettiva dal titolo: Mostra futurista. Tramway n. 5. Malevic non presenta alcuna opera suprematista, ma una serie di quadri che fanno il verso alle poetiche contemporanee, a partire da un arrotino che troppo ricorda i quadri di Balla e Boccioni. Presenterà, invece, trentasei composizioni astratte e suprematiste nel dicembre dello stesso anno, in occasione della mostra 0.10, l'ultima mostra futurista, sollevando l'ira dei suoi rivali e, soprattutto, di Vladimir Tatlin, che sta mettendo a punto una propria ricerca fatta di oggetti poveri montati a formare uno spazio fortemente plastico che preannuncia il costruttivismo.

Di Malevic, Tatlin non riesce a sopportare le incoerenze formali, la confusione stilistica, la semplificazione geometrica, ma in realtà i rapporti tra i due sono segnati da un'acerrima rivalità caratteriale. Tatlin arriva a mettere in crisi lo svolgimento della mostra stessa, motivando l'opposizione con l'accusa, infame e pretestuosa, del dilettantismo dell'avversario. Dopo che i due vengono quasi alle mani, viene trovato un compromesso: viene assegnata una stanza a Tatlin, Nadeshda Udaltsova e Ljubov Popova e una a Malevic e ai suoi seguaci. Tatlin per dispetto scrive sulla porta che accede alla parte di galleria a lui dedicata: "Mostra di pittori professionisti".

Fra le trentasei opere di Malevic spicca il Quadrato nero, messo in angolo come le icone nelle case contadine. Significa che la dimensione dell'uomo, rappresentata dal quadrato, è subentrata a quella divina, resa dal triangolo: "È difficile", dirà, "che la modernità possa stare all'antico triangolo, perché la sua vita, al momento, è quadrangolare". Accanto al quadrato, altre opere di rigorosa semplificazione geometrica, quali la croce nera o il cerchio nero. Propongono l'annullamento, la riduzione estrema: "Mi sono", afferma Malevic, "trasfigurato nello zero delle forme".

Nella poetica di Malevic gli atteggiamenti nichilistici assumono un valore paradossalmente costruttivo. È attraverso il nulla che si intuisce l'essenza del cosmo, che si attua l'ascesa verso l'indicibile, l'inesprimibile, il punto zero da cui si origina tutto e dove "alto, basso, qui, là, non esistono più".

È un mondo senza oggetti, come bene esprimerà il titolo del testo che negli anni Venti viene pubblicato nelle edizioni del Bauhaus (Die gegenstandlose Welt): "Nel vasto spazio del riposo cosmico, ho raggiunto il mondo bianco dell'assenza di oggetti, manifestazione del nulla svelato".


Il grado zero è il passaggio obbligato per la successiva ricostruzione. Se ne accorge El Lissitskij quando, nel 1922, tenta di sintetizzare la svolta: "Sì, il percorso della cultura pittorica, retrocedendo, è arrivato al quadrato, ma dall'altro una nuova cultura inizia a dare i suoi frutti, sotto una nuova forma. Sì, la linea pittorica è scesa regolarmente... 6, 5, 4, 3, 2, 1 fino allo 0, all'altra estremità inizia una nuova linea 0, 1, 2, 3, 4, 5...". A essa accennano numerosi quadri di Malevic presenti alla mostra 0.10. In particolare le composizioni di figure elementari, in prevalenza rettangoli, giustapposti sino a formare costruzioni plastiche che si librano nell'aria: "La superficie piana sospesa del colore pittorico sulla tela bianca dà subito alla nostra coscienza la forte sensazione dello spazio. Mi sento trascinare in un deserto abissale dove si percepiscono i centri creatori dell'universo".

Nel 1918 Malevic realizza un Quadrato bianco su fondo bianco per la Decima mostra di Stato. Soltanto un cambiamento di tono distingue figura e sfondo. Il quadrato compare e scompare alla nostra vista, quasi come fosse una finestra aperta sull'infinito.


Abbandonata la prospettiva, e cioè il punto di vista finito, le immagini sembrano fluttuare. La pittura, rigorosamente bidimensionale, ha raggiunto una tridimensionalità virtuale. Alcuni studiosi hanno voluto riconoscervi il mondo così come percepito da un aeroplano, da un satellite, da un oggetto che si muove nell'infinito. Un punto di vista orbitale che permette di appropriarsi del cosmo. Lo stesso Malevic ha parlato delle sue campiture di colore come di semafori spaziali: "Attualmente il cammino dell'uomo attraversa lo spazio. Il suprematismo è il semaforo del colore nell'illimitato. [...] Compagni nocchieri, navigate in questo spazio senza fine. Un mare bianco si stende davanti a voi".

Attraverso risultati sempre più sorprendenti, la pittura si avvicina all'architettura. È questa la meta ultima, la sintesi di tutte le arti. Per Malevic l'architettura è un'arte sintetica e per questo deve collegarsi a tutti i domini dell'arte.

Già tra il 1914 e il 1915 Malevic ha realizzato un quadro dal titolo Casa in costruzione, che allude al sovrapporsi delle forme attraverso piani. Sempre nel 1915 sperimenta spazi in tre dimensioni; le intitolerà Planits o dell'ambiente contemporaneo. Seguono gli Architectonica. Sono assemblaggi di cubi e di prismi. Forse alludono all'iperspazio: se infatti il quadro riesce a rendere la realtà delle tre dimensioni attraverso figure semplici piane, non si vede perché l'architettura non possa rendere le quattro attraverso volumi primari. Nel 1924 il suprematismo si orienta ufficialmente sul fronte dell'architettura, con progetti che rassomigliano sempre di più a quelli De Stijl.

A fronte di ragionamenti così astratti, quasi platonici e sicuramente segnati da un sottofondo mistico, Tatlin non può che protestare. La strada da percorrere, a suo giudizio, è altra. È fatta di materia e non di colore, di costruzione e non di composizione, di energia e non di spiritualità. A provarlo sono le sculture astratte che realizza in questi anni accostando materiali inconsueti: cemento, rame, ferro, vetro, lamiera forata. E, a testimoniare che l'arte non è pura contemplazione, i vestiti funzionali da lavoro e la stufa a basso consumo che realizza nel 1918-19.

