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Intervista a Olivier Cinqualbre, curatore della mostra "Renzo Piano, Un Regard Construit"

di Valérie Châtelet e Luca Marchetti


A poche settimane dalla chiusura della grande mostra Renzo Piano, Un Regard Construit (19 gennaio-27 marzo 2000) allestita al Centre Georges Pompidou a Parigi, Arch'it propone lettura a più voci dell'evento. Valérie Châtelet reinterpreta la figura dell'architetto genovese attraverso la configurazione di quest'ultimo evento-mostra; Luigi Manzione entra all'interno dei progetti esposti per evidenziare il carattere costruttivo che emerge su tutta l'opera di Piano; Valérie Châtelet e Luca Marchetti propongono una corposa intervista a Olivier Cinqualbre, curatore della mostra.





[18may2000]
VALÉRIE CHÂTELET/LUCA MARCHETTI: Comincerei chiedendole qual è stato il suo ruolo di commissaire in questa mostra che, se vogliamo, ha già in Piano stesso un grande curatore. E qual è stato il rapporto di Piano con i collaboratori non-architetti?

OLIVIER CINQUALBRE: Si è trattato di una collaborazione particolare perché la mostra di architettura è di per sé un'esposizione singolare. La "Grande Mostra" è stata concepita un po' come un progetto architettonico con un'équipe in seno allo studio e poi persone che intervengono dall'esterno, puntualmente o come me, sull'insieme dell'operazione dal concetto fino all'ultima operazione di montaggio. In definitiva tutto si è svolto come nella preparazione di un progetto dello studio Piano. Prima la concezione, poi la verifica di ciò che è stato fatto e nella parte di realizzazione della mostra ci si è riferiti a competenze esterne: il lavoro di grafica, quello degli ingegneri, la realizzazione dei prototipi, la verifica delle scenografie sistemate sui tavoli e la prova generale dei documenti e delle maquettes, che si è svolta in una sede distaccata dello studio. Tutti i tavoli sono stati montati a Genova dove è stato definito anche il layout di ciascuno, almeno dal punto di vista del contenuto. Con il fabbricante Tecno sono stati realizzati due prototipi mettendo a punto in particolare le soluzioni di sospensione delle superfici prima attraverso un sistema di ventose, poi con contrappesi e infine il fissaggio diretto a terra. Tutto il lavoro è stato orchestrato da Piano con la collaborazione di tutti gli altri. Naturalmente si è arrivati ad un punto tale che la messa in comune delle idee non ha più permesso di sapere chi ha fatto la prima proposta, chi l'ha ripresa e chi l'ha poi trasformata...

Come si distingue la "Grande Mostra" dalle precedenti e, perché no, dalle prossime?

Per quanto riguarda il futuro, la mostra del Centro Pompidou è stata ideata come progetto itinerante e sarà presentata a Berlino nella Neue Nationale Galerie di Mies Van der Rohe. Il contenuto resterà immutato e così la scenografia. Ciò che distingue la mostra dalle precedenti è principalmente la dimensione. Si tratta di una retrospettiva di grande ampiezza e siamo stati obbligati anche a concepirla in funzione delle sue proporzioni. Abbiamo preferito limitare il numero dei progetti e presentarli in modo che il visitatore non sia portato a leggere la storia di ogni progetto dall'inizio fino alla fine, visto che per quanto sempre differente nella sua specificità, il percorso di lettura di ogni progetto si ripete per tutti i lavori presentati. La mostra è diversa anche rispetto al rapporto tra fruizione e "scenografia". Prima d'ora Piano ha sempre cercato di mostrare il proprio lavoro secondo una metafora del suo studio. Abbiamo cercato di rompere con questa logica. I tavoli non sembrano più tavoli di lavoro, abbiamo mantenuto solamente la rappresentazione orizzontale dei lavori realizzati mentre abbiamo scelto la rappresentazione in verticale -usata anche nello studio di Piano- per i progetti in corso di studio.

Piano ha scelto di presentare solamente progetti già realizzati o in corso di realizzazione...

