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EXTENDED PLAY

This is tomorrow

di Luigi Prestinenza Puglisi

[Architettura contemporanea e avanguardia]


[29mar2000]
Nuovi valori

L' architettura radicale, quella che negli anni sessanta e settanta era una pratica esoterica riservata a una elittaria minoranza di addetti ai lavori, ha sicuramente vinto la sua battaglia. Da diversi anni le opere di Gehry, Koolhaas, Coop Himmelb(l)au, Fuksas, Hadid, Coates, Libeskind, Tschumi, Eisenman, Miralles, Ito, Stark, Nouvel, Mendini, Sottsass riscuotono, infatti, un successo di critica e di pubblico senza precedenti. Le foto del museo Guggenheim di Bilbao, per esempio, hanno fatto il giro di tutti i giornali, anche quelli tradizionalmente meno attenti all'architettura. Con un effetto pubblicitario al di sopra di qualsiasi previsione: progettato per ospitare si e no cinquecentomila visitatori l'anno, il museo a dodici mesi dell'apertura (ottobre 1997) ne aveva attirati un milione e quattrocentomila. Introito: 40 miliardi di lire. E un indotto di diverse centinaia di miliardi, secondo alcuni pari allo 0,5 per cento del prodotto interno lordo dell'intera Città basca. Con minor enfasi, ma con altrettanta ammirazione, si é parlato del piano di Euralille di Koolhaas e dell'ampliamento dell' Opera di Lione o dell' Istituto del Mondo Arabo di Parigi, ambedue di Nouvel.

Certo, sulla stampa inglese appaiono bordate contro l'ampliamento del Victoria and Albert Museum di Libeskind e una magnifica opera di Zaha Hadid quale la Cardiff Opera House può essere boicottata, sino a impedirne la costruzione. Ma Libeskind e Hadid , nello stesso periodo, hanno raccolto unanimi consensi e importanti commesse. Non ultimo dei quali il museo ebraico di Berlino di Libeskind che ha avuto ampia eco sulla stampa internazionale. Insomma: non è proprio il caso di parlare di architetti incompresi.

Sembrerebbe un controsenso: architettura radicale ma , nello stesso tempo, di successo, tanto da diventare quasi di moda. Da qui l'imbarazzo nel continuare a usare un termine che suggerisce un'attività controcorrente, incompresa dalla mediocrità dei più , proiettata sull'onda lunga. Eppure di architettura radicale è bene, a mio parere, continuare a parlare. Innanzitutto perché i protagonisti degli anni novanta hanno partecipato in prima linea ai movimenti degli anni sessanta o settanta ( é il caso di Eisenman, Isozaki, Kurokava, Coop Himmelb(l)au, Hollein, Ambasz e più tardi Fuksas, Koolhaas, Tschumi, Nouvel) oppure perché ne sono stati fortemente influenzati ( Coates attraverso Tschumi, Hadid via Koolhaas ecc...). Ma soprattutto perché si sta consumando una rottura espicita e senza precedenti verso la tradizione disciplinare dell' architettura, anche la più recente, quella per capirci del Movimento Moderno, dell' Organicismo, dell'Espressionismo, del Post Modernism. Ad essere messi in discussione sono gli insegnamenti sino a qualche decennio addietro considerati indubitabili. Al mito che la forma segue la funzione o che, comunque, sia interrelata a essa ( form and function are one, diceva Wright) si sostituisce il presupposto che entrambe possano essere tra di loro indipendenti o interdipendenti secondo modalità diverse da quelle tradizionali. Al principio che lo spazio interno debba trovare espressione all'esterno e viceversa si preferisce quello della loro possibile indifferenza o complementarietà. Al presupposto che l'edificio sia l'espressione di una struttura di parti tra di loro interrelate, sia pure attraverso dissonanze, si contrappone l'altro, più liberatorio, secondo il quale le parti possono essere anche semplicemente accostate e giustapposte. Al postulato che lo scopo dell'architettura sia il raggiungimento dell'armonia e dell'equilibrio, sia pure inteso in senso dinamico, si sovrappone l'ipotesi che sia possibile realizzare anche spazi disarmonici e stridenti. All' ideale di realizzare forme con caratteristiche di permanenza e immutabilità si sostituisce il principio della volatilità dell'immagine elettronica. E, infine, il presupposto antropocentrico è posto in crisi da spazi dislocati, fluidi, fortemente instabili.

