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EXTENDED PLAY

This is tomorrow

di Luigi Prestinenza Puglisi

Il corpo


E' allora opportuno riflettere che la dislocazione implica come suo corrispettivo un rapporto con il corpo, con il quale occorerà fare i conti se non si vuole cadere in due antitetici ma, egualmente dannosi, equivoci.

Il primo è quello taylorista, messo in atto dalle ricerche razionaliste, e dalle sperimentazioni sull' existenz minimum. Secondo queste teorie il corpo può essere ridotto a una serie di standard dimensionali, i bisogni organizzati in un insieme di funzioni e lo spazio articolato in posizioni e percorsi tra di loro interrelati. Obiettivo: semplificare e standardizzare i componenti, comprimere al massimo le superfici abitative, garantire il migliore comfort ergonomico, ridurre i movimenti inutili. E' quanto, per esempio, è stato fatto dagli studi del Klein, dalla ricerca sull'abitazione razionale, dalla progettazione della cucina di Francoforte. Imposto da un bisogno di razionalizzazione e di risparmio, questo approccio ha, in breve tempo, trasformato le abitazioni in macchine. E gli uomini in automi: lo spazio compresso e perfettamente organizzato permette, infatti, alcuni movimenti e non altri, elimina l'ondeggiare superfluo, depenna dal progetto le relazioni o le funzioni giudicate inutili. Privilegia, infine, il ripetersi di movimenti sempre uguali che, attivandosi instintivamente, richiedono il minimo dispendio di energia psichica.

Il secondo equivoco è quello cibernetico, proposto da una lettura tecnicista delle potenzialità offerte dalla rivoluzione informatica. Questa, rompendo i tradizionali confini tra il corpo e gli strumenti, cioé quella alterità che vi è sempre stata tra il soggetto-uomo e l' oggetto-macchina, permette l'inserimento nel vivente di nanotecnologie e protesi elettroniche e, insieme, impone il trasporto di altre: microsensori, computer portatili, telefonini, carte di credito e sistemi identificativi. Con la conseguenza che il corpo può diventare una struttura indirizzabile, modellabile, non deperibile, comandabile a piacimento da sistemi interni o semiesterni di controllo; e l'uomo trasformarsi in automa bionico. La seconda conseguenza della rivoluzione informatica è il prevalere del virtuale sul reale e cioé della velocità degli elettroni sulla immobilità dello spazio. Immagini, parole, suoni, dati, scomposti in unità di informazione, privati della loro fisicità e ridotti a puri sistemi di relazioni, cioé a modelli virtuali, prevalgono sulla consistenza degli oggetti e sulla materialità del corpo. Da qui il pericolo di semplificazioni modellistiche del reale, di un falso quanto illimitato sistema surrogatorio, di confusioni tra il virtuale e il concreto, di impoverimenti del sistema sensorio, di omogeneizzazione dei comportamenti, di mancanza di libertà per eccesso di comunicazione, di ipereccitazione da velocità crescente.

Paul Virilio, insieme a Jean Baudrillard uno dei più acuti interpreti e critici della civiltà tecnologica, ha più volte stigmatizzato i pericoli della velocità, dell' automatismo, della perdita del corpo. E ha proposto il recupero della dimensione della danza, del teatro, dell'architettura.

"Perché i danzatori? Perché lo strumento della danza è il corpo, la corporeità. Perché la gente di teatro? Perché, al contrario del cinema, è la presenza fisica dell'attore sul palcoscenico che fa la grandezza del teatro...E gli architetti. Perché gli architetti danno riparo ai corpi, non ai fantasmi, non sono maghi".

Vicino a Virilio è Tschumi. Che però nota, che nel corso della sua storia, l'architettura si é orientata più verso l'astratto ordine dell'occhio che verso la concreta dinamica del corpo.

"Il corpo - afferma Tschumi- è sempre stato sospetto in architettura: perché ha posto i propri limiti alle ambizioni architettoniche più estreme. Disturba la purezza dell'ordine architettonico. Equivale a una pericolosa proibizione".

Ma, continua Tschumi, se il corpo contamina con la sua materialità l'architettura, è anche vero il contrario: l'architettura viola il corpo con la propria presenza. Un corridoio impone una direzione, una stanza delimita uno spazio, una finestra indirizza la vista, un ambiente angusto induce sensazioni di oppressione.