Figlio di una poetessa e di un ingegnere, dichiara: "L'arte deve scendere dal suo piedistallo". Per farlo non esita a smontare e ricostruire gli oggetti al fine di comprendere le leggi di aggregazione della forma e della materia. Altro che mistico spazio suprematista, l'arte per Tatlin si ottiene montando oggetti reali nello spazio reale. La rivoluzione ha senso solo se legata a una nuova etica ed estetica produttiva. Quindi sì a lavori scultorei, no a quelli pittorici di Malevic.

Certo anche per Tatlin il sogno è annullare la forza di gravità, vincere il peso, conquistare lo spazio. Ma attraverso lo studio scientifico, come prova a fare con il suo Letatlin, una leonardesca macchina con le ali per permettere all'uomo di spiccare il volo. Oppure suggerisce con il monumento semovente alla Terza Internazionale, progettato nel 1919-20. È un'immensa torre, alta quattrocento metri. Ricorda le grandi opere d'ingegneria dell'Ottocento, in particolare la Torre Eiffel. Con il movimento differenziato dei suoi componenti interni – ognuna delle tre sale si muove con maggiore o minore velocità di rotazione all'interno dell'ossatura metallica – segna il tempo simbolico della rivoluzione.

Insomma: Tatlin e Malevic non potrebbero essere più diversi. Vivono però entrambi una medesima contraddizione, uno stesso spirito di conquista di uno spazio liberato. Il dilemma è se la ricerca debba investire la sfera concettuale o esistenziale. Malevic opterà per l'idea, cioè per la prima ipotesi, l'altro per la materia, cioè per la seconda. Una visione di allucinata progettualità, antitetica ma appassionata, li unisce. Alla morte di Malevic, nel 1935, in pieno buio staliniano, Tatlin, sempre più deluso e affaticato, si sentirà in dovere di partecipare ai funerali dell'antagonista.



6. Dada e l'impossibilità di definire l'arte

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Hugo Ball e Richard Huelsenbeck sono affascinati da Marinetti: dallo stile telegrafico, dall'uso delle parole come suoni puri, dalla scomposizione della frase, dalle parole in libertà. Organizzano per lui una conferenza a Berlino nel 1914, qualche mese prima dell'entrata in guerra dell'Italia.

Ball sfugge al conflitto emigrando clandestinamente in Svizzera insieme all'attrice di cabaret Emmy Hennings, con cui ha un'intensa, difficile e a tratti tempestosa storia d'amore. Mantiene i contatti con giornali d'opposizione e artisti d'avanguardia. Per sbarcare il lunario si arrangia facendo il pianista di una compagnia di avanspettacolo. Nel febbraio del 1916, convince il proprietario di un caffè sulla Spiegelgasse, una strada del quartiere abbastanza malfamato Niederdorf di Zurigo, a darglielo in uso in cambio di un incremento delle consumazioni. Sarà un punto di ritrovo per gli artisti, dal nome promettente di Cabaret Voltaire. Vi si svolgono mostre e incontri, mentre la Hennings canta accompagnata al piano da Ball. Scriverà quest'ultimo: "Quando fondai il Cabaret Voltaire ero sicuro che in Svizzera c'erano alcuni giovani che come me erano non solo interessati a godere la loro indipendenza, ma anche a darne testimonianza".

Sei giorni dopo l'apertura del cabaret, Huelsenbeck, con un permesso delle autorità militari per studiare medicina, si trasferisce a Zurigo. Si aggiungono l'artista Hans Arp e i romeni Marcel Janco e Sami Rosenstok, quest'ultimo autore di poesie con lo pseudonimo di Tristan Tzara. I cinque sono molto diversi tra loro. Ball è un letterato interessato più alla metafisica che alla concreta realtà delle cose, abbandonerà presto il cabaret e si ritirerà in Canton Ticino per vivere una vita religiosa in povertà volontaria. Arp è attratto dall'arte astratta, dalle forme sinuose e dai colori puri, che utilizza con maestria e leggerezza. Janco compone i suoi quadri, rigorosamente bidimensionali come fossero architetture, sostenendo, in linea con quanto si va sperimentando in Russia negli stessi anni, che l'arte è costruzione. Tzara è un letterato affascinato dagli aspetti inconsci e contraddittori del reale, ha una fortissima personalità e una sfrenata ambizione. È piccolo e veste in modo eccentrico ed elegante, sempre con il monocolo. Huelsenbeck, di non minore ambizione, tanto che per anni contenderà a Tzara il primato dell'invenzione del termine Dada, è più interessato agli aspetti politici e polemici della nuova arte.

Nell'aprile del 1916 è inventato il nome Dada. Una parola che non significa nulla; un semplice suono. Sarà il nuovo titolo del periodico "Cabaret Voltaire", di cui è già uscito un numero. Il 14 luglio del 1916 il dadaismo è ufficialmente proclamato. Lungi dall'essere un movimento strutturato e organizzato, è un insieme di persone diverse con ascendenze marinettiane, espressioniste, simboliste, astratte.

Al cabaret sono organizzate una serata russa e una francese, c'è una conferenza di Kandinskij e sono mostrati i quadri di Delaunay. L'incontro di culture e personalità diverse crea situazioni nuove, soprattutto quando Tzara e Huelsenbeck, seguiti da Janco, inventano spericolate poesie a più voci, in più lingue, vere e fittizie, ritmate da un'inventata musica negra di travolgente ritmicità. Strofe di poesie, quali questa composta da Huelsenbeck, sono recitate con sottofondo di tam tam a un pubblico tra il divertito e lo scandalizzato: "Sokobaruno, sokobaruno, sokobaruno. Skikaneder, skikaneder, skikaneder. I contenitori dell'immondizia sono incinti. Sokobaruno, sokobaruno, sokobaruno...".