Due tesi alternative allora sono possibili. La prima, sostenuta da alcuni critici, secondo la quale l'architettura radicale, per diventare vincente, ha abbandonato molta della propria capacità di incidere per annacquarsi in un nuovo stile gestito, con le tecniche della moda, da un sofisticato star system. La seconda, che cercheremo di sostenere in queste pagine, che, con l'immissione delle idee elaborate a partire dagli anni sessanta, l'architettura stia mutando profondamente, orientandosi verso nuovi paradigmi e nuovi valori. Insomma che stia nascendo un fenomeno tanto denso e importante da poter essere paragonato a quello che quasi un secolo addietro diede vita al Movimento Moderno.

Certo, come in tutti i movimenti che si formano, non mancano deviazioni modaiole e cadute di tono. E sempre é in agguato l'abbraccio mortale di personaggi, quali Philiph Johnson, che vorrebbero trasformare le ricerche architettoniche contemporanee in semplici fatti stilistici, per esempio attraverso l'etichetta decostruttivista intesa come un nuovo gusto verso articolazioni complesse e staticamente inquietanti. Ma la ricerca contemporanea è molto più di queste cose. Cosa, cercheremo di vedere qui di seguito.

Il cheapscape

Torniamo a Gehry. L' architetto canadese si fa notare al vasto pubblico con un'opera piccolissima. L' ampliamento della sua abitazione. Lo realizza nel 1978,in un momento di crisi, quando decide di abbandonare una attività professionale di successo per iniziare una ricerca artisticamente più gratificante. La casa solleva un certo scandalo, soprattutto tra i vicini che poco sopportano l'uso in facciata di materiali industriali poveri quali bandoni e reti metalliche.
In realtà Gehry ha operato una scelta contestuale. Bandoni e reti sono, infatti, estensivamente utilizzati, spesso anche con una certa sensibilità espressiva, nei quartieri più poveri della città, dove prevale l'esigenza di economicità e scarsa e nulla è quella rappresentativa. E sono anche installati nelle villette borghesi, ma solo per scopi utilitari, nelle zone di servizio o per realizzare depositi per gli attrezzi.

E' proprio il rovesciamento di luogo -in un contesto borghese e non in uno slum- e di funzione -in facciata e non nel retrogiardino- che fornisce all'architetto nuove possibilità espressive e indica una via alternativa per la ricerca architettonica: che sia possibile utilizzare come risorsa creativa il cheapscape -cioé l'universo dei segni degradati e compromessi del paesaggio urbano delle periferie e delle zone di margine- che produciamo, che ci circonda ma verso il quale mostriamo un atteggiamento equivoco e ambivalente, di accettazione pratica ma di disprezzo estetico.

Da qui tre conseguenze. Innanzitutto la possibilità di rinnovare la ricerca architettonica, azzerandone i manierismi e vivificandola con l' uso di un linguaggio libero da regole e costrizioni. Avremo allora, per usare un'espressione di Barthes più volte ripresa da Zevi, un grado zero di scrittura, garantito da una lingua che, rispetto a quelle colte e paludate, è sicuramente più flessibile e più aderente alla realtà dei fatti perchè meno compromessa da canoni stilistici e da apparati retorici consolidati.

Il cheapscape permette, poi, il formarsi di una nuova sensibilità per le forme e i materiali a noi contemporanei. Decontestualizzati, reti, bandoni e materie plastiche acquistano valori inaspettati: diventano schermi trasparenti, piani ondulati su cui scorre la luce, oggetti dalla forte intensità materica. Insomma: nuovi materiali, le cui insondate potenzialità espressive non sono state ancora compromesse da valori connotativi cristallizzatisi nel tempo.

Infine la nuova sensibilità verso un paesaggio urbano fatto da materiali poveri e comuni sposta il criterio del giudizio dall'ordine del bello all'ordine del vero. Il bello presuppone un' oggetto che rappresenti qualcosa che è altro da sé: una perfezione verso la quale si tende, una verità logica, la prova di un'evidenza. Il vero, invece, è la corrispondenza dell'oggetto con il suo rappresentato, il suo essere così e non altrimenti: senza maschere stilistiche, senza camuffamenti ideologici.