L'architettura dunque non é astratta virtualità né può essere ridotta a canone di bellezza ideale. E' piuttosto un pendolo che oscilla tra la purezza e il caos, tra spazio come costruzione mentale e spazio come pura esperienza.

Da qui, il rifiuto del funzionalismo con la sua ossessione di ridurre l'evento a movimento, di incanalare le energie. Ma anche l'indifferenza per gli eccessi stilistici del decostruttivismo e di tutte le poetiche che tendono alla cristallizzazione di forme pure, sia pur camuffate dietro l'innovazione tecnologica. Troppi architetti d'avanguardia, visti in questa luce, non sono diversi dai post modernist e dai peggiori modernisti: progettano un edificio per il momento in cui i fotografi lo ritraggono vuoto e appena finito. Ci propongono, insomma, bianchi scheletri che rifiutano la vita plasmata dal potere distruttivo del tempo e da quello rigenerativo degli eventi.

Infine una proposta teorica: sostituiamo ai termini della triade vitruviana -venustas, firmitas e utilitas- le parole più attuali di linguaggio, materia e corpo. Il linguaggio implica la concettualizzazione della mente, una idea astratta di significato. La materia sottolinea l'aspetto fisico della costruzione, la sua stabile presenza strutturale ma anche percettiva. Il corpo allude all'aspetto funzionale ma anche e soprattutto all'evento: sia questo -afferma Tschumi- una danza, uno sport o anche una guerra.

E una proposta operativa: rivalutiamo gli eventi, progettando in funzione di essi; incrociando le funzioni, lavorando sui programmi, liberando i movimenti, giocando sulla plurisensorialità, trasgredendo aspettative culturali e meccaniche ritualità.


[29mar2000]
Nulla e quasi nulla

Tra corpo e spazio lavora Rem Koolhaas. L'architettura , afferma, è come la palla al piede di un condannato, privato della libertà di muoversi a suo piacimento. Il migliore edificio è quello che non esiste: è lo spazio naturale dove nessun muro ostacola o veicola il corpo. A ispirare la riflessione di Koolhaas è sicuramente il quasi nulla di Mies, il maestro citato e copiato sino quasi a rasentare il plagio. Ma anche gli Archizoom e Superstudio, due gruppi radicali formatosi nel 1966 nel turbolento clima fiorentino degli anni della contestazione. Questi, tra il 1969 e il 1973, con No-stop City, Monumento Continuo, 5 Storie, avevano prefigurato spazi artificiali tanto grandi da occupare una intera area metropolitana, se non tutta la Terra, perfettamente illuminati e climatizzati, nel cui interno ciascuno avrebbe potuto accamparsi come meglio credeva. Ingrandendo oltre ogni limite l'architettura, ne avevano provocato di fatto la scomparsa. E avevano mostrato, sia pure con ragionamenti paradossali, che era possibile svincolare l'individuo dallo spazio funzionalista, introducendolo in una nuova dimensione simbolica e restituendogli la propria ancestrale dimensione nomadica di cui la città tradizionale l'aveva privato.

Koolhaas già nel 1972 con il progetto Exodus aveva proposto una gigantesca, quanto visionaria macrostruttura, che avrebbe dovuto radicalmente cambiare i rapporti tra il corpo e lo spazio, introducendo nuove forme di comportamento ("to create and recycle private and public fantasies, to invent, test and possibly introduce new forms of behavior"). Ma è a partire dagli anni ottanta che , rifiutato l'approccio utopista, cerca di rielaborare gli stessi temi per introdurli nella concreta produzione professionale. E per farlo attiva tre strategie.