Le attività continuano anche dopo la chiusura del cabaret, spostandosi, a partire dal 1917, nei locali della Galerie Corray nella Bahnofstrasse, subito ribattezzati Galerie Dada. Vi s'inaugurerà una mostra su Der Sturm, saranno presentati anche il Manifesto della letteratura futurista di Marinetti e le composizioni poetiche di Cendras e Apollinaire. Nel marzo del 1917 una mostra dedicata ai precursori: Kandinskij e Klee. Organizzate anche un'esposizione dei quadri metafisici dell'italiano Giorgio de Chirico e una di Max Ernst. Gravita sulla galleria il pittore Hans Richter, giunto in Svizzera per farsi curare una ferita ricevuta al fronte. Diventerà uno dei punti di riferimento del movimento e, in seguito, l'autore di un'accurata, documentata e affettuosa ricostruzione dal titolo Dada. Art and Anti-art.

L'esperienza della galleria dura poco. Presto avviene la diaspora. Ball si ritira nel suo esilio ticinese. Huelsenbeck già agli inizi del 1917 ritorna in Germania, dove con Jung, Grosz, Heartfield e Raoul Hausmann fonda un club dadaista, impegnato sul versante politico. Tzara attiva contatti con i francesi, attratti dal lato surreale della poetica dada. È l'inizio della diffusione del movimento in Europa.

Nel 1918 arriva in Svizzera dagli Stati Uniti Picabia. Con la sua presenza rianima il clima zurighese e riporta in Europa le esperienze analogiche, antilogiche, illogiche che lui stesso e Duchamp hanno introdotto negli Stati Uniti. L'attività del gruppo zurighese sarà d'ora in poi orientata verso il non senso, l'antiarte, la messa in discussione di ogni valore.

Così Picabia è descritto da Richter: "Era ricco, indipendente, materialmente e mentalmente, intellettualmente e creativamente. Un temperamento artistico, che domandava una spontanea espressione di se stesso, si confrontava in lui con un intelletto che non poteva più a lungo riconoscere un significato a questo mondo". Fonda e finanzia anche una rivista, dal titolo "391", che allude esplicitamente al numero civico (291) della galleria newyorkese di Alfred Stieglitz e al titolo "291" della rivista edita sempre da Stieglitz, nata dopo la chiusura della gloriosa "Camera Works" e in cui si riconosce gran parte dell'avanguardia americana: da Joseph Stella a Georgia O'Keeffe a Man Ray.

Alcuni studiosi hanno voluto vedere nelle opere che Picabia, Duchamp e Man Ray producono in America a partire dal 1915 una sorta di dadaismo che si svolge, anche senza averne ancora il nome, parallelamente a quello zurighese. Ciò è soprattutto vero per le opere realizzate da Duchamp.

Abbiamo detto in precedenza che i ready-made risalgono al 1913 e sono realizzati in Europa. In realtà è solo a partire dal trasferimento a New York del 1915 che Duchamp li teorizza in quanto operazione estetica. Ciò avviene nel preciso momento in cui battezza con un titolo in apparenza senza senso, In Advance of the Broken Arm (In anticipo per il braccio rotto) un badile da neve di produzione industriale che appende al soffitto. Ripensando allo scolabottiglie del 1913, Duchamp manda una lettera alla sorella a Parigi pregandola di scriverci su qualcosa:

Dunque, quando sei salita nello studio hai visto la ruota di bicicletta e lo scolabottiglie. Io ho acquistato quest'ultimo come una scultura già compiuta. Ho un'idea in proposito: stai a sentire. Qui a New York ho comprato alcuni oggetti dello stesso stile e li ho chiamati "ready-made", tu sai abbastanza di inglese per comprenderne il significato di "già compiuto" che ho assegnato a questi oggetti – io li firmo e vi scrivo qualcosa in inglese. Ti darò qualche esempio: ho comprato una grande pala da neve sulla quale ho scritto In Advance of the Broken Arm... non cercare troppo di interpretare questo in senso romantico o impressionistico o cubistico – non ha niente a che fare con tutto ciò... Tutto questo preambolo per uno scopo: prendi lo scolabottiglie, ne farò un ready-made da lontano. All'interno dell'anello inferiore, scrivi la frase che ti indico a parte in piccole lettere di color bianco argenteo dipinte con un pennello e firma nelle stesse lettere: Marcel Duchamp.


A rendere tale l'opera d'arte non è quindi la forma, ma può essere qualunque cosa, anche il titolo, purché tradisca l'intenzionalità dell'artista. Più tardi Duchamp riassumerà il senso della scoperta: "A ready-made is a form of denying the possibility of defining art". Per l'arte questa affermazione avrà lo stesso potere disgregante che ha avuto la scoperta della relatività per la fisica.

Duchamp sperimenta con numerose variazioni l'idea, sino a pensare di eleggere a ready-made il Woolworth Building, allora, con i suoi 241 metri d'altezza, il più alto grattacielo del mondo. Tutto, sembra dire, può trasformarsi in arte e, in effetti, mai arte e vita sono apparse tanto prossime. In realtà è l'opposto: se qualunque oggetto può diventare opera d'arte, l'artisticità diventa impalpabile, impercettibile dai più. Generando paradossi e controsensi su cui giocare.

Non sono pochi i parallelismi tra il metodo di Duchamp e le teorie di Šklovskij, soprattutto per quanto riguarda l'approccio obliquo che contraddistingue l'attività artistica, quella "mossa del cavallo" che gli permette sempre di spiazzare il pubblico, imponendo nuovi punti di vista alla realtà.

A metà tra un ready-made e uno scherzo è un orinatoio, intitolato Fontana, che l'artista produce nel 1917 in occasione della mostra della Society of Indipendent Artist, firmandolo R. Mutt. L'unico requisito per la partecipazione all'evento è pagare una quota di sei dollari che il fantomatico Mutt regolarmente versa. Subito vengono sollevate obiezioni dai commissari ignari dello scherzo, sino alla decisione di impedirne l'esposizione presa con una risicata maggioranza.

