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di Valérie Châtelet


A poche settimane dalla chiusura della grande mostra Renzo Piano, Un Regard Construit (19 gennaio-27 marzo 2000) allestita al Centre Georges Pompidou a Parigi, Arch'it propone lettura a più voci dell'evento. Valérie Châtelet reinterpreta la figura dell'architetto genovese attraverso la configurazione di quest'ultimo evento-mostra; Luigi Manzione entra all'interno dei progetti esposti per evidenziare il carattere costruttivo che emerge su tutta l'opera di Piano; Valérie Châtelet e Luca Marchetti propongono una corposa intervista a Olivier Cinqualbre, curatore della mostra.





[18may2000]
STRANA FIGURA

La "Grande Mostra" è un'esposizione che presenta colui che l'ha concepita. Si tratta tutto sommato di una figura piuttosto semplice: l'artista vivente, la cui arte è l'architettura, è chiamato da un'istituzione che gli commissiona una retrospettiva. Ma questa figura si complica quando tale artista è anche colui che ha concepito l'edificio dell'istituzione ed ha partecipato al suo recente rinnovamento, e del quale le esposizioni permanenti di questa stessa istituzione presentano ampiamente i lavori. Un artista che si auto-presenta, all'interno del museo che egli stesso ha concepito. La figura diventa poi surreale quando questo edificio si trova ad essere uno degli elementi di un insieme più vasto, anch'esso concepito dal medesimo artista, il quale -per completare l'insieme- lavora qualche passo più in là per concepire la mostra in questione in uno studio che si trova in una situazione urbana simile a quella della mostra medesima.

Questo artista è Renzo Piano, messo in scena da sé stesso nella mostra Renzo Piano, un regard construit (19 gennaio-27 marzo 2000) al Centro Georges Pompidou concepito, all'inizio della sua carriera, insieme a Richard Rogers e realizzato nel cuore di Parigi, in una porzione di città di cui gli elementi caratteristici sono stati costruiti sempre da Renzo Piano, a qualche centinaia di metri dallo studio parigino del RPBW (Renzo Piano Building Workshop). Questa figura corrisponde forse ad una serie di cerchi concentrici, in cui l'ultimo (l'artista) ingloba tutti gli altri? Una sorta di illusione ottica, in cui un elemento contiene se stesso fino all'infinito? Una figurazione frattale, un gioco di specchi? Quel che ci interessa è il passaggio da una scala all'altra, da uno strato della realtà all'altro, quello dei principi, delle idee e dell'immaginario di Piano. La possibilità di fare la rara esperienza del concatenamento delle idee in scale e situazioni varie ci permette di afferrare l'opera di Renzo Piano in una globalità fatta di dimensioni spaziali, temporali e concettuali.



BEAUBOURG

Beaubourg -il Centro Pompidou, i suoi satelliti e la fontana Stravinsky- è senz'altro uno dei progetti che meglio definiscono l'urbanità come Piano la concepisce. E' vero che la sua posizione nel cuore di una capitale storica e il suo programma di centro pluridisciplinare della cultura contemporanea attira la folla e che l'edificio avrebbe influenzato lo spirito dei luoghi qualunque fosse stata la sua architettura. Tuttavia il concorso è stato vinto per la dimensione urbana del progetto: invece di coprire l'insieme del sito, il progetto di Piano e di Rogers ne lasciava libera la metà, creando una piazza. Questo largo spazio vuoto (dal suolo che degrada fino all'entrata del Centro) è oggi coperto di turisti, di lunghe file di visitatori, di caricaturisti e di mangiafuoco. Questa folla ha una vita autonoma e ricca che il luogo gli permette. Quale migliore definizione dell'urbanità di Piano di questa possibilità di riunione di centinaia o migliaia di persone? Lo spazio libero della piazza, le bocche d'aerazione sublimate, il gracchiare dei flauti del saltimbanco matto tornato dopo la riapertura del Centro con i suoi strumenti di recupero.