Innanzitutto la dematerializzazione. Se i muri sono d'ostacolo al libero movimento dei corpi, occorre eroderli. Utilizzandone il meno possibile, ma anche lavorando su filtri, diaframmi, trasparenze. Nella Kunsthal a Rotterdam (1993) Koolhaas, per esempio, adopera almeno dieci tipi diversi di vetro, apre il soffitto alla luce e arriva a utilizzare come solaio un fragile grigliato.
Vi è poi la fluidità. La si ottiene rompendo la scatola, trasformando gli ambienti in percorsi, innescando circuiti aperti. Nella biblioteca di Jessieu i piani si susseguono senza interruzioni, coì come nella Kunsthal; e il progetto per la Biblioteca di Francia (1989) è organizzato su percorsi e spazi continui scavati come buchi di una groviera all'interno della massa dei libri.
La terza strategia è la sovrapposizione degli eventi. Funzioni e movimenti diventano materiale di progettazione per produrre configurazioni formali anche casuali e inaspettate. Nel progetto per lo ZKM a Karlsruhe (1989), per esempio, sono i pendolari che recandosi alla stazione ferroviaria interagiscono con il museo dei media; è il movimento dei treni che vivifica un prospetto ed è un grande schermo di proiezione in facciata che stimola i passanti a fermarsi o, almeno a osservare l'edificio. Infine tutte le attività sono ospitate in un unico parallellepipedo "al fine di generare densità, sfruttare la prossimità, provocare tensione, massimizzare le frizioni, organizzare spazi intermedi, promuovere le sovrapposizioni, sponsorizzare le identità e stimolare la confusione".

Una casa ideale

Nel 1990 le Galleries dell' Università del Massachusetts conferiscono all' artista Allen Wexer l'incarico di sviluppare uno spazio abitativo " che avrebbe dovuto rappresentare in modo articolato le questioni che caratterizzano gli anni novanta". La risposta di Wexer, la Crate House, è un ambiente vuoto, delimitato solo dalle pareti perimetrali, nel cui interno è collocato un cubo che, a sua volta, contiene quattro carrelli estraibili. Nel primo vi è la cucina, nel secondo il bagno, nel terzo l'unità soggiorno, nel quarto il letto. La struttura per unità mobili dipartentesi da un blocco centrale ricorda i closet abitabili preparati nel 1972 da Archizoom per la mostra (poi non realizzata) The Natural Surface e, soprattutto, la Total Furnishing Unit di Joe Colombo presentata nella mostra The New Italian Landscape organizzata al MoMA da Ambasz nello stesso anno. Ma, vi è, rispetto a quest' ultima, il cui intento era principalmente tecnologico, qualcosa di più. Vi è il bisogno di configurare per l'abitazione uno spazio aperto, minimale, non ingombrato dagli oggetti di tutti i giorni che ci assalgono e ci opprimono. E vi é anche un bisogno di riduzione e di scelta del numero e delle forme stesse degli utensili; pena l'impossibilità a trovare posto all'interno dei carrelli che li contengono.

Ridotta al minimo, la casa diventa una unità di sopravvivenza. Simile a una tenda che ciascuno può portare con sé. Ma anche uno spazio vuoto flessibile che lascia ai suoi occupanti la più ampia libertà di movimento.

L'anno successivo Vito Acconci, artista newyorkese, progetta Mobile Linear City, una casa telescopica, facilmente trasportabile, composta da sei pezzi che si possono aprire sino a raggiungere la lunghezza di cinquanta metri. Prerogative della casa la permeabilità all'ambiente esterno e, soprattutto, la completa libertà - Vito Acconci, occorre ricordarlo, è stato uno dei più rilevanti artisti della Body Art- che questa struttura permette al corpo non più costretto a vivere in uno spazio geograficamente determinato e dimensionalmente predefinito.

Riferimenti di Wexer e di Acconci sono gli Archigram e gli architetti radicali che a partire dalla metà degli anni sessanta avevano lavorato a lungo sul tema dell'architettura mobile: Living-Pod di David Greene è del 1966, Suitaloon di Michel Webb è del 1968, Pneumacosm di Haus/Rucker/Co. è del 1967, Villa Rosa di Coop Himmelb(l)au è del 1968.

Ma manca a Wexer e Acconci l'indagine sulle possibilità offerte dalle nuove tecnologie che, invece, aveva caratterizzato le ricerche di questi ultimi: dalle fibre plastiche ai prodotti informatici sino agli accorgimenti messi a punto dalla NASA per garantire agli astronauti un habitat ideale anche nelle condizioni ambientali più disagevoli (1969: primo uomo sulla luna).