Duchamp e l'amico Walter Arensberg – che conosce i retroscena perché insieme a Joseph Stella ha aiutato Duchamp a comprare l'oggetto – dopo aver lottato invano contro l'esclusione, danno le immediate dimissioni dal comitato direttivo della mostra, di cui sono membri. Si solleva uno scandalo. William Glackens, il presidente del comitato, si discolpa dichiarando alla stampa che l'oggetto "secondo nessuna definizione può essere considerato un'opera d'arte". L'orinatoio è fotografato da Alfred Stieglitz. La foto compare sul secondo numero della rivista "The Blind Man", pubblicata da Duchamp e amici, insieme a un editoriale dal titolo The Richard Mutt Case. Vi si legge: "La fontana di Mr. Mutt non è immorale, sarebbe assurdo, come dire che una vasca da bagno è immorale. [...] Che Mutt l'abbia fatta con le proprie mani o meno non ha importanza. Egli l'ha SCELTA. Ha preso un oggetto quotidiano, collocato in modo tale da fargli perdere il proprio valore funzionale sotto il nuovo titolo e punto di vista – ha creato un nuovo pensiero per l'oggetto...".

Il testo di "The Blind Man" è quasi una dichiarazione di poetica: l'arte è sfuggente, una funzione piuttosto che una forma nel senso tradizionale. Se poi vogliamo leggere insieme testo e retroscena dell'intera vicenda Mutt, appare chiaramente che per Duchamp ogni opera ha una componente giocosa, paradossale, umoristica. Ma l'umorismo, come hanno dimostrato Bergson, Pirandello, Freud, è contraddizione, paradosso. Solo a questa condizione è infatti possibile pensare a un sistema aperto, in continua definizione, e quindi a priori indefinibile. Perché, come in un loop logico, discorso e metadiscorso si confondono, e ogni opera è al tempo stesso ragionamento sull'arte e oggetto di questo ragionamento. Vive cioè in una condizione strutturalmente paradossale. La stessa da cui, in questi stessi anni, gli scienziati stanno cercando di disincagliare il discorso scientifico, si pensi per tutti al lavoro di Russel, Whitehead e Wittgenstein sulle logiche assiomatiche.

Vista in questa luce, l'opera di Duchamp – che, detto per inciso, è un attento lettore di cose matematiche e in particolare delle opere di Poincaré – è un'esplicita rivendicazione della fertilità del paradosso, dell'impossibilità di trasporre nei termini del linguaggio e del ragionamento scientifico l'esistenza. È in questo orizzonte, in cui la vita è molto più di un insieme logico e ordinato di fatti, che i dadaisti scoprono le coincidenze del caso, distruggono le certezze dell'occhio, trovano nuove definizioni dell'arte, smantellano i confini delle discipline, riscoprono il potere dell'analogia, dei suoni senza senso, delle immagini senza referente, dei discorsi inintellegibili e senza costrutto.

Vi è in questo atteggiamento, come vorrebbe Virilio, un certo compiacimento epocale per la velocità, la frammentazione e la violenza, ma vi è soprattutto dell'altro: la rivendicazione di una razionalità superiore che si oppone alle astratte semplificazioni della cultura ufficiale. Se quest'ultima produce la guerra meccanica, Dada non può che rinnegarla denunciando i finti valori che tale cultura ha generato. A tal fine assorbe dalle avanguardie dell'anteguerra – espressionismo, cubismo, futurismo – ciò che vi è di più energico, dirompente e innovativo, rimettendolo in gioco. Lo restituirà in forma aperta e problematica anche agli altri movimenti coevi, quali De Stijl e purismo, che quando vogliono ritrovare elasticità e svecchiarsi dovranno attingere proprio allo spirito dada. Da quest'opera di scoperta di nuovi territori e di sistematica rottura dei vecchi confini nasce la cultura artistica contemporanea.

Dada non produce una propria architettura. Secondo alcuni critici non potrebbe essere altrimenti: perché è più un atteggiamento che uno stile e perché è molto difficile produrre contraddizione, analogia e non senso in edilizia. Infatti – se si escludono alcuni allestimenti di mostre o eventi effimeri in cui artisti-architetti come Kiesler, con grande abilità, giocano sui temi del disincanto, della contraddizione, dello stupore – saranno costruite solo due piccole, anzi piccolissime, opere dadaiste. Più sculture che architetture. Una è la porta dello studio di Duchamp che è, sempre e nello stesso tempo, aperta e chiusa, essendo l'anta incernierata a metà di due bucature poste tra loro a 90 gradi e quindi destinata a chiudere solo l'una o l'altra. L'altra è il Merzbau, un ambiente costruito da Kurt Schwitters con oggetti di ogni tipo: a metà tra un oggetto esistenziale tridimensionale e un'opera di interni.

Escludendo queste due opere – che, per quanto minute, saranno in ogni caso un punto di riferimento per le sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta – Dada agirà per vie traverse: evidenziando il carattere relativo di ogni formalismo, introduce il valore del caso, dell'associazione libera, del non programmato, liberando il valore del significante dal peso del significato, mostrando l'aspetto tragico e giocoso del meccanico. E così facendo influenzerà in un modo o nell'altro i principali architetti operanti negli anni Venti e Trenta. Adolf Loos, per esempio, costruisce la casa di Tzara; Kiesler frequenta Duchamp e realizza un'opera tratta da un suo disegno; van Doesburg affianca la sua attività neoplastica con una parallela dadaista gestita con il nome di I.K.Bonset, Le Corbusier attraverso i surrealisti sperimenta gli oggetti a reazione poetica.



7. Theo van Doesburg e De Stijl

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"De Stijl", come Dada, non è un movimento. È il titolo di una rivista pubblicata nel 1917, grazie al lavoro di un personaggio multiforme: Theo van Doesburg, pittore, scultore, fotografo, critico d'arte, poeta e, all'occorrenza, architetto.

