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Sopralluoghi

Last trip to Tulsa

Pietro Valle

On the Road attraverso l'Oklahoma, Pietro Valle scopre due gioielli "straniati" di Frank Lloyd Wright, la Lloyd Jones House a Tulsa (1929), canto del cigno dei progetti con i textile blocks, e la Price Tower a Bartlesville (1952-55), frutto di trent'anni di ricerca sui grattacieli con la struttura a sbalzo.



"Oklahoma is OK" recitano le targhe automobilistiche giocando sull'analogia tra la sigla di questo Stato e l'ottimismo del pollice alzato. Qui, però, di positivo sembra esserci ben poco: la regione è una piatta prateria insignificante, le città scorrono via indifferenti. La noia regna sovrana e bisogna inventarsi qualcosa per ammazzarla. Vengono in mente una vecchia canzone di Neil Young che parla di visioni sull'autostrada, le perversioni dei teenager locali nelle immagini del fotografo Larry Clark e gli equilibrismi delle architetture di Bruce Goff, questi ultimi entrambi originari della zona.

[02nov2004]
È Goff il target del viaggio, è per lui che abbiamo deciso di attraversare questo nulla: i nostri occhi sono pieni delle immagini di case a spirale, di teepee impossibili, di strani avvolgimenti. Perché l'America si può scoprire solo attraverso le figure che ci hanno già passato i media? Perché la percezione avviene attraverso la verifica di quello che già pensiamo di sapere? La conoscenza dei luoghi è già mediata ancora prima di averli incontrati, siamo destinati ad attraversare il mito e guardarlo dall'altra faccia dello specchio. Se siamo insicuri, cercheremo di confermare quello che sappiamo già. Se non abbiamo bisogno di rassicurazioni, andremo a vedere cosa c'è dietro le quinte.

Tulsa è una città tutta Art-Deco, Goff si rivela presto una delusione: le case sono spesso nascoste, quando sono visibili, le loro contorsioni si ripetono alla noia. Anche lui ha cominciato con lo stile zig-zag degli anni '30: la sua prima chiesa si confonde con le torri del downtown. Dopo questa, c'è l'involuzione in un organicismo autoreferenziale che sembra quasi perverso. La provincia produce mostri che si ripiegano su se stessi. Questa non è ricerca sull'abitare, è una sorta di riflesso psicopatico che implode all'infinito. Più interessanti sono i frammenti di abitare altro depositati da Frank Lloyd Wright che scopriamo quasi per caso lungo la strada. Almeno loro parlano di altri luoghi, di altre ricerche: proiettano la loro ombra molto lontano e sembrano capitati qui quasi per sbaglio.


Bruce Goff, chiesa, Tulsa 1932.

Lloyd Jones, corte 1930.


Lloyd Jones, ingresso 1930.


Lloyd Jones, piante.

La casa Lloyd Jones, chiamata "Westhope" è l'unico esempio di textile blocks al di fuori della California e del clima del Southwest. Fu edificata nel 1929 per il cognato di Wright in un periodo prossimo allo spartiacque del crac di Wall Street e alla Grande Depressione. Quel momento segnò un passaggio importante nella carriera di Wright: fu la fine dei sogni degli anni '20, delle case azteche, delle decorazioni intricate, dei miti esoterici, delle comunità primigenie nel deserto. Dopo ci sono Usonia, la casa per l'uomo qualunque, i materiali poveri, il ritiro a Broadacre. Se leggiamo il monumentale portfolio In the Nature of the Materials, curato da Henry Russell Hitchcock nel 1941, Lloyd Jones viene descritta quasi con un senso di colpa. La si cita come un adattamento di un sistema costruttivo a una situazione locale che produce, caso unico, un'architettura "fin troppo monumentale" la quale deve peraltro difendersi dall'accusa di "sembrare una prigione o una gabbia". Per un Wright "usoniano" prigioniero delle ideologie che inventava, un esercizio come Lloyd Jones pareva ormai quasi una deviazione.


Millard House, Pasadena 1924.