Dietro la scelta del cheapscape di Gehry è facile intravvedere la logica transustanziale dei ready made di Duchamp, la sensibilità decontestualizzante Dada, i materiali di scarto dei Noveaux Réalistes Francesi, e la messa in scena dell'oggetto negli happening di Karpow. Ma soprattutto la Pop Art che Gehry conosce di prima mano attraverso la frequentazione di artisti e scultori. Con uno dei quali, Oldemburg, si trova a collaborare per realizzare a Venice, Los Angeles, gli uffici dell' agenzia pubblicitaria Chiat/Day/Moyo. Ne viene fuori un insieme disorganico, composto da due edifici diversi incernierati tra di loro da un corpo di fabbrica a forma di binocolo, che funge da ingresso e da richiamo visivo.

In una intervista del gennaio 1993, Gehry attribuisce a Oldemburg la paternità dell'idea di questo oggetto iconograficamente così ingombrante. Ma ne condivide la scelta: "so quello che ho fatto, so quello che ha fatto lui. So che non ho fatto il contrario. E inoltre so che è bello e che é più fotogenico di altre cose...". Tanto che in una successiva opera, il ristorante Fish Dance a Kobe (1986/87), in Giappone, realizzerà un' altra icona, un pesce-insegna alto più di tre piani che svetta rispetto agli altri corpi di fabbrica.
Concepita come immagine-oggetto l'architettura tende a trasformarsi in scultura. Scherzosamente Oldemburg affermerà che un edificio si distingue da una statua solo perché al suo interno vi si trovano i gabinetti.

Ma il problema è più serio e va, ovviamente, oltre questa sia pur felice battuta. Il critico Pierre Restany, in un memorabile saggio dal titolo " la vita la viviamo al presente permanente", nota che si sta realizzando una sorta di scambio. Da un lato l'arte cerca di trovare un supplemento di verità proiettandosi sempre più attivamente all'interno del reale, sino a confondersi con questo. Dall'altro gli oggetti reali (cioè i prodotti di design e le architetture) si pongono sempre più come puri oggetti di scultura e di pittura, rifiutando di mostrare il loro aspetto utilitario. Ma se l' arte tende verso l'oggetto e quest' ultimo tende verso la arte, cambiano i ruoli, e si scardina definitivamente uno dei postulati del Movimento Moderno: la ben definita divisione tra gli ambiti disciplinari. Qualcosa di nuovo bolle in pentola.

Una sensibilità Pop

1994. Jay Chiat, titolare dello stessa agenzia pubblicitaria che ha commissionato l'edificio-binocolo di Los Angeles a Gehry, decide di ristrutturare la propria sede di New York. L' incarico è affidato a Gaetano Pesce, designer e architetto radicale.

Pesce verso la fine degli anni sessanta aveva progettato alcuni inquietanti mobili pop quali la moloch lamp, una lampada da terra ricavata ampliando a dismisura le dimensioni di una comune lampada da scrivania, il pugno , una invitante poltrona a forma di mano aperta e serie up, una poltrona dalla morfologia femminile che trattiene mediante una catena un sovradimensionato poggiapiede sferico. In seguito aveva lavorato con feltri, tessuti e resine, prefigurando nuove tipologie di arredo, e progettato alcuni edifici, tanto incisivi nella loro volontà di recupero e di riciclo dei materiali metropolitani, da rasentare il trash. Obiettivo: documentare il nostro tempo, infondere nuova energia all'architettura, realizzare immagini per una società evolutiva, progressiva, postmoderna che cerca, metabolizzando i propri oggetti, di ritrovare valori quali l'ottimismo, il piacere, l'innovazione, la curiosità.

La Chiat/Day, una società che per suo stesso statuto lavora nel campo della creatività, rappresenta per Pesce il cliente ideale. Intanto perché propone un programma innovativo: abolire il posto di lavoro fisso per realizzare un ambiente flessibile, infrastrutturato con le più sofisticate tecnologie elettroniche -dalla rete dei computer alle attrezzature per la videoconferenza- dove ognuno volta per volta utilizzi quello che gli serve in realizione alle esigenze dell'incarico che svolge. E poi perché richiede al progettista di realizzare un luogo di lavoro che insieme stimoli la fantasia degli impiegati e veicoli messaggi positivi per i clienti.

Il progetto di Pesce si caratterizza, innanzitutto, per un pavimento dal forte impatto iconico: resine rosse, blu e gialle delimitano i campi di un disegno a forma di volto visto di fronte e di profilo e, anche, una enorme freccia che dà la direzione d'ingresso. Poi per la scelta dei materiali: alcuni di riuso quali le videocassette sovrapposte sino a formare la parete della mediateca; altri dal forte impatto tattile, quali i feltri che rivestono i frontali dei tavoli porta-computer; altri ancora conformati in modo da suggerire immagini antropomorfe, anche inquietanti. Tra queste ultime una bucatura , realizzata in materiale plastico, che ricorda le bocche delle bambole gonfiabili in vendita nei porno-shop di tutto il mondo.