Van Doesburg ha indubbie capacità di aggregare persone intorno a un progetto. Riesce a coinvolgere nella rivista gli architetti Jacobus Johannes Oud, Jan Wils, Robert Van't Hoff e Gerrit Rietveld, i pittori Piet Mondrian, Bart van der Leck, Vilmos Huszár, lo scultore Georges Vantongerloo. Spera anche di attirare artisti quali Picasso e Alexandr Archipenko. E, attraverso Oud, che gli è vicino, contatta Berlage, padre spirituale dell'architettura olandese, il quale però lascia cadere l'offerta. La rivista, con tiratura di circa mille copie, sarà pubblicata dal 1917 al 1928, anche se già a partire dai primi anni si accumulano malumori dovuti alla differenza dei caratteri. Oud è un pragmatico, Mondrian un ascetico, Van't Hoff un sognatore che nel 1918 non esiterà ad abbandonare la professione di architetto.

Nel 1918 van Doesburg litiga con Huszár, nel 1919 con Wils e Van't Hoff, nel 1921 con Oud, nel 1922 è il turno di Mondrian. Energico, proteiforme e imprevedibile, ha un carattere che alla lunga lo rende insopportabile. I suoi amici sanno che è capace di accanirsi per un'intera serata contro una teoria, che il giorno dopo sostiene attribuendosene la paternità. Coltiva intense passioni e forti rancori. Non esita nel 1921 a trasferirsi a Weimar, dove l'anno dopo allestisce due controcorsi, antagonisti al Bauhaus, per denunciarne le derive espressioniste.

Ecco gli estratti di una lettera di Gropius del 1952, pubblicata da Bruno Zevi in Poetica dell'architettura neoplastica. Sono passati trent'anni, van Doesburg è morto da oltre venti, eppure il tono di Gropius, in altre circostanze sempre accorto e diplomatico, fa trapelare una ferita ancora aperta:

Non ho mai invitato van Doesburg al Bauhaus. Egli venne di sua iniziativa perché era attratto dal nostro curriculum di studi. Sperava di diventare professore al Bauhaus, ma io non gli detti un posto perché lo giudicai aggressivo e fanatico, con una visione teorica piuttosto ristretta che non tollerava diversità di opinioni. Quando si accorse di non riuscire a diventare professore, si comportò in modo abbastanza scorretto cercando di minare il mio prestigio e quello degli altri professori presso gli studenti. Fece molta impressione su alcuni di essi, ma non riuscì nel suo scopo e alla fine se ne andò.
Il carattere proteifome, unito a una forte personalità, indurrà van Doesburg ad attivare ogni forma di sperimentazione. Anche a costo di cambiare nome, per sfuggire al giudizio dei detrattori o degli amici che, come Mondrian, perseguono strade più rigorose. A partire dal maggio del 1920, firma scritti e poesie futuriste e dadaiste con lo pseudonimo di I.K. Bonset e, dal 1921, usa il nome italiano di Aldo Camini per alcuni scritti. Il neoplasticismo è per lui una strada, non la formula decisiva. Nel 1922 lancia la rivista dadaista "Mécano", nel 1926 pubblica il nuovo manifesto elementarista, dove rompe con la staticità delle linee perpendicolari.


Van Doesburg incontra Mondrian qualche mese prima di Oud, nel febbraio del 1916. Sono gli anni in cui il pittore si intrattiene lungamente con il filosofo Schönmaekers, sacerdote cattolico conquistato dalla teosofia. "La sua base", scriverà van Doesburg, "è esclusivamente matematica, l'unica e sola scienza pura e punto di riferimento unico per i sentimenti. Per questo motivo un'opera d'arte secondo lui deve poggiare sempre su criteri matematici. Mondrian applica questi principi servendosi, per raffigurare i suoi turbamenti emotivi, delle due forme più pure e cioè le linee orizzontali e verticali."

È Mondrian che inventa il termine neoplasticismo, quando nelle pagine di "De Stijl" cercherà di definire la propria concezione della pittura, usando l'espressione nieuwe beelding ("la nuova immagine del mondo", che noi traduciamo con "la nuova plastica" o il "neoplasticismo").

Interessato alla pittura di Picasso, Mondrian – nel 1912 è a Parigi – interpreta il cubismo come una semplificazione progressiva della forma, a partire da un punto di vista astratto e matematico, piuttosto che come una scomposizione che riarticola l'oggetto in masse plastiche. In opere quali L'albero, eseguite tra il 1910 e il 1912, parte da un'immagine realistica per arrivare, per progressive semplificazioni, a un gioco elementare di segni semplici, posti in equilibrio fra loro, in cui l'oggetto è a malapena riconoscibile. Una strada simile compie negli stessi anni anche van Doesburg.

Per Mondrian, però, la pittura è infinito gioco di equilibrio tra i principi della simmetria e dell'asimmetria, di ponderazione fra diversi pesi dei colori e delle linee. Per van Doesburg l'astrazione è invece un detonatore di energia plastica. Tra il 1917 e il 1918, Mondrian lavora su tele fatte di minuscoli tratti verticali e orizzontali che incrociandosi determinano un equilibrio complessivo e, poi, su composizioni di piani di colore: su fondo bianco e in seguito all'interno di un reticolo segnato da spesse linee orizzontali e verticali. Rappresentano un'istanza di spiritualizzazione della realtà. Calvinista, ascetico e per nulla mondano, Mondrian crede nel valore atemporale delle idee. Detesta il mutamento e la natura, e ha paura della precaria esuberanza della vita. Raccontano gli amici che rifiuta, addirittura, di prendere a tavola il posto di fronte alla finestra per evitare di vedere un albero o un frammento di prato.

La leggenda vuole che lo scontro tra Mondrian e van Doesburg nasca a proposito delle linee oblique, tabù per il primo, essenziali per il secondo. In realtà non si potrebbero concepire due personaggi più diversi. Nota Zevi:

In van Doesburg si nota la rapidità, la trepidazione sperimentale, la fretta di acquisire un linguaggio e insieme la volontà di non restarne impigliato, cioè il coraggio di distruggere continuamente il proprio io, per riuscire a costruirne uno nuovo; in Mondrian invece l'inalterabile, arcana pazienza che mira a componimenti insindacabili. Theo è un pittore critico, escavatore di nuovi mezzi espressivi; Mondrian un poeta.