Eppure solo qui possiamo apprezzare l'effettiva potenzialità dei blocchi di cemento al di fuori dell'aura romantica che li ha sempre accompagnati. Creati per case introverse che dovevano difendersi da un clima caldo, i concrete blocks divennero subito esercizio per squisite tessiture che descrivevano le case-scrigno losangelene. A parte la bellissima casa Millard (detta "La Miniatura") nascosta in una forra densa di eucalipti, le altre residenze californiane sono solo delle autorappresentazioni da guardare a distanza. Chiuse come fortezze, diventano estensioni dei siti scoscesi su cui si pongono ripetendone i balzi. All'interno sono invece piccole e buie: per chi le visita, la delusione è cocente. Non è un caso che Ridley Scott vi abbia ambientato l'appartamento di Dekkard/Harrison Ford in Blade Runner. Lasciato l'esterno alla porta, nulla rimane della percezione che siamo in una villa. Per questo e per altri motivi, il Wright degli anni '20, perso dietro ai suoi sogni, sembra allontanarsi da un'idea di architettura moderna che proprio in quegli anni esplode in Europa con il mito della trasparenza e dell'astrazione.

Lloyd Jones mostra invece qualcos'altro. Già nel Biltmore Hotel a Phoenix (misconosciuto perché costruito quasi esclusivamente dall'ex-collaboratore Albert Mac Arthur), Wright estende il linguaggio dei blocchi di cemento a strutture molteplici.


Biltmore Hotel, Phoenix 1927.

Qui giunge addirittura all'opposto del muro: costretto a definire un luogo nella piatta suburbia di Tulsa, decide di erigere linee di regolari pilastri che bordano tutta la casa. Non ci sono masse, piani o contrafforti ma solo un'alternanza di pieni e di vuoti verticali che piombano dal tetto direttamente ad conficcarsi nel terreno alla ricerca di un possibile radicamento. Il modulo quadrato dei blocchi di cemento si ripete nelle finestre a tutta altezza: il risultato è che c'è molta più trasparenza e spessore che nelle case californiane.


Lloyd Jones, foto 1941.

Paradossalmente si forma una sorta di tempio dal sapore quasi egizio definito da pilastri quadrati e architravi. L'edificio potrebbe dirsi razionalista con i moduli che trapassano dagli spessi pilastri ai ritmi degli infissi: il prefabbricato diventa monolite, il costruttivo diventa astratto e non è mai elemento cosmetico come a Los Angeles. Lloyd Jones sembra più parente di edifici come il Larkin a Buffalo o l'Unity Temple a Chicago che fanno del tema tettonico l'elemento pregnante. Qui però non c'è apertura della scatola perché è tutto vuoto-pilastro-vuoto-pilastro senza sosta. Il tema viene reiterato ossessivamente, il colonnato gira gli angoli senza enfatizzarli e crea prospetti egualmente importanti che si proiettano in tutte le direzioni definendo corti, ali, estensioni.


Lloyd Jones House.

In questa realtà antigerarchica, l'affaccio viene inventato continuamente, le campate si estendono senza trovare un centro, diventano stoà che descrive un percorso infinitamente deviante. È questa la risposta all'indifferenziazione della suburbia: lo spazio si proietta nel vuoto isotropo e crea incessantemente dei luoghi multipolari. C'è una bella differenza rispetto alla rigidità delle case californiane bloccate da una vista a distanza, da un affaccio privilegiato e da una posizione volutamente separata rispetto alla città. Qui siamo contemporaneamente dentro e fuori da un ordine: la tensione tra gerarchia costruttiva e antigerarchia spaziale è straordinaria. La casa, ad attraversarla, è sorprendentemente intima e raccolta. I pilastri, con i loro chiaroscuri, la fanno sembrare enorme: monumentale e domestico si raccolgono nello stesso topos e non troveranno più una sintesi così serrata nelle future residenze di Wright. Ci vorranno trent'anni per arrivare ad esercizi simili nelle architetture strutturaliste e neo-brutaliste degli anni '60, ma lì la forma aperta ha un sapore diverso. In Lloyd Jones siamo al confine di una poetica: tramonta la ricerca di una fondazione mitica (il tempio, l'arcaismo), sta per nascere una razionalizzazione produttiva (la ripetizione) che non troverà però enfasi monumentale nella futura carriera di Wright.