Siamo sicuramente di fronte a un'opera antifunzionalista. E, in effetti, nella sede della Chiat/Day si respira l'aria di una recuperata innocenza, che non esita a sacrificare l'utile all'inutile. Ma, come ha messo in risalto Jay Chiat, in una intervista rilasciata qualche mese dopo l'inaugurazione dell'opera, il progetto alla fine funziona anche in termini economici, dimostrando che l'equazione libertà creativa-spreco economico, non é più facilmente sostenibile. La scelta di un lay-out così poco ortodosso ha comportato,infatti, rispetto ad un'assetto tradizionale dove a ogni persona corrisponde una postazione di lavoro, un risparmio di spazio dell'ordine del trecento per cento. E un ambiente fortemente caratterizzato dal punto di vista formale è, inoltre, strumentale a una struttura produttiva che vende immagine e creatività.

Tentiamo allora un'ipotesi: che la creatività non è più giustificabile come fuga da una struttura produttiva articolata da leggi astrattamente razionali ( per esempio quelle messe in luce dal funzionalismo) ma una strategia perfettamente funzionale a questa società postmoderna. Con la conseguenza che i luoghi dove si consuma l' eccesso di fantasia non sono luoghi di evasione ma, come nota Andrea Branzi: "parti omogenee della civiltà della comunicazione, dei consumi, esempi scientifici del nostro presente...".
Se l' ipotesi è vera, urge rivalutare l'eredità della cultura radicale, che su questi temi da almeno trent' anni ha lavorato, riconoscendole una capacità prefigurativa tanto anticipatoria da essere quasi profetica.

Il compito omerico del design

Ottobre 1996. Alessandro Mendini, promotore del design radicale in Italia, scrive un articolo dal titolo: "Duemila, da che parte stare. Guida per un elenco di oggetti degni di entrare nel prossimo millennio". I prodotti di design che sforna il circuito produttivo, sostiene, non hanno un'anima; sono messi in commercio solo per rispondere a usi pratici. Un oggetto, che abbia valore antropologico, aspira, invece, a immergere "il violento consumo delle cose in un flusso narrativo, evocativo, psichico, emotivo". Solo così può diventare un sistema di utopie, di scommesse progettuali, di umori, trasformandosi in latore di un racconto che permette all'uomo "ipermoderno di spaziare nell'universo degli oggetti come in una infinita Odissea".

Riferimenti per il progettista non possono essere i prodotti industriali del Bauhaus con le loro certezze geometriche, nè le opere rinascimentali, con il loro intellettualizzato apparato simbolico. Sono piuttosto gli oggetti dei primitivi, dove linguaggio, tecnica, funzione, materia, costi, messaggio convengono nel tentativo di operare una sintesi " un risultato sano e armonico, secondo natura".

Liquidabile con facilità come un ennesimo richiamo al primitivismo, sia pur rivisto in chiave elettronica, la tesi di Mendini, ha uno specifico interesse. Vi ritroviamo il bisogno di azzeramento disciplinare riscontrato a proposito del cheapscape. Con la differenza che Mendini fa riferimento ai valori pre-economici delle società preistoriche o protostoriche, mentre l'estetica del cheapscape li ricerca nei valori post-economici della società metropolitana.

Vi è poi l'esigenza di riscoprire l'oggetto in tutta la sua complessità: di simbolo, di totem che interagisce con la coscienza e con l' apparato sensorio; quindi, oltre alla vista, anche con il tatto, l' olfatto, il gusto, l'udito. Mendini sottolinea , inoltre, l'importanza dei valori relazionali dell' oggetto -quelli che cioé permettono di trasformarlo in un medium attraverso cui innestare catene di significazioni- anteponendoli alle ricerche sulla forma in quanto tale. Da qui l'esigenza di una maggiore apertura della progettazione verso il mondo esterno e un relativo disinteresse per i rapporti che si risolvono tutti all'interno dell'oggetto, quali i sistemi proporzionali, le armonie, le articolazioni tettoniche.