Per Mondrian l'astrazione è il modo per esorcizzare l'energia del cosmo, per l'altro il mezzo per giungervi. Non a caso van Doesburg sarà interessatissimo al tema della quarta dimensione, che invece lascerà del tutto insensibile Mondrian. E sembra pensato apposta per lui e per i suoi amici dada l'esempio einsteiniano per spiegare la relatività generale, pubblicata nel 1916: un ascensore che precipita nel vuoto, mentre dentro si svolgono semplici esperimenti.

Van Doesburg conosce Oud sempre nel 1916. È Oud a prendere l'iniziativa, scrivendogli di aver appreso da un comune conoscente dell'idea di fondare a Leida un'associazione di pittori. Propone di ammettervi anche gli architetti: il 31 maggio nasce l'associazione De Sphinks, di cui Oud è presidente e van Doesburg secondo segretario. Oud propone a Theo di aiutarlo, come esperto del colore, in alcuni incarichi di architettura. Al di là della reale importanza sia degli edifici sia degli interventi cromatici – in realtà modesti – la collaborazione serve a chiarire a entrambi le idee sul rapporto tra le arti figurative e l'architettura. Per Oud l'intervento dell'artista è del tutto decorativo, serve a far risaltare alcune parti della costruzione all'interno di una concezione spaziale complessiva decisa dall'architetto. Per van Doesburg è il gioco dei piani colorati che ristruttura lo spazio, trasformando l'architettura in un evento plastico, cioè deoggettualizzandola.

Le differenze, dopo alcune collaborazioni, emergono e, nel 1921, i due si separano, a causa del progetto per gli alloggi dei blocchi VIII e IX di Spangen, a Rotterdam. Oud obietta che il colore proposto da van Doesburg potrebbe avere controindicazioni pratiche – il giallo per i portoni, per esempio, è soggetto a sporcarsi con facilità – e, in alcuni casi, i toni sono troppo accessi. Theo gli risponde: "O così o niente".

L'architetto – lo aveva già compreso l'artista Bart van der Leck a seguito dei difficili rapporti di collaborazione con Berlage – non può accettare di realizzare un contenitore che viene annullato dal pittore. Dal 1922 Oud non si considera più parte di De Stijl.

Van Doesburg impara la lezione. Capisce che per ottenere un edificio neoplastico non dovrà sovrapporre il suo intervento pittorico al lavoro di un altro, bensì progettare un'architettura in cui valori pittorici e spaziali trovino unità sin dal momento della loro concezione. Non avendone gli strumenti tecnici, lo farà attivando una fruttuosa collaborazione con il giovane architetto Cornelis van Eesteren; lo vedremo nel prossimo capitolo.

Oud, anche dopo il distacco dal movimento, realizza alcune costruzioni che ricordano gli stilemi De Stijl. Tra questi il caffè De Unie del 1924. Si tratta però di assonanze stilistiche. Le tappe successive del suo percorso saranno un raffinato funzionalismo con tre capolavori e poi un sempre più asfittico classicismo.

Nella ricerca di una nuova spazialità saranno paradossalmente più coerenti Wils e Van't Hoff, i quali intenderanno il neoplasticismo come il pretesto per smantellare la scatola e articolare in piani le loro costruzioni. Sono influenzati da Berlage e, attraverso di lui, da Wright. Entrambi producono tra il 1914 e il 1918 alcuni edifici che ricordano le Prairie House di Chicago. Van't Hoff si reca addirittura in pellegrinaggio in America nel 1914. Del primo segnaliamo il delizioso padiglione nel parco pubblico di Groningen (1917); del secondo la residenza estiva di J.N. Verloop (1914-15) e la villa Henny, detta Betonvilla perché è realizzata in cemento armato prefabbricato. Sono edifici di qualità, ma sostanzialmente di scuola. Van't Hoff, forse, avrebbe avuto le carte per diventare uno dei più sensibili architetti olandesi, se, sconvolto dalla guerra e dagli eventi politici, non avesse appeso la squadra al chiodo, firmandosi da allora in poi "ex architetto".

Una parola, infine, su Gerrit Rietveld, che nel 1924 sarà autore di una costruzione a Utrecht di particolare interesse, la casa Schröder, su cui torneremo nel prossimo capitolo. Nel 1917, o forse nel 1918, Rietveld la anticipa realizzando la celeberrima Sedia rosso-blu (la versione finale, così come noi la conosciamo, è però del 1923). L'oggetto, per quanto minuto, chiarifica il problema del rapporto tra pittura e costruzione che sta assillando van Doesburg e avvelenando i suoi rapporti con Oud. Colore e forma, se vogliono interagire con efficacia, non devono essere pensati separatamente, ma nell'unità della superficie. Sarà il piano – sfuggente, colorato, dinamico – e non il volume – rigido, stereometrico, centralizzante – lo strumento della nuova architettura.

È importante notare che, negli anni in cui si diffonde De Stijl, si sviluppa in Olanda la cosiddetta scuola di Amsterdam, i cui principali esponenti sono Johann Melchior van der Mey, Michel de Klerk, Piet Kramer, Hendricus Theodorus Wijdeveld. Fautori di un'architettura esuberante, curata nei dettagli, quasi espressionista nell'esasperazione di forme e motivi provenienti dalla tradizione, ottengono numerosi incarichi di rilievo dall'amministrazione cittadina, soprattutto di edilizia residenziale pubblica, nelle nuove zone a sud, ovest ed est della città.

Van Doesburg considera le architetture di questi progettisti come un retaggio del passato, accomunandole nel suo odio alle opere degli espressionisti tedeschi. In effetti molti lavori si limitano al disegno di facciate su impianti tradizionali dettati dalle imprese edilizie e a volte sono stucchevoli nel loro eccesso decorativo. Tuttavia alcune fanno decisamente eccezione. Tra queste la produzione di de Klerk e in particolare un'opera progettata nel 1917, ma completata nel 1921. È l'ultimo di tre blocchi abitativi che gli vengono commissionati prima da Klaas Hille e poi dalla Eigen Haard.

