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This is tomorrow

di Luigi Prestinenza Puglisi

Situazioni


1982. Due architetti, formatisi alla Architectural Association di Londra, partecipano al concorso per il parco de la Villette a Parigi. Sono Bernard Tschumi, che lo vince, e Rem Koolhaas. Entrambi i progettisti rifiutano la gerarchia strutturata dei pieni e dei vuoti; propongono invece, una organizzazione per livelli (layers) ciascuno caratterizzato da una propria logica.
Il progetto di Rem Koolhaas di livelli ne ha cinque. Nel primo la superficie del parco è zonizzata secondo sottili striscie a ciascuna delle quali corrisponde una funzione. Nel secondo , detto dei "coriandoli", elementi architettonici puntiformi (chioschi, aree per il gioco, spazi per il pic-nic) sono casualmente disposti lungo l'area. Nel terzo livello si organizza un sistema di distribuzione fondato su un cardo e un decumano e, accanto, percorsi minori a geometria variabile che connettono i principali punti di interesse. Nel quarto sono presenti gli elementi architettonici di maggior rilievo: il Museo della Scienza, la Grande Halle, la Città della musica. Il quinto è relativo alle connessioni con il quartiere circostante.

Koolhaas sottolinea che la sua composizione per livelli ha un obiettivo: realizzare una struttura debole, resa flessibile dalla relativa autonomia delle parti; in grado, quindi, di poter sopportare nel tempo possibili cambiamenti e aggiustamenti, senza per questo perdere i propri caratteri architettonici salienti. Un metodo, insomma, che combina una forte presenza formale con un'ampia apertura programmatica ("a method that combines architectural specificity with programmatic indeterminacy") gestendo la casualità all'interno dell'ordine del progetto, tramite uno strumento additivo - quale l'organizzazione per piani funzionali o layers- tipici dei programmi CAD.

Nel progetto di Tschumi-che viene realizzato e completato verso la fine degli anni ottanta- i livelli di organizzazione del piano sono tre. Nel primo l'area del parco è suddivisa in superfici di forma irregolare ognuna delle quali delimita uno spazio funzionale, per esempio il giardino per i bambù o l'enclave destinata alla scoperta e alle sorprese. Nel secondo insistono quarantadue elementi puntiformi, le folly, cioé piccole costruzioni di supporto al parco, collocate nei punti di intersezione di una griglia ideale dal passo di 120x120 metri. Nel terzo troviamo gli elementi lineari: viali, quinte alberate, percorsi.
Il programmatico scoordinamento tra i tre piani del progetto -il superficiale, il puntiforme e il lineare- determina disorientamento ma anche sorprese. E impedisce all'osservatore una lettura semplice e univoca dello spazio architettonico.

A complicare ulteriormente la quale, Tschumi provvede con altri tre accorgimenti. Assegna a progettisti diversi il disegno dei giardini ( uno per es. lo realizza Chemethoff, un altro Eisenman e Derrida); impone un disegno ad hoc per ciascuna folly, evitando nello stesso tempo di preordinare la funzione che dovrà ospitare: bar, chiosco, padiglione espositivo o asilo nido che sia; non esita a utilizzare passi e multipli diversi per ciascuna struttura per fare in modo di evitare qualsiasi "ritmo, sintesi, ordine".

Riferimenti di Tschumi sono le avanguardie radicali degli anni sessanta, in particolare il musicista Cage e i Sitazionisti. Di Cage lo attrae la passione per gli eventi casuali della vita, la poetica dell'indeterminato ma soprattutto la sua capacità di inserire fatti extradisciplinari quali rumori e silenzi all'interno dell'opera. Dei Situazionisti -un movimento conosciuto attraverso l'esperienza del maggio francese che Tschumi ha vissuto in prima persona- lo affascinano il tentativo di strappare l'arte all'utile e alla funzione, l' ideale della ricerca poetica come deriva e dislocazione, l'attenzione per il gioco, il disinteresse per il senso compiuto. " Io - dirà in una intervista apparsa sul The Architectural Review (agosto 1989) " non sono interessato alla forma. Anzi attacco la volontà di significare a tutti i costi."

E nel testo Manhattan Transcripts, parlando a proposito dell'esperienza del parco de la Villette, rimpiangerà di non aver attuato un progetto ancor più radicale e meno formalizzato , per esempio senza la griglia ortogonale che localizza le 42 folly.