Abitazione "straniata", città rimossa e ricreata nella complessità domestica: questi temi si ritrovano nella curiosa Price Tower A Bartlesville, a poche miglia da Tulsa. Cosa ci fa questo grattacielo piccolo in mezzo alla prateria? Cos'è questa struttura contemporaneamente ridotta e slanciata? Scopriamo che, pur essendo stata eretta negli anni '50, ha radici negli anni '20 quando Wright cominciò a sperimentare le strutture verticali in cemento che si proiettavano a sbalzo da un supporto centrale e lasciavano il perimetro libero per essere completamente vetrate.


Lloyd Jones, ingresso.


Lloyd Jones, angolo.


Price Tower.


Price Tower, due lati.


Price Tower, coronamento.

Il prototipo erano tre piccole torri residenziali progettate per lo slum di St. Marks Square a New York nel 1929. Contro il tetro orizzonte dei tenements bui e malsani, Wright proietta dei prismi cristallini che, con la loro planimetria a girandola, sembrano cercare la luce in tutte le direzioni. Ogni piano era servito da un tronco centrale dove erano alloggiati i servizi e gli ascensori. Gli appartamenti erano quattro duplex sfalsati con le scale proiettate sull'esterno che si pongono quasi in opposizione al core interno. Percorso centripeto ed abitazione centrifuga creano due modi per risalire l'abitazione, ponendo gli utenti parallelamente protetti al centro ed esposti negli appartamenti. Questi ultimi erano alternativamente vetrati e schermati da lamelle di rame nei fronti soleggiati in modo da definire una pelle mutevole.

La pianta centrifuga funzionava per singole torri ma poteva anche aggregarsi a formare cluster complessi, veri e propri insediamenti che negavano la singolarità del grattacielo. Nei progetti per i Grouped Apartments a Chicago nel 1930 e per il complesso alberghiero Crystal Heights a Washington del 1940, Wright nega la città di singoli oggetti. In entrambi, le torri sono diventate megastrutture, Stadtkrone che si ergono contro la parcellizzazione dello sviluppo urbano legato alla city grid.


St. Marks Tower, New York 1929.

Entrambi, come pure St. Marks, saranno dei fallimenti e non verranno mai realizzati. Dopo l'avvolgente torre degli uffici della Johnson Wax a Racine del 1937, Wright troverà solo qui a Bartlesville l'occasione per erigere un grattacielo. Esso rimarrà un frammento di un'idea ben più grande, il relitto di una serie di occasioni mancate. Visto nel vuoto della prateria l'edificio è assolutamente polare, senza simmetrie. Da qualunque punto lo si guardi esso è diverso e identico nel continuo innesto di prospetti "ruotati" che sfuggono dall'involucro. Si produce un curioso effetto-giostra, uno spaesamento circolare. Dove guardano questi appartamenti? All'infinito? Al puro orientamento della luce come dei girasoli? La Price Tower sarà proiettiva ma, non avendo una direzione, finisce per chiudersi in sé. Non avendo un luogo (e non volendo definirlo), rimane un modello che pare in esposizione.

Mentre Lloyd Jones era la deformazione di un modello attuata per creare un luogo, la Price Tower rimane stazione sospesa al di sopra della realtà. Sarà questo carattere di science fiction (presente, tra altro, in altre tarde architetture di Wright, basti solo l'esempio di Marin County) a far percepire questo luogo come un altrove. Viene quasi in mente il "Condominio" di J.G. Ballard introverso e autoreferenziale che si astrae dal sito ove è posto. Lloyd Jones è contemporaneamente qui e altrove, la Price Tower è solo altrove ma essa non è statica e ruota incessantemente. Entrambi gli edifici sono segni del fallimento di idee più vaste e si legano a più di un progetto irrealizzato. Se, però, le sconfitte fossero tutte così, avremmo un mondo di frammenti significanti e non solo di immagini che scorrono via.

Pietro Valle
pietrovalle@hotmail.com

Grouped apartments, Chicago 1930.


Crystal Heights, Washington 1941.
Tutte le foto contemporanee sono di Elena Carlini e Pietro Valle. Foto storiche e planimetrie sono tratte da Henry Russell Hitchcock, In the Nature of the Materials, 1887-1941: The buildings of Frank Lloyd Wright, New York 1941. Tra il 1987 e il 1996 Pietro Valle ed Elena Carlini hanno passato sette anni negli Stati Uniti. Questo e altri scritti già pubblicati su ARCH'IT (Detroit Radiale, St. Thomas University) sono tratti da un "diario di viaggio" che Valle ha scritto nel corso di quel soggiorno.

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