Ad occuparsi delle ricadute della tecnica sull'abitare contemporaneo è Toyo Ito, un giapponese di altissima sensibilità e acuto genio poetico, che nel 1989 progetta PAO 2 "Dwelling for Tokyo Nomad Woman" (alloggio per una nomade donna di Tokyo). A differenza degli architetti degli anni sessanta, Ito non utilizza alcun materiale caro all'immaginario fantascientifico -scafandri, scudi di plastica, robot. La casa del futuro é una tenda di forma ovoidale, delimitata da veli trasparenti. All'interno tre mobili evanescenti: uno per il trucco, uno per mangiare, uno per le attività intellettuali. Viviamo, afferma, Ito in un'epoca aerea, immateriale, fatta di flussi. A cosa servono le pareti quando possiamo trasformare i muri in membrane che captano segnali dal contesto circostante? E a cosa servono i contenitori che ingombrano la nostra casa (librerie, dispense,armadi) quando, attraverso i nuovi sistemi di distribuzione, possiamo avere ciò che ci serve in tempo reale? E, infine, perché vivere in una casa radicata e fondata nel terreno quando oramai la tecnologia viaggia con noi, proteggendoci? L' elettronica permetterà di liberarci dai vincoli e dai limiti della società meccanica. Il nomadismo, soprattutto quello virtuale di Internet e delle reti, garantirà al nostro corpo un'espansione illimitata. Ci renderà più leggeri e trasparenti ma non ci priverà della dimensione materiale, nè dei valori sensoriali, per la stessa ragione per la quale il telefono non ci ha impedito l'incontro interpersonale o la televisione il gusto del libro. Ridimensioniamo dunque le paure di Virilio e affrontiamo, indirizzandole, le opportunità offerte dal nuovo.

Tarzan nella foresta dei media

1977. La rivista di architettura 2G pubblica un numero monografico dedicato a Toyo Ito. I progetti sono accompagnati da un saggio scritto dall' architetto giapponese dal titolo Tarzans in the Media Forest. Nel saggio Ito riprende la teoria di uno più controversi pensatori degli anni sessanta -Marshall McLuhan- secondo il quale alla società visiva che ci ha preceduti ne è subentrata una tattile. La società visiva è quella rinascimentale della prospettiva, ma anche quella industriale della macchina. E' fondata principalmente sull'occhio, cioé sul senso della misura, della proporzione, dei rapporti quantitativi. La società tattile è quella dell'elettronica. E' fondata su una sensibilità intensa -meno ordinata ma più vitale- per attivare la quale si avvale di sensori e membrane, che simili alla pelle, captano segnali e informazioni per trasferirli immediatamente al sistema nervoso delle reti informatiche.

La differenza tra le due società -la visiva e la tattile- è abissale. La prima, infatti, gestisce quantità, forze, pesi mentre la seconda lavora con flussi, interrelazioni, valori immateriali.
Prendiamo -dice Ito- un ragazzo d'oggi. Sembra che non possa vivere senza il telefono portatile e altri accorgimenti elettronici. Questi strumenti, che lo fasciano come un vestito, gli sono indispensabili per metterlo in contatto con il mondo circostante, per farlo stare all'interno di un circuito. Ma la stessa esigenza di far parte e di interagire con il contesto si registra anche per gli edifici e le città. Confrontiamo, per esempio, un edificio tradizionale e uno contemporaneo. Il primo si definisce per le sue masse, l'organizzazione dei pieni e dei vuoti, i colori, la grana, il sistema costruttivo, l' organizzazione funzionale. Se volessimo paragonarlo a un corpo diremmo: si caratterizza per i rapporti tra le parti, per l' ossatura, i muscoli. Il secondo ci colpisce, invece, per come interagisce con l'ambiente circostante: per il modo, cioé, con cui capta la luce, si rapporta alle condizioni climatiche esterne e interne, ci mette in relazione con suoni, odori, colori e si cura del nostro comfort. Se volessimo paragonarlo a un corpo, parleremmo di sistemi percettivi e autoregolativi.

Ma -afferma Ito- se l'architettura diventa un sensore che ci mette in relazione con il mondo esterno "dobbiamo fare in modo che sviluppi e affini la propria epidermide al fine di diventare particolarmente sensibile a captare il flusso degli elettroni".