[29mar2000]
Disgiunzione e dislocazione

1992. A dieci anni dal concorso per il parco de la Villette, Bernard Tschumi centra un secondo importante successo vincendo la competizione internazionale per la realizzazione della scuola d' arte di Fresnoy, a Tourcoing, appena a nord est di Lille.

Voluta da Alain Fleisher, scrittore, regista e fotografo, la scuola di Fresnoy sperimenterà metodi innovativi: aboliti gli steccati disciplinari tra pittura, scultura, scenografia, musica, architettura ognuno lavorerà con le tecniche che più gli interessano, aiutato da un corpo docente fatto, quasi esclusivamente, da artisti che resteranno nella scuola per sei mesi o, al massimo, un anno.

Il sito prescelto per la scuola è un lotto su cui insistono alcuni edifici , costruiti a partire dal 1905, che, dopo alterne vicissitudini, sono stati trasformati in un parco giochi con sala da ballo, pista di pattinaggio, cinema da 1000 posti, arena pugilistica, bar e ristorante e, infine, abbandonati nel 1970. Tschumi, aderendo all'invito del bando, li mantiene, apportandovi pochissimi miglioramenti. Costruisce nello spazio libero un manufatto destinato a cinema, sale di registrazione e uffici amministrativi. Ma, soprattutto, copre l'intero complesso con una copertura metallica di circa 100x80 metri, realizzata con parti opache e parti traslucide.
La copertura unica conferisce all'intero complesso coerenza d'immagine, e, nello stesso tempo, contribuisce a mettere in risalto la differente morfologia degli edifici che ricopre. Inoltre determina tra i tetti di questi ultimi e il proprio intradosso nuovi ambienti coperti, collegati da un complesso sistema di scale e passerelle, nei quali si possono localizzare attività didattiche, svolgere esercitazioni, allestire mostre, ritagliare momenti di tranquillità per lo studio.

Questo spazio, né unitario né frammentato, né interno né esterno, che sarebbe piaciuto particolarmente a Guy Debord e ai situazionisti, fisicizza bene l'ideale della scuola voluta da Fleischer che consiste nel far interagire ciò che è diverso e far scontrare gli stili suggerendo l'eterogeneità come valore. E' nello stesso tempo, con le sue antinomie formali, un esempio di disgiunzione, una prassi architettonica che Tschumi ha da tempo teorizzato.

La disgiunzione si fonda su un assunto: che, dopo la crisi del Movimento Moderno e delle sue granitiche certezze, non abbia più senso proporre sintesi risolutive; siano queste funzionali, organiche o razionaliste. E che, invece, possa essere più produttivo che l' architettura diventi espressione di una mancanza, di una tensione. Ed è questa dialettica dell'assenza che, proponendo un gioco continuo di avanzamenti e arretramenti nella nostra percezione dello spazio scardina e destruttura forme e luoghi comuni ma anche permette al pensiero di percorrere e sondare nuovi confini, producendo scoperte e chiarificazioni. La mancanza si trasforma così in apertura ( ecco il senso della parola dis-giunzione), in desiderio, stimolo alla scoperta, in invito a varcare i limiti.
Nello stesso anno in cui Tschumi vince il concorso per la scuola di Fresnoy, Peter Eisenman scrive per Domus un articolo dal titolo "Oltre lo sguardo; l'architettura nell'epoca dei media elettronici" con il quale cerca di porre alcune questioni teoriche che rendono conto della sua recente produzione architettonica, felicemente orientata verso geometrie complesse, spazi vibranti, punti di vista azzardati e precari.

L' architettura quale ci è stata consegnata- afferma Eisenmann- sinora ha avuto il compito di superare la gravità, monumentalizzando questo superamento e traducendolo in termini di rapporti visivi. Da qui due conseguenze. Prima: ha stabilito tramite le categorie contrapposte del dentro e fuori, sopra e sotto, davanti e di dietro, destra e sinistra una precisa relazione tra se stessa e l'utente. Seconda: si è strutturata in modo tale "che ogni posizione occupata da un soggetto fornisce i mezzi per interpretare tale posizione in relazione a una particolare tipologia spaziale, come una rotonda, o una croce di transetto, un asse, un'entrata".