Il centro Pompidou è stato costruito come una macchina per fabbricare cultura. Il progetto del concorso non era molto più definito che la pecora del Piccolo Principe di Saint Exupéry, non visibile perché racchiusa all'interno della scatola! La definizione degli spazi era lasciata all'interpretazione, secondo il principio della flessibilità. Al contrario, la fase della realizzazione implicava una grande precisione e una grande destrezza in particolare per la struttura concepita con Peter Rice. Per esempio, grazie ad una collaborazione eccezionale tra gli architetti, gli ingegneri ed i costruttori è stato possibile realizzare, tramite la messa a punto delle tipiche gerberettes, delle travi estremamente sottili rispetto alla loro portata. Come colare questi pezzi giganteschi in una sola volta? La soluzione impossibile è stata trovata con i costruttori tedeschi Krupp (mentre il cantiere era in Francia, occupato da un'equipe anglo-italiana).

Poi il tempo è passato. L'affluenza del pubblico ha superato qualsiasi aspettativa del progetto e anche la concezione del Centro come macchina per fabbricare della cultura si è evoluta. Il "Quasimodo di Beaubourg", come si è autonominato Piano, ha a sua volta rivisto le sue concezioni: "la metafora della fabbrica rinviava all'idea di produrre della cultura. Era impossibile! tuttavia é servita a disinibire il rapporto del pubblico con la cultura (...) Non ci si avvicina meglio ad un sogno essendo realisti, più capaci e competenti che quando si ha voluto strafare?" ("Dossier Renzo Piano", Architecture d'Aujourd'hui, 308, dicembre 1996, p. 34). Ed è in questo contesto eccezionale, simbolo dell'urbanità concepita tanto su modelli tradizionali quanto su un'idea moderna, che si è svolta la mostra.
Arrivando al Centro si poteva percepire già dall'esterno l'accumulazione ipnotica delle maquette in legno, dei cavi sospesi e delle foto che fluttuavano nel mezzo dei mobiles e delle sculture-alianti.



LA MOSTRA

Piano presenta nelle sue mostre esclusivamente i progetti che sono stati realizzati o quelli di cui sa che la realizzazione sarà prossima
[Principio 2]. Questo principio è accompagnato dalla presenza di numerose fotografie, "abitate" da personaggi che testimoniano ai visitatori la realtà dell'architettura e permettono per quanto possibile di giudicare la riuscita delle idee. L'immaginario di Piano è un altro dei criteri di selezione [Principio 4]. Certi progetti, anche se realizzati non sono stati scelti. Si preferisce dimenticarli a prescindere dall'importanza che gli storici potrebbero attribuire loro in quanto vere e proprie svolte o prime apparizioni di un tema architettonico. Così i difetti e la ricezione del progetto da parte della critica hanno il sopravvento sull'interesse storico e concettuale. Due assenze rimarchevoli sono il centro commerciale di Bercy e il Centro Nazionale della Scienza e della Tecnica di Amsterdam.
La volontà di realismo e la dimensione affettiva hanno portato fino ad oggi Renzo Piano a concepire le esposizioni del suo lavoro come delle metafore dei suoi studi: dei tavoli, delle sedie, elementi che permettevano di raccontare i progetti in una successione cronologica e nell'ambiente della loro concezione. Nonostante il cambiamento di proporzioni e la collaborazione
[Principio 1] con Olivier Cinqualbre (uno dei conservatori della collezione d'architettura del Centro Pompidou e curatore della mostra) hanno portato a concepire differentemente questa esposizione. La Grande Mostra (nome che gli stessi membri dello studio hanno dato all'esposizione) si distingue dalle mostre precedenti: più grande, più mediatica, non si confonde più con lo studio sotto forma di metafora. La narrazione cronologica dei progetti lascia il posto a tre temi-guide per cogliere ed organizzare alcuni aspetti dell'architettura. Enunciati da Piano in italiano, questi temi sono Invenzione, Città, Poesia, tradotti dall'équipe del Centro Pompidou come "invention", "urbanité" e "sensible", perché secondo il curatore la città come la poesia non possono essere in quanto tali appannaggio dell'architettura. Sono invece qualità sottili e volatili, dell'ordine del genio del luogo suscettibili di arrivare o meno all'architetto e alla sua équipe.

Quello presentato qui è uno "sguardo costruito". Lo sguardo di Piano che si riflette sulla sua pratica. Che tenta di svelare gli elementi essenziali che orientano la sua architettura, per proporli come griglia di lettura al pubblico
[Principio 3]. Se questi temi permettono d'organizzare la nostra geografia mentale e la nostra comprensione dei progetti di Piano, è vero che restano nella mostra quasi impercettibili. Tutti i progetti contengono in effetti questi tre temi e Piano, cosciente di questa particolarità, non ha voluto sottolineare la loro presenza nella scenografia espositiva.