Esiste un certo equilibrio nella presentazione dell'esposizione. In primo luogo si mostra attraverso i lavori presentati sui tavoli cos'è l'architettura per Renzo Piano, vale a dire quel passaggio obbligato attraverso il cantiere e attraverso l'uso per verificare cosa accade delle idee che si sono avute. E' uno stadio che consiste in una sorta di "validazione" del progetto. I progetti teorici, i concorsi perduti non hanno motivo di essere presentati perché non c'è la possibilità di confermare o di infirmare le idee che erano state sviluppate. C'è questa necessità di mostrare l'architettura costruita, nella misura in cui si è potuto verificarla. In secondo luogo i progetti teorici, i concorsi perduti non hanno ragion d'essere. Il pubblico non capirebbe perché gli si presentano occasioni fallite, tentativi abortiti.

...vuole dire che si tratta della concezione di Piano che ama presentare così il suo lavoro...

...è così che lui vive la propria architettura. Ed è necessario mostrarlo nel contesto della mostra. Se avessimo voluto mostrare i concorsi persi ci saremmo posti in una netta posizione di contrasto. Però è stato scelto di mostrare anche il procedimento creativo di Piano attraverso i progetti in corso di realizzazione. Si vede chiaramente qual è il metodo, quali sono le tappe, gli strumenti utilizzati, i rapporti tra le maquettes e i disegni. Alcuni visitatori guardando i tavoli hanno avuto difficoltà a capire se le maquettes fossero studi oppure se fossero state preparate apposta per la mostra, ma appena ci si avvicina ai pannelli -che rappresentano i progetti in corso di studio- si possono ritrovare anche le maquettes viste in precedenza, della stessa qualità e con le stesse caratteristiche e anche il pubblico si rende conto così che si tratta di progetti in via di esecuzione. E' la prima volta che si mostrano in un'esposizione di Piano i progetti in via di concezione; ci serviva il modo di far percepire al visitatore il tipo di lavoro di Piano ma anche il suo farsi.

Con quale criterio sono stati selezionati i progetti da presentare?

Innanzitutto, ci sono stati progetti realizzati che non sono stati presentati, forse perché non rientrano tre i "figli adorati" in questo momento. Ci sarebbe forse piaciuto il progetto del centro commerciale di Bercy perché è il primo progetto in cui Piano lavora sul concetto del'involucro ed ha certamente facilitato la realizzazione di Kansaï. E' vero però che il progetto è stato spesso denigrato e Piano ne percepisce chiaramente i limiti come certi problemi di mantenimento della struttura. Sono stati inclusi anche progetti senz'altro meno forti che fanno parte dell'itinerario di Piano nel suo museo immaginario e di cui la presenza è necessaria perché lui si senta bene: esigenze personali, come il fatto di non poter immaginare di presentare il proprio lavoro senza il sottofondo sonoro di Zabriskie Point di Antonioni.

Come analizzerebbe il percorso di Piano attraverso la mostra e come sono stati scelti i tre temi urbanité, sensible e invention?

La scelta dei tre temi, anche se in definitiva non sono stati esplicitati nella mostra, erano un canovaccio perché si potesse, a partire da questo, costruire l'esposizione e guidare il visitatore, anche se, in un certo senso, nell'oscurità per nella mostra non sono indicati in modo esplicito. Credo che questi tre temi caratterizzino bene l'architettura di Piano e soprattutto la lettura che lui stesso fa del proprio lavoro. In questo senso questa lettura può essere associata al lavoro dell'équipe che ha realizzato la mostra. Mi interessava situare la mostra esattamente in questo momento della storia di Piano. Ci sono già stati libri scritti su di lui, ci sono già state mostre e credo che una retrospettiva sia un momento da situare con precisione, perché offre la possibilità di avere un certo sguardo sul lavoro, uno sguardo che può essere condiviso dall'architetto stesso e capace di determinare una visione "datata" della sua opera. Più tardi, magari anche una volta scomparso l'architetto, altri potranno determinare nuove letture con una presa di distanza storica ed una messa in prospettiva del lavoro. Adesso è importante questa idea di situare l'esposizione in un tempo dato con la costituzione di queste tre famiglie tematiche, soprattutto perché anche all'interno dello studio questi tre temi servono come griglia di lettura. Allo stesso modo di un progetto d'architettura con tutto ciò che porta di nuovo, magari integrato nella cultura stessa dello studio, la realizzazione della mostra potrà essere ripresa e sviluppata in altri progetti.