Vi è infine l'esigenza di privilegiare la vitalità sulla pura razionalità. Scriveva Mendini nel 1991 " la razionalità così come mi attira, mi fa molta paura. Io non credo che i fenomeni e i processi progettuali - a parità di obiettivi- possano porsi il traguardo ideale di una perfezione organizzata dai tecnici. Io credo all'opposto che le possibili risoluzioni progettuali del futuro si trovino proprio nella vitalità indisciplinata e incontrollabile di quei milioni di esperienze individuali che sfuggono a ogni categorizzazione".

Se il razionalismo è superato dall'intensità del sentire primitivo, se al monoteismo delle costruzioni globali e onnicomprensive subentra un politeismo sperimentale e tollerante, e se, infine, all' ideale di una organizzazione strutturata della realtà si contrappongono le analisi sulle capacità di relazione degli oggetti o sulle loro caratteristiche primarie quali il sapore, l'odore, il tatto, il suono , se avviene tutto questo muta il quadro di riferimento per l'architettura.
Mendini cerca di dimostrarlo a Groningen dove nel 1995 completa il nuovo museo d' arte.

Collaborano con lui, Philippe Starck, Michele De Lucchi, Coop Himmelb(l)lau, quasi a sottolineare che per realizzare un'opera così complessa quale una casa per le arti, non sono più sufficienti sintesi individuali, ma è bene giustapporre interpretazioni di più soggetti. L'intera opera è sorprendentemente varia. All'esterno, la parte progettata da Mendini richiama, con le sue forme stereometriche, l'architettura metafisica italiana, però destabilizzata da un eccesso di decorazioni, alcune delle quali di sapore mediterraneo se non islamico. La struttura ideata da Coop Himmelb(l)au le si contrappone con le lame delle taglienti pareti che sembrano quasi scivolare dall'edificio e con il forte sapore decorativo di inconsueti pattern cromatici. All'interno, Stark adopera, per il padiglione delle arti decorative un linguaggio evanescente, fatto di tende trasparenti; De Lucchi, utilizza per il padiglione di archeologia e storia, segni della tradizione razionalista; Mendini lavora, nella sala per le esposizioni temporanee, con immagini connotate in senso metaforico; Coop Himmelb(l)au realizza, nel padiglione di arte antica, uno spazio meccanico e stridente.

E' interessante notare che nello stesso periodo in cui Mendini realizza il museo di Groningen, altri esponenti dell'avanguardia artistica, quali Rem Koolhaas, Bernard Tschumi, Peter Eisenman stanno lavorando a opere dove il concetto di totalità organica è messo in crisi. Villa Dall'Ava (1991) e Euralille (1996) sono due esempi di progettazioni, una alla piccola scala e l'altro alla scala urbanistica, dove alla logica dell'unità subentra quella dell'accostamento. Ma pur sempre si tratta di insiemi legati da un sistema comune, sia questa un sovraordinato segno organizzatore o l' unità stilistica dei pezzi. Nel museo di Groningen i contributi dei quattro team di progettazione, invece, si sovrappongono, senza reali soluzioni di continuità, proponendo un caotico microcosmo dove convivono segni e spazi che afferiscono a culture e a tendenze estranee e incomunicabili: volumi chiusi e pareti frammentate; trasparenze e masse opache; policronie sgargianti e pallidi monocromi; materiali tradizionali e industriali; spazi caldi e avvolgenti e freddi angoscianti. Afferma Mendini: " il gruppo non realizza solo il principio della superiorità dell'insieme sulla somma delle parti. Il gruppo colma il vuoto, il baratro che circonda l'idea progettuale del singolo, soddisfa il bisogno della discussione e del dubbio, e agisce come verifica prima ancora che il risultato sia ottenuto; dunque anticipa l'esito del progetto e la realizzazione dell'opera, pone l'esisto finale più sotto forma di domanda che di risposta". Se l'uomo è un moderno Ulisse, insomma, deve accettare il pluralismo, fondandolo come estetica: non può vagare protetto dalle reti di sicurezza dell'autoconvinzione e dell'autoreferenzialità, né può deprivare la realtà della sua vitale complessità, riducendola a pochi, coerenti e decifrabili segni.




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Luigi Prestinenza Puglisi
(Catania 1956), critico di architettura, scrive per le riviste Domus, il Progetto, L'Architettura-cronache e storia, Costruire. Ha pubblicato: Rem Koolhaas. Trasparenze Metropolitane (1997), Hyperarchitettura. Spazi nell'età dell'elettronica (1998), This is Tomorrow. Avanguardie e architettura contemporanea (1999).

 

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