L'invenzione:
Rappresentata da alcuni dei primi lavori di Piano, anteriori alla costruzione del Centro Pompidou, e dal padiglione IBM, dallo stadio San Nicola, dall'aeroporto di Kansai, dal complesso di Nola, dallo spazio liturgico dedicato a Padre Pio e dalla torre di uffici e il complesso di abitazioni di Sydney, l'invenzione si situa ogni volta in campi molto diversi. Questa diversità è dovuta all'apertura di spirito e alla portata delle collaborazioni di Piano ma anche ad uno spostamento del campo decisivo della concezione della forma. Per anni la ricerca di Piano si è concentrata sulla questione della struttura. Cercando una sempre maggiore leggerezza, questo percorso é cominciato con l'assemblaggio di pezzi modulari in associazione a materiali come il poliestere, l'acciaio ed il legno. In seguito, durante il suo soggiorno in Inghilterra, si è rivolto alle strutture tridimensionali. Infine, con l'aeroporto di Kansai, la struttura cessa di dettare la forma. Il campo decisivo si sposta dalla struttura a quello della conoscenza e controllo degli ambienti. Il principio dell'open-air duct (tubo aperto) implica una prima curva: la traiettoria dell'aria dei cannoni si spinge il più lontano possibile nella hall dell'aeroporto. La forma della copertura e dell'edificio è data da questa curva.

L'urbanità:
Dei progetti raggruppati in questa famiglia si possono distinguere due tipologie: da un lato, i progetti di edifici le cui dimensioni sono talmente imponenti che si indirizzano piuttosto alla scala della città, come la riconversione delle fabbriche Lingotto (500 000m2), la sede della banca Popolare di Lodi (20 000m2), il Centro Pompidou (più di 40 000m2), e dall'altro i progetti che implicano la riqualificazione o la ricostruzione di un quartiere: gli interventi a Genova o la Potsdamer Platz. L'urbanità di questi ultimi progetti risiede principalmente nella presenza di spazi pubblici, vale a dire di spazi accessibili al pubblico inteso non tanto come utenza diretta delle funzioni e dei servizi del luogo ma semplicemente come circolazione e passaggio. E' prima di tutto questo principio (aprire e rendere accessibili programmi a volte indocili) che definisce l'urbanità di Piano. Un secondo principio consiste nel rendere vivi i luoghi progettati attraverso una vitalità mutevole e sempre rinnovata. L'appropriazione dei luoghi da parte della folla è uno dei criteri di successo dei progetti di Piano. Questa dimensione fornisce, sotto un altro punto di vista, un'ulteriore spiegazione del fatto che la scelta dei progetti realizzati sia divenuta un criterio fondamentale della mostra.

Il sensibile:
Prospettiva sorprendente e nuova rispetto allo sguardo che si porta abitualmente sull'architettura di Renzo Piano. In effetti il Centro Pompidou, figura fondatrice dell'architettura di Piano, era ben lontano dal porre la questione del sensibile architettonico come fondamentale. I riferimenti si avvicinavano più che altro al mondo delle macchine, delle fabbriche di cui l'obiettivo primo era l'utilità, l'efficacia. Eppure la prima caratteristica evidente, entrando nella mostra è la leggerezza, dimensione poetica e immaginaria di un'ossessione d'architetto: dalla sospensione dei piani orizzontali, eredi delle tavole dello studio, a quella delle fotografie delle realizzazioni, a quella delle strutture gonfiate, dei mobiles di Calder e dei placidi alianti di Shingu. Poi, naturalmente, anche la ricerca permanente della leggerezza nei progetti. La luce è un'altra delle costanti di questa dimensione sensibile dell'architettura di Renzo Piano. La luce naturale è particolarmente presente nella mostra: la facciata è interamente aperta sulla città e lascia penetrare ampiamente la luce nello spazio senza cimase. La luce naturale dell'esposizione si mette in rapporto con la luce epurata del museo per la Collezione Menil o quella assorbita dal blu intenso della retrospettiva Calder. Il suono, altra qualità del sensibile, è tanto presente quanto la grana, la materia, la vegetazione e prima di tutte le altre, la vita che permette di comprendere l'evoluzione di Piano.