Sostituiamo adesso al termine "flusso degli elettroni" le parole "flusso delle informazioni e degli eventi". Poiché questi sono sia artificiali che naturali, avremo allora una architettura insieme tecnologica e ecologica. E anche la fine di ogni dualismo tra costruito e ambiente, perché ambedue partecipano di un unica legge che è quella del divenire delle cose. E così l'uomo, riacquistata questa rinnovata dimensione naturale, come un novello Tarzan può muoversi in un mondo finalmente riunificato: della comunicazione integrale, della foresta dei media.
Metafora della nuova architettura sono i fluidi e, in particolare, l'acqua. L'acqua nella quale sembra fluttuare il padiglione di Barcellona di Mies Van der Rohe , nella quale gli antichi filosofi giapponesi intravvedevano il principio della vita e nella quale appaiono galleggiare le immagini elettroniche che compaiono negli schermi dei computer. E all'acqua l'architetto giapponese si ispira per il suo capolavoro: la mediateca di Sendai. In un edificio di sette piani a forma di parallelepipedo, ognuno dei quali è destinato a ospitare con una altezza diversa un'attività diversa, Ito scava alcuni pozzi sostenuti da tralicci leggeri che ricordano le canne di bambù. E all'interno vi fa scorrere gli elementi di collegamento verticale e le reti informative. Gli stessi pozzi pescano l'umido della terra e si aprono al cielo. Vista attraverso le sue delicate pareti trasparenti la mediateca sembra diafana e leggerissima, attraversata da acqua, luce, informazioni. Il principio dell'elettronica è, in fondo, quello antichissimo del divenire ma anche quello modernissimo della trasparenza, della leggerezza, dell'effimero fluire e della volatilità dell'immagine.

Una nuova architettura

1997. L' Harvard Design Magazine dedica un numero monografico al tema Durability and Ephemerality ( durabilità e effimero). Kenneth Frampton, Luis Fernández-Galiano, Henry Petroski, Gavin Stamp lanciano l'allarme: il pericolo per la nuova architettura è la perdità di consistenza, di solidità. Il disinteresse per i valori tettonici ( cioé della sintassi della costruzione), l'uso di facciate disancorate dalla struttura dell'edificio, la trasformazione dei prospetti in schermi sui quali proiettare immagini, l'applicazione cosciente di materiali deperibili nel tempo sembrano dimostrarlo.

Con i materiali tradizionali, quali il mattone, la pietra e il legno - afferma Frampton- si sono realizzati, invece, edifici che durano. Per esempio la villa Mairea di Aalto che dopo quasi sessanta anni si propone come una costruzione esemplare dove natura e cultura, presente e passato interagiscono sino quasi a sovrapporsi.
Il problema della durata e dei materiali è , conclude Frampton, un problema di architettura che urge affrontare, anche a livello storiografico. Ritrovandone le radici negli anni Trenta quando Le Corbusier si dedica alle forme vernacolari e ai materiali tradizionali. Ma anche nella più tarda ricerca del greco Pikionis, dei Neorazionalisti italiani e, infine, degli spagnoli, Moneo in testa.
Su una posizione egualmente tradizionalista è Luis Fernández-Galiano che cita Loos, secondo il quale, mentre l' arte é rivoluzionaria, l'architettura è conservatrice. Troppi progettisti -denuncia Fernández-Galiano- teorizzano l'architettura effimera e preferiscono al concetto di firmitas, quello di venustas. Trasformando gli edifici in icone, ammirate e riverite, sperano che la società si prenderà cura della loro durata, a prescindere da qualsiasi costo di manutenzione e di gestione. Cita come esempio l' Aronoff Center di Eisenman. Quando Eisenman fu posto di fronte al dilemma se realizzare un edificio senza pretese ma solido oppure di grande immagine ma precario, preferì la seconda ipotesi. Pazienza se, come una farfalla, avrebbe avuto una breve vita. Qualcuno, nel tempo, salderà il conto. Del resto, in una economia sempre più legata ai valori simbolici e alla virtualità dell'informazione, la durata del valore artistico e di quello materiale non necessariamente coincidono.

Interviene Gavin Stamp, che insegna a Glasgow: molti edifici di Stirling, Foster e Rogers si sono rivelati fallimentari. Ma, grazie allo stato di superstar dei progettisti, la stampa ha taciuto dei difetti per prodigarsi, invece, in complimenti esagerati.