A fondamento di questa architettura stabile, funzionale, concettualmente armonica e gerarchica vi è una concezione prospettica dello spazio, cioè un paradigma di intellegibilità in cui visione e ragione sono fortemente interrelati o, per dirla altrimenti, in cui l'occhio percepisce così come concepisce la mente. Una concezione che, per quanto sia stata messa in crisi dalle avanguardie artistiche del primo novecento, per esempio dal Cubismo e dal Costruttivismo, ancora sopravvive in architettura. Ma - continua Eisenman- se come appare, la civiltà elettronica sta scardinando il modo tradizionale di intendere la visione, trasformandola da attività intellettuale ( prospettica), in fatto emozionale ( cioé di pura immagine), allora in qualche modo l'architettura deve tenerne conto.

Da qui la proposta di introdurre una nuova categora operativa " la dis-locazione" che, per molti versi, rassomiglia alla "dis-giunzione" perseguita da Tschumi. La dislocazione è il tentativo di separare il soggetto dalla opera di razionalizzazione dello spazio che egli instintivamente tenterebbe di fare all'interno di un luogo, quindi in primo luogo di "separare l'occhio dalla mente" e, poi, di "inscrivere lo spazio in modo tale da dargli la possibilità di ri-guardare il soggetto".

Che cosa Eisenman esattamente intenda con questa seconda affermazione non è facile capire. Dall'esempio che cita nel suo articolo il "ri-guardare il soggetto" da parte dell'architettura potrebbe essere semplicemente lo spiazzamento che provoca una edificio che mette in crisi le categorie spaziali alle quali siamo abituati: per esempio, un'architettura pensata come un nastro di Moebius, cioé come uno spazio ripiegato, scuoterebbe le nostre categorie di interno e esterno). Oppure anche la sorpresa di fronte alla inintellegibiltà di una strutturazione dell'edificio in funzione di un testo esterno -per esempio di un racconto fantastico o di una topografia immaginaria- piuttosto che in conformità alle aspettative di stretta aderenza formale al programma funzionale e spaziale avanzato dai committenti.

Quali che siano le strategie adottate, la dis-locazione fa intravvedere che esistono spazi diversi, "altri", rispetto a quelli a cui siamo abituati e soprattutto - come afferma ermeticamente Eisenman- che esiste uno spazio "emozionale, una dimensione dello spazio che disloca la funzione discorsiva del soggetto e, contemporaneamente, della visione, e che crea una condizione di tempo, di un evento, nel quale esiste la possibilità che sia l'ambiente a osservare il soggetto, la possibilità di uno sguardo oltre".

Dislocazione, movimento e perdita del centro

Dietro la teoria della dislocazione vi è sicuramente la mistica dell'assenza -per il quale il Vero, che si nasconde tra le pieghe del linguaggio, può essere inteso solo attraverso lo sguardo obliquo di un'opera di destrutturazione- così come teorizzata dal poststrutturalismo sulle orme della Fenomenologia e del pensiero di Heidegger. E,in particolare, vi sono non poche affinità con le ricerche filosofiche di Lacan e di Derrida -del resto ampiamente citati da Eisenman- messe a punto a partire dalla metà degli anni sessanta: ricordiamo che gli "écrits" di Lacan e "L'écriture et la difference" di Derrida furono pubblicati dalla Seuil rispettivamente nel 1966 e nel 1967 e su questi temi si sviluppò già nel 1968 un dibattito serrato a cui partecipò tra l'altro Umberto Eco, professore di Comunicazione Visive alla Facoltà di Architettura di Firenze, con il libro la Struttura Assente. Non poche affinità si registrano anche con le ricerche degli architetti radicali che a partire dagli anni sessanta si prefiggono lo scopo di disancorare la ricerca spaziale dall'utile e dalla funzione per farla diventare "sguardo attraverso cui indagare mente e linguaggio". E, inoltre, con le avanguardie artistiche: concettuali, minimaliste, comportamentiste, della Land Art, dell'Arte Povera.