L'edificio, che insiste su un blocco triangolare, ingloba abilmente una scuola preesistente e raggiunge un grado di elaborazione spaziale che rimarrà ineguagliato nell'architettura olandese di quegli anni. Ecco come il critico Reyner Banham, certo non morbido verso questa tendenza, ne scrive nel suo Architettura della prima età della macchina:

Praticamente l'intera scuola di Amsterdan fu de facto colpevole di un superficiale facciatismo nelle opere compiute intorno all'Amstellaan, dove per contratto i progettisti vennero chiamati da impresari privati semplicemente a erigere i fronti, ma allo Spaarndam e nel blocco triangolare che fronteggia la Zaanstraat in particolare, de Klerk non può essere ritenuto responsabile per crimini compiuti altrove per le sue connessioni culturali. In questo blocco gli spazi interni ed esterni, le costruzioni principali e secondarie, le aree pubbliche e private sono collegate e integrate con una acutezza e capacità di controllo del risultato che non aveva eguale in Olanda nel 1917, l'anno del suo disegno, e che lo stesso Oud probabilmente non eguagliò mai, anche se lo avrebbe voluto.


In effetti, con questo edificio de Klerk risolve almeno quattro problemi verso cui gli architetti neoplastici mostrano un certo affanno. Sono:
– primo: la gestione di un complesso edilizio in cui siano compresenti i caratteri della diversità e dell'unità, anche a costo di cadere nel pittoresco, ma senza precipitare nel vernacolare. De Klerk la ottiene attraverso tracciati regolatori, appresi da Berlage (e utilizzati, per la verità, con molta più maestria e creatività, anche da Wright). Questi ordinano senza costringere, ammettendo quella diversità che per altra via sarebbe ingestibile;
– secondo: la precisione del dettaglio, la ragionevolezza della costruzione senza forzare l'edificio in astratti schemi geometrici, che ne comprometterebbero la gestione in termini di manutenzione e durata nel tempo;
– terzo: il soddisfacimento dell'utenza affascinata dalle trovate plastiche, quasi fiabesche, e attratta dalla scala umana dell'edificio, anche grazie alla capacità di de Klerk di articolare lo spazio complessivo in unità minori;
– quarto: l'integrazione con il contesto urbano e il controllo architettonico ineccepibile degli spazi semipubblici. De Klerk sa progettare il vuoto: inventa una piazzetta sul retro, caratterizzata, da una torre di gusto popolaresco, e articola l'interno con spazi di eccezionale fascino, che tollerano anche l'inserimento, ai limite del kitsch, di una sala per riunioni che ricorda l'edilizia rurale olandese.


Sono numerosi gli architetti contemporanei di de Klerk che ne riconoscono l'eccezionale bravura. Tra questi Bruno Taut, che nel libro del 1929, Das neue Baukunst in Europa und Amerika, lo ricorderà come "un maestro dotato di grande talento che edificò le nuove residenze secondo i principi di una architettura diversa. [...] I suoi giochi formali, anche quelli che appaiono arbitrari, conferiscono a questi primi tentativi un fascino particolare, di un livello comunque più alto in rapporto al precoce decadimento dell'architettura ordinaria".

Nel 1918 uscirà la raffinata rivista "Wendingen". Sino al 1931 pubblicizzerà le opere di de Klerk e della scuola di Amsterdam e farà sentire la sua voce diffondendo i principi dell'organicismo e dell'espressionismo in Olanda e in Europa.



8. Il purismo e il ritorno all'ordine

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Dopo due anni di lavoro nello studio di Perret, tra il 1908 e il 1909, e cinque mesi nello studio di Behrens, nel 1910, Charles-Édouard Jeanneret, più tardi noto come Le Corbusier, non poteva non essere influenzato dalla forte personalità dei due architetti. Anche a costo di tradire gli insegnamenti del maestro Charles L'Eplattenier, con il quale ha studiato nella città natale di La Chaux-de-Fonds. L'anno dopo, nel viaggio in Oriente – dove in sei mesi tocca Praga, Vienna, Budapest, la Serbia, la Romania, la Bulgaria, la Turchia, la Grecia e l'Italia – rimane affascinato dal mondo mediterraneo, letto in chiave classica. Charles Jencks, nella monografia dal titolo Le Corbusier and the Tragic View of Architecture, riassume in cinque gli insegnamenti che Jeanneret trae dal viaggio. Sono: i volumi elementari, quali sfere, cubi, piramidi, delle moschee di Costantinopoli; la semplice bellezza e l'austera moralità di interi villaggi con edifici dipinti di bianco; l'orrore per l'eclettismo stilistico e l'eccesso di decorazioni patito nei bazar turchi; il piacere di vivere con oggetti essenziali così come fanno i monaci nel convento del monte Athos; la precisione del dettaglio, la chiarezza e l'onestà strutturale del tempio greco. Il Partenone, in particolare, gli appare come una macchina perfetta.

Dirà:

Siamo nell'inesorabile dominio del meccanico [...] le modanature sono perfette e ben saldate [...] tutto questo meccanismo plastico è realizzato in marmo con il rigore che noi abbiamo imparato ad applicare alla macchina. L'impressione è di un acciaio a vista perfettamente trattato.


Opera d'arte come macchina e macchina come opera d'arte. L'equazione non è nuova. L'hanno già tentata i futuristi paragonando un'automobile alla Nike di Samotracia. Ma, mentre questi utilizzano polemicamente l'accostamento per affermare che è cambiato il concetto di bellezza e che d'ora in poi l'estetico si dovrà cercare nel dinamismo, per il giovane Jeanneret la corrispondenza è quasi letterale, investe un principio ideale. Macchina e opera d'arte condividono la stessa ansia di chiarezza, di precisione, di onestà strutturale, di economia.