Due voci escono dal coro: Ellen Dunham-Jones e Botond Bognar. Per Ellen Dunham-Jones il problema della durata, al di là di ogni considerazione architettonica, è oggi direttamente connesso con l'aspetto produttivo e quindi ha poco senso progettare edifici imperituri. Concorda Botond Bognar che cita la realtà giapponese. I nuovi cicli economici richiedono tempi rapidi di progettazione e realizzazione, costi contenuti, obsolescenza programmata. Il Nomad Restaurant disegnato da Toyo Ito nel 1986 è stato abbattuto nel 1989. La Casa a forma di U costruita, sempre da Ito, nel 1976 è stata demolita. La casa in Yokohama disegnata da Kazuo Shinohara nel 1984 è stata sostituita nel 1994. Il municipio di Tokio di Kenzo Tange realizzato nel 1952 è stato abbattuto nel 1992. Per non parlare dell' Imperial Hôtel di Wright che nel 1960 dovette far posto a un albergo di una catena internazionale. Ma, piuttosto che rimpiangere monumentalità e durata, è bene assumere nella propria poetica il segno della precarietà. Soprattutto se questa non è intesa nell' accezione riduttiva di destino a una breve vita o di effimero apparato scenografico ma come possibilità per l'edificio a fluttuare, grazie ai nuovi materiali sensibili e trasparenti, nella sempre più immateriale e dinamica realtà metropolitana. Kazuma Sejima, Kazuo Shinohara, Itsuko Hasegawa, Hiroshi Hara , Riken Yamamoto e soprattutto Toyo Ito dimostrano , allora, che è possibile realizzare capolavori senza essere reazionari o conservatori, sia pure nella migliore accezione loosiana del termine.

Ad affrontare il problema della durata è anche Domus, con un fascicolo monografico dal titolo Durability uscito sempre nello stesso anno. Non mancano interventi a favore, per esempio quello di Gregotti. Ma le conclusioni, alla fine concordano con le tesi di Botond Bognar: "la storia-afferma il direttore della testata, François Burkardt- è un processo che non si ferma e non si può far tornare indietro"; la durabilità di per sé non è un valore. Interviene Pierre Restany: era la società fondata sull'eterno che aveva come ossessione il valore della permanenza e delle materialità; oggi, invece, si condivide la consapevolezza, maturata a partire dagli anni sessanta, che ciò che é vero non è eterno. Pensiamo per esempio a Allan Kaprow che ha ridotto la pratica artistica all'atto spontaneo e volatile dell'happening e della performance. Oppure a Christo e Janne Claude che hanno realizzato opere destinate a durare per non più di una quindicina di giorni. O agli artisti della Body Art e in particolare da quella straordinaria indagatrice dei rapporti tra corpo e spazio che è la Marina Abramovic; a Yves Klein con i suoi pennelli viventi, la rivoluzione blu e gli immaginari voli che intensamente rendevano il bisogno di leggera immaterialità dell'uomo; all'arte povera con l'uso di materiali semplici, deperibili, consumabili. E infine pensiamo ai paesaggi fatti vibrare dal genio di Robert Smithson o antropizzati e concettualizzati dalla mano di Richard Long e degli artisti della Land Art.

Capovolgiamo quindi il problema. Il pericolo per la cultura contemporanea non è la freschezza dell'immagine, il suo darsi qui e ora ma, semmai, proprio il congelarla, mummificandola in una forma immutabile nel tempo. E l'ostinarsi a auspicare monumenti perenni in fondo è la testimonianza di una pervicace ottusità, che ci trasciniamo dai tempi degli egizi, che consiste nel voler a tutti i costi esorcizzare la morte e nel rifiutare il valore più profondo della vita che é la sua mutevolezza.