Vi sono, infine, punti di contatto con la filosofia orientale, da sempre propensa a costruire il reale per via sottrattiva o negativa. E' forse Arakawa, un artista giapponese che ha vissuto a lungo a New York, il principale trait d'union tra le due culture. Arakawa, formatosi negli anni sessanta sui principi dell'arte concettuale, ha poi orientato la sua poetica verso la realizzazione di spazi destrutturati: case a forma di labirinto che per essere percorse richiedono mesi o anni, costruzioni dai cui affacci è possibile intravvedere due orizzonti diversi, piani inclinati che disorientano l'osservatore. Obiettivo: il perseguimento di una condizione mentale che azzera le nostre abitudini percettive fondate sulla geometria euclidea e sul tempo lineare per proiettarci in un mondo spirituale estraneo allo spazio, al tempo e quindi alla morte: "to learn how to not die" è la sua frase più ricorrente. Da qui la sperimentazione di un villaggio spiazzante e dislocante dove non esistono più le distinzioni tra alto-basso, destra-sinistra, prima-poi, dentro-fuori, realizzato a Nagi in Giappone, e alcune opere prototipo tra cui la più significativa e poeticamente intensa è stata realizzata in collaborazione con Arata Isozaki al MoCA di Okayama (1992-94). E' un cilindro, separato dal corpo principale del museo, nel cui interno sono installati, in posizione simmetrica, due giardini zen giapponesi. La sensazione del visitatore è di trovarsi dentro un gioco di specchi, in uno spazio irreale di cui non si riescono a afferrare le coordinate, intriso di connotazioni religiose, che esaspera , traducendoli in pura contemplazione mistica, i principi di disgiunzione e di delocalizzazione.

Nuove tecniche di organizzazione dello spazio
La riflessione sulla disgiunzione e sulla delocalizzazione, da Eisenman a Tschumi a Arakawa, ha stimolato , tra gli anni ottanta e l'inizio dei novanta, l'invenzione di nuove tecniche di organizzazione dello spazio che sono state ampiamente utilizzate dagli architetti decostruttivisti. Tra queste ne sottolineamo sei, che ci sembrano le più rilevanti e le più aperte a sviluppi successivi:

In between: E' l'intervento su spazi che non sono né interni né esterni, ma, nello stesso tempo, interagiscono sulle architetture limitrofe dall'esterno verso l'interno, e sull' ambiente circostante dall'interno verso l'esterno. E' quanto è stato fatto da Tschumi nel Fresnoy e da Eisenman con il Wexner Center (1983-89)
Piegature e capovolgimenti: Si opera sulle curvature e sulle deformazioni per impedire una lettura orizzontale dello spazio. Un esempio di questo approccio, oltre al cilindro di Arakawa e Isozaki, é il progetto per la biblioteca a Jessieu (1992) di Rem Koolhaas dove gli otto piani intermedi dell'edificio si inseguono l'uno con l'altro sino a dar vita a un percorso continuo che si svolge ininterrottamente dal piano terreno sino alla copertura. Un altro esempio: la Max Reinhardt house (1992) di Eisenman, una torre che si ripiega su se stessa per formare un arco booleano caratterizzato dall'assenza dell'opposizione alto/basso.

Progettazione di spirali e labirinti: Presuppone la realizzazione di configurazioni architettoniche dove i continui cambiamenti di direzione determinano spaesamento ma suggeriscono imprevisti e nuovi punti di vista. Ciò avviene, per esempio, nel progetto di Daniel Libeskind per l'ampliamento del Victoria & Albert museum (1996) nel quale la struttura che vertebra l'edificio è una spirale a centro mobile o nel museo ebraico di Berlino (1989-1998) concepito come un percorso con bruschi e repentini cambiamenti di direzione.

Vibrazioni e oscillazioni: Si configurano spazi che riproducono sincronicamente i diversi momenti di una vibrazione o di una oscillazione. L'osservatore si trova così proiettato in un ambiente che sembra muoversi al posto suo. E' il caso della facoltà di architettura di Cincinnati (1988-91) o della casa Guardiola a Cadige (1988) di Eisenmann. O anche delle architetture di Gehry quali il Guggenheim di Bilbao (1991-1997) o il progetto per l' Auditorium Walt Disney a Los Angeles (1988) dove i volumi sembrano seguire un movimento musicale.
Deformazioni. Si ottengono sia attivando forze di torsione o di dilatazione sia deformando l'oggetto attraverso un insieme sistematico di operazioni di geometria proiettiva. Tra queste ultime la più nota è l'anamorfosi che ha il vantaggio di lasciare inalterate alcune fondamentali relazioni dell' oggetto in modo che è possibile ricostruirne la forma originaria osservandolo da un punto di vista particolare, in genere abberrato. Un esempio di manipolazione per torsione dei volumi sono le torri Ginger e Fred di Gehry a Praga (1992-97). Ricorre alla deformazionedei piani, Zaha Hadid con la stazione dei pompieri per il campus Vitra a Will am Rhein (1990-93). Con operazioni geometriche complesse, tra cui l'anamorfosi, si cimenta lo studio Eisenman; anche in progetti a scala urbana quali il Rebstock Park, Francoforte (1990).