Qualcuno, scherzosamente, ha notato che il giovane Le Corbusier osserva il più importante tempio greco con gli occhi di uno svizzero che guarda gli ingranaggi di un buon orologio. E, in effetti, vi è in nell'equazione una sopravalutazione delle valenze estetiche della matematica, una preoccupante idealizzazione della tecnica e un disprezzo per i manufatti in cui l'utile non si manifesti con le forme pure della geometria euclidea.

Quindi nessun equivoco funzionalista. Se più tardi Le Corbusier parlerà dell'alloggio come di una macchina per abitare, lo farà solo perché penserà alla perfezione dell'oggetto meccanico, perché cercherà di ricreare l'assolutezza plastica di un oggetto classico. Tanto è vero che stigmatizzerà le ricerche delle correnti funzionaliste più radicali e gli sfuggiranno le ricerche sul grado zero della forma che, a partire da quegli anni – si pensi a Dada e Duchamp – stanno producendo inaspettati risultati.

Infine, lo preoccuperanno le istanze individualiste o spiritualiste che muovono larga parte della produzione espressionista e organica a lui contemporanea. Da qui le fondate accuse d'insensibilità provenienti dal sanguigno Häring – con cui avrà una polemica feroce – e gli attacchi di neoaccademismo che gli muoveranno critici più avveduti quali Karel Teige.

L'ossessione matematica non abbandonerà Le Corbusier anche quando, avanti negli anni, orienterà la sua ricerca su forme più espressive. Basti pensare al Modulor, un'unità di misura delle proporzioni umane basata sulla sezione aurea, sviluppata tra il 1942 e il 1948.

Nel 1912 il venticinquenne Jeanneret, pur sentendosi soprattutto un pittore, apre a La Chaux-de-Fonds uno studio di architettura. Nel dicembre 1914 lavora a un progetto di case a basso costo, in vista della ricostruzione postbellica. Applica il principio dell'ossatura in cemento armato. Le forme sono particolarmente semplici, le case disposte secondo razionali principi di organizzazione urbanistica, forse secondo quanto appreso da Tony Garnier, incontrato nel 1907 a Lione, il quale sta ragionando da tempo sui progetti di un'ideale città industriale per 35.000 abitanti, alloggiati in isole residenziali di 30 x 150 metri (i disegni di Garnier saranno pubblicati in volume solo nel 1917 e ripubblicati in parte da Le Corbusier su "L'Esprit Nouveau" nel 1920).

È la città più che l'architettura che affascina il giovane progettista, che sogna una città perfettamente funzionante sui moderni principi da lui individuati. Ha in programma di scrivere un libro dal titolo La construction des villes. A tal fine si reca a Parigi, dove va a consultare materiale documentario presso la Biblioteca nazionale. Nel 1922 disegnerà un progetto per una città contemporanea per tre milioni di abitanti.

Tra il 1916 e il 1917 realizza villa Schwob, una costruzione fortemente stereometrica, le cui masse imponenti e classicamente articolate sono accentuate da un monumentale cornicione che le circonda. È la definitiva presa di distanza da ogni estetica romantica a favore dei metodi di composizione Beaux-Arts.

Nel 1917 si trasferisce a Parigi. La Francia è segnata dalla guerra in corso. Jeanneret s'impegna come uomo d'affari e imprenditore con la Societé d'entrerprises industrielles et d'études e la Briqueterie d'Alfortville, una fabbrica di mattoni. L'esperienza lo impegna sino al 1921, quando la fabbrica chiuderà in grave perdita. Per quanto si abbeveri di Nietzsche, autoconvincendosi di essere un duro che opera con freddezza nella spietata metropoli contemporanea, l'artista non riesce a trasformarsi in imprenditore.

Nel maggio del 1917 incontra il pittore Amédée Ozenfant, già direttore tra il 1915 e il 1916 della rivista "L'Elan", una pubblicazione vicina al cubismo. I due diventano amici, condividendo una medesima insoddisfazione verso gli atteggiamenti distruttivi delle avanguardie e un bisogno comune per nuove leggi su cui fondare la pittura e le altre arti.

Nel 1918 nasce il purismo. È una rilettura del cubismo alla luce del classicismo e dell'estetica industriale i cui principi si trovano nel libro Après le cubisme. È un testo scritto a quattro mani, in cui si denuncia la morte di un certo tipo di avanguardia: in primis, Dada e cubismo. "La decadenza", si dice, "è prodotta dalla disinvoltura nel fare e dalla pigrizia nel fare bene, dalla sazietà per la bellezza e dal gusto per il bizzarro." E poi: "Noi abbiamo oggi anche i nostri Partenoni, la nostra epoca è meglio equipaggiata di quella di Pericle per realizzare l'ideale della perfezione".

Il primo capitolo è un attacco al cubismo, il secondo un'esaltazione dello spirito moderno, il terzo è dedicato alle leggi e in particolare alla selezione naturale che porta alla produzione di forme pure e standardizzate. Jeanneret e Ozenfant formano coppia fissa. Così li descriverà nei primi anni Venti Jean Epstein, cineasta d'avanguardia: "I due reverenziali fratelli puristi, così erano spesso chiamati, erano entrambi seri e vestiti completamente di nero, in uno studio dove ogni sedia, ogni tavola e ogni pezzo di carta aveva un suo uso strettamente determinato. Mi intimidivano terribilmente". Dipingono nature morte che ricordano vagamente i quadri metafisici. Vi è però minore straniamento e maggiore esattezza. Anche grazie all'uso dell'assonometria, spesso con i due assi coincidenti, per non discostarsi troppo dalle proiezioni ortogonali, e cioè dalla precisione del disegno tecnico.

Nell'ottobre del 1920 esce il primo numero di "L'Esprit Nouveau". La rivista dispone di scarsi mezzi, anche se, grazie all'uso di pseudonimi con i quali i due si firmano, sembra vantare numerosi collaboratori. Uscirà per pochi anni, ma avrà un importante influsso sull'architettura contemporanea. Ne parleremo nel prossimo capitolo.

Luigi Prestinenza Puglisi
L.Prestinenza@agora.stm.it



(2. continua)

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