Conclusione: una tradizione contemporanea

Torniamo all'architettura radicale degli anni sessanta e settanta. Se il valore di una tendenza si giudica anche dal suo lascito e cioé dalle energie che innesca nel tempo, non possiamo non rivalutarla. Riconoscendo una volta per tutte che sono state proprio queste esperienze anche estreme, sia pure fuori le righe, spesso eccessive, che hanno attivato il cambiamento di paradigma figurativo che ha dato corso alla rivoluzione estetica e linguistica maturatasi in questi ultimi anni. E' indiscutibile, infatti, che il museo Guggenheim di Frank O. Gehry nasce dalla sensibilità pop; che la ricerca di Rogers ha non poche affinità con quella degli Archigram; che il museo ebraico di Daniel Libeskind ha la intensità dei disegni visionari di Pichler o del primo Hollein; che la mediateca di Sendai di Toyo Ito ricorda le città immateriali disegnate da Superstudio; che la poetica della trasparenza di Rem Koolhaas - come lui stesso ha ammesso- sarebbe stata inconcepibile senza le esperienze di Archizoom; che la facoltà di architettura dell'università di Cincinnati di Peter Eisenman ha precedenti sia nelle sperimentazioni sull'architettura energetica di Giogini sia nelle ricerche degli artisti concettuali; che le indagini sul corpo di Tschumi presuppongono gli happening di Naumann, Kaprow e di Vito Acconci e, infine, che l'architettura ecologica nasce dalla coscienza hippy.

Di fronte all'evidenza di questi dati, è impellente un recupero storiografico di una genealogia sicuramente sottovalutata, spesso rimossa. Tenteremo di ricostruirla scandendo nei prossimi capitoli le principali tappe dell'avanguardia radicale.

Prima, però, credo che sia opportuno riassumere in nove punti i capisaldi della nuova estetica. Li abbiamo già accennati discorsivamente nelle pagine precedenti. Ma, messi in ordine, possono essere di aiuto per le nostre ricognizioni. Eccoli.

1. La ricerca del vero che sostituisce il perseguimento del bello. Da qui la scoperta di tecniche e materiali non ancora deprivati della loro carica energetica. Il recupero dell'esperienza di tutti i giorni e, in particolare, di quella urbana e metropolitana.
2. Il superamento del mito forma-funzione per la ricerca di nuovi rapporti tra creatività e produttività. Sperimentazione di forme artistiche che introiettano il gioco, l'inutile, il simbolico.
3. Lo slittamento dell'interesse dalla forma in sé e per sé ai suoi valori interrelazionali e comunicazionali. Fine quindi del predominio del visivo, cioé della forma in quanto fatto eminentemente geometrico e rivalutazione delle relazioni sensorie e intellettuali suggerite dall' oggetto.
4. Il lavoro sui dislocamenti e sulle disgiunzioni. L' opera come strumento attraverso cui mettere in discussione il senso comune dell'osservatore, le sue certezze, la sua illusione di centralità. La destrutturazione come apertura a nuove indagini sulla forma.
5. Il perseguimento della rottura degli steccati disciplinari. Ibridazioni e commistioni, soprattutto tra le arti: pittura, scultura, danza, teatro, cinema, architettura.
6. La fine del determinismo. Assunzione della casualità e del probabile come matrici generative dell'opera. Sperimentazione di geometrie e teorie complesse che superano i sistemi meccanici, introducendo all'interno, come fatto generativo, la variabile tempo.
7. La centralità del rapporto corpo-spazio. Sia attraverso architetture fisicamente coinvolgenti sia attraverso la sistematica erosione delle costrizioni che l'architettura infligge al libero movimento del corpo: dearchitetturalizzazione e anarchitettura.
8. L' apertura dell'architettura alla natura. Ecologia come contestualità e interrelazione. Dematerializzazione della massa muraria attraverso membrane e sensori che captano e ritrasmettono informazioni. Rispetto ambientale e innovazione attraverso gli edifici intelligenti.
9. La sperimentazione con il transeunte e l'effimero. Critica del concetto di stabilità e permanenza. Leggerezza, flussi di immagini, demonumentalizzazione. Valorizzazione del movimento e della mutazione. Recupero della dimensione virtuale attraverso l'elettronica. Immaterialità e superfici trasparenti.



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Luigi Prestinenza Puglisi
(Catania 1956), critico di architettura, scrive per le riviste Domus, il Progetto, L'Architettura-cronache e storia, Costruire. Ha pubblicato: Rem Koolhaas. Trasparenze Metropolitane (1997), Hyperarchitettura. Spazi nell'età dell'elettronica (1998), This is Tomorrow. Avanguardie e architettura contemporanea (1999).

 

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