Attivazione di collegamenti metaforici. Le strategie progettuali sono suggerite da uno o più testi esterni: composizioni musicali, racconti, componimenti poetici o anche i nomi di un elenco telefonico. Si realizzano così corrispondenze inaspettate tra la forma dell'edificio e i particolari riferimenti presi a modello. E' quanto, per esempio sperimenta Libeskind facendo interagire la struttura spaziale del Museo Ebraico di Berlino (1989/1998) con la composizione Moses und Aaron e gli elenchi degli ebrei berlinesi scomparsi (Gedenkbuch). O anche quanto fa Steven Holl stabilendo equivalenze formali tra la casa Stretto e la "Music for Strings, Percussion and Celeste" di Bartok.

Preciso subito che le sei tecniche di disgiunzione e di dislocazione alle quali ho appena accennato erano state già applicate, sia pure in senso sperimentale, negli anni sessanta e settanta. Vittorio Giorgini, uno dei più interessanti architetti dell'avanguardia radicale, per esempio faceva vibrare le case proponendo interconnessioni tra l'architettura e la teoria della relatività. "La teoria di Einstein -sosteneva- permette la comprensione delle reali interconnessioni tra materia e energia e ci porta all'ipotesi che le vibrazioni possono generare le forme". I lavori di Superstudio, realizzati tra il 1966 e il 1974, e, in particolare, Monumento Continuo (1969) e 5 Storie (1971/73) hanno un fondamento metaforico. Spirali e labirinti abbondano nella produzione architettonica degli anni sessanta e in particolare tra i giovani austriaci, Hans Hollein, Walter Pichler, Raimund Abraham e gli artisti della Land Art quali Robert Smithson. Piegature e capovolgimenti si riscontrano nelle opere dei metabolisti giapponesi e dell' italiano Luigi Pellegrin. Piani e spazi deformati, contorti, sdentellati sono stati progettati dagli americani Site e dall' italiano Gaetano Pesce. E le opere tra arte e architettura di Gianni Pettena e di Gordon Matta-Clark possono leggersi anche nell'ottica di una ricerca di nuovi spazi interstiziali e concettuali.
Tuttavia è solo con il decostruttivismo -e con l'uso diffuso di un nuovo medium: il computer- che quelle che spesso erano semplici intuizioni sono state sperimentate in modo approfondito, che i lavori di pochi artisti emarginati hanno coinvolto anche importanti strutture professionali, che opere prima relegate al circuito underground sono state realizzate e accolte con entusiasmo o, quantomeno, con interesse e attenzione, superando quel carattere ermetico, sotterraneo e elittario che negli anni sessanta e settanta le aveva relegate a isolati fenomeni di frontiera.
La differenza non è trascurabile: possiamo dire che solo oggi l'avanguardia è entrata in circolo. Si è attivata una direzione di ricerca -questa volta maggioritaria- per strumentare un linguaggio contemporaneo complesso, denso di interrelazioni, aperto alle differenze. Ma, tuttavia, come abbiamo notato in apertura, non privo di pericoli, primo tra tutti il formalismo: di una ennesima ritirata manierista o, peggio, dell'accettazione dell'esistente, monumentalizzato con travi sghembe e piani inclinati.




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Luigi Prestinenza Puglisi
(Catania 1956), critico di architettura, scrive per le riviste Domus, il Progetto, L'Architettura-cronache e storia, Costruire. Ha pubblicato: Rem Koolhaas. Trasparenze Metropolitane (1997), Hyperarchitettura. Spazi nell'età dell'elettronica (1998), This is Tomorrow. Avanguardie e architettura contemporanea (1999).

 

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