L'ARTISTA CREATORE

Dall'epoca in cui, nei suoi mitici jeans, incontrava con Richard Rogers i membri della giuria che li avevano proclamati vincitori del concorso per il Centro Pompidou, Renzo Piano ha costruito molto: padiglioni d'esposizione, musei, complessi sportivi, uffici, luoghi di culto, ed anche megaprogetti come l'aeroporto di Kansai o il quartiere della Potsdamer Platz. Alle costruzioni di edifici si affianca la costruzione di due studi, ma anche di principi, di metodi di lavoro, di aneddoti e, per questa mostra, del suo stesso sguardo e forse anche del nostro.
Sono i principi che fanno l'originalità e la forza di Piano. Per lui lo stile non è importante, a meno che non abbia a che fare con il comportamento e l'attitudine pratica. Principio 1: il più tipico, quello che definisce Piano dagli inizi, è sempre di lavorare come architetto in collaborazione con ingegneri (Peter Rice, dalla costruzione del Beaubourg fino alla sua morte) e dei costruttori (di cui il miglior modello è certamente Jean Prouvé) . Principio 2: Piano non accorda valore a queste esperienze se non una volta messe in opera. La realizzazione è uno dei criteri essenziali di verifica del suo lavoro. Certamente per ragioni di percezione, considerando che i mezzi di riproduzione e simulazione dell'architettura non sono abbastanza fedeli né abbastanza potenti da permettere di sentire l'architettura senza poterla visitare in scala naturale. Forse Piano considera l'architettura non unicamente come un insieme materiale, sottolineando che esistono anche le dimensioni fondamentali degli accordi tra maîtres d'oeuvre, dei sistemi finanziari, dei siti, delle autorizzazioni amministrative, ecc. Un insieme che non può essere riconosciuto come valido che una volta realizzato. E poi c'è ancora da considerare la reazione degli utenti, coloro che vivono in quell'architettura, quelli che ne parlano e ne scrivono, definendone anche il valore ed il risultato. E' un idealismo pragmatico che governa l'azione, ad ogni livello. Per Piano, si tratta di accettare una realtà con la quale é necessario negoziare e quindi fare evolvere. Principio 3: questi principi sono spesso eletti a "decalogo" come garanzie di qualità. La concezione dei progetti è guidata da griglie di lettura e di analisi. Queste griglie riprendono i temi, definiscono i tipi di ricerca o i tipi formali com'è stato per le famiglie delle coperture (la tipica copertura shed), famiglie di materiali (il legno la ceramica, l'acciaio). Se queste griglie sono più formali che i principi, ci insegnano molto su Piano e sulla sua idea di architettura. Sono anche delle manifestazioni dell'esigenza di Piano di un'architettura coerente nel suo insieme. Dalla scala della città al dettaglio, il controllo è totale. Principio 4: lo stile e la creazione sono legati secondo Piano all'idea di dare una realtà ad una visione di un raggruppamento umano che comprende anche una dimensione emotiva ed immaginaria. Questo ci permette di capire la svolta rintracciata da Marc Bédarida a metà degli anni ottanta quando Piano passa da un'architettura di folle vive che riempiono e definiscono lo spazio, di materiali leggeri e malleabili, ad un'architettura più attenta all'apparenza, alla luce, le cui dimensioni strutturali e tecniche passano in secondo piano e per la quale i materiali sono ormai raffinati e perenni.

Piano non è più semplicemente un architetto, è già un mito. Un mito vivente e auto-costruito, almeno in parte. La figura eccezionale della mostra, la cui dinamica a spirale permette la scoperta delle idee -che circolano e si dispiegano da un progetto all'altro sviluppandosi- è inquietante. La sua perfezione potrebbe essere avvicinata alla rigidità, ma ricorda anche che il senso del progetto è dipendente per Piano dal controllo ad opera di un pensiero globale, che gestisce l'intero percorso del progetto, dalla concezione fino alla realizzazione.
Si potrebbe protestare che nell'architettura di Piano, il sensibile ha preso il posto della provocazione, Ma in realtà poiché si tratta di aprire le banche ai passanti, o di non investire il compratore di un unico ruolo economico, il sensibile potrebbe nascondere più sovversione che provocazione.

A qualche centinaia di metri dalla piattaforma Beaubourg, lo studio parigino RPBW, aperto sulla città. I passanti possono scorgere le équipe di Piano lavorare sui modelli in legno...

Valérie Châtelet
Lo sguardo dell'architetto-costruttore

Intervista a Olivier Cinqualbre

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