A proposito della traduzione dei tre temi dall'italiano al francese: città è diventato urbanité, termine che oltre a non corrispondere esattamente all'originale italiano è connotato storicamente secondo il pensiero di Lefebvre. Cosa giustifica questa scelta?

Forse non mi sono spiegato a sufficienza nel mio articolo nel catalogo. Quando Piano ha proposto i tre temi, li ha enunciati in italiano. La nostra non è tanto una traduzione dall'italiano al francese ma una traduzione interpretativa di quello che stava dicendo. I termini di invention, urbanité, sensible mi sono sembrate una terminologia appropriata nella misura in cui fanno riferimento a tentativi di ricerca con velleità di arrivare a qualche cosa. La poesia in architettura non si fa per fare della poesia pura. Un edificio è concepito poi la qualità della struttura può produrre dell'emozione e toccare la sensibilità. La città [in italiano, n.d.t.] è invece il quadro in cui Piano realizza la maggior parte dei suoi progetti. non è questo che costituisce la caratteristica de suoi progetti. C'è la ricerca nella produzione architettonica di Piano di conferire al progetto realizzato nella città la dimensione dell'urbanità, quindi un adeguamento al sito, un'osmosi tra il luogo e l'edificio. Per il concorso del museo delle arti primitive sulla Quai de Branly, il progetto con le sue qualità non ha la magia che possono avere altri progetti di Piano perché non c'è fusione con il luogo al di là della presa in conto di certe linee. Il genio del luogo non è arrivato all'équipe di Piano. Il progetto è situato là ma avrebbe potuto essere ovunque ed è facilmente comparabile al progetto di Harvard che abbiamo esposto, eppure l'équipe che ha lavorato al progetto di Branly non aveva visto la mostra del Pompidou. La somiglianza è stupefacente per due progetti portati a termine da équipes diverse.

Veniamo a problematiche più vicine alla comunicazione della mostra. Per comunicare un'architettura, un progetto, è necessario operare un'astrazione rispetto al progetto. Secondo quali criteri?

Credo che si cerchi una linea di condotta che permette che in un breve lasso di tempo la persona sia in grado di ricevere un certo numero di elementi che le permettano di comprendere quello che vede e se non di comprendere almeno di apprezzare. La scelta di quello che si mostra, la quantità, il modo che si ha di mostrare ha molto peso in questo senso. Dopo l'inaugurazione mi sono chiesto se il pubblico specializzato avrebbe trovato soddisfazione nella presentazione relativamente povera di disegni professionali di cui si è scelto di limitare le varianti per offrire una visione del progetto più diretta. Dopo aver avuto varie discussioni con persone incontrate tra questo tipo di pubblico ho avuto modo di capire che la mostra permette ad ognuno di vedere ciò che ha voglia di vedere, tutte le esigenze (le più e le meno esperte) sono state soddisfatte. Per il pubblico meno esperto nozioni molto importanti sono la quantità, la velocità e la durata dell'esposizione. Ciò che ha funzionato molto bene è stata la possibilità per il pubblico di vedere la mostra a velocità differenti. Era possibile passeggiare e seguire (o meno) un certo ordine che permetteva alla gente sia di ritrovarsi che di evitarsi. Era possibile guardare una tavola e non considerare che gli elementi più evidenti oppure andare più in profondità. Oppure anche vedere la mostra in un totale disordine cronologico. Sono possibilità che abbiamo ricercato esplicitamente.

...si può dire che si estraggono dal progetto degli elementi che vengono poi messi in scena? di fatto che cosa si comunica?

Sì, un altro elemento di ricerca è stata la "scenografia" dal momento che si sa per esperienza al Pompidou che l'architettura, a differenza delle arti plastiche, deve essere messa in scena, valorizzata dalla scenografia per essere meglio recepita dal pubblico. La scenografia in sospensione, per esempio, è stato un elemento particolarmente riuscito. "Io lavoro sulla leggerezza, sulla trasparenza" dice Piano; e nella mostra ci siamo trovati a tradurre questo discorso in termini concreti. Senza dargliene esplicita dimostrazione il pubblico era immerso in una situazione in cui i tavoli e gli elementi sospesi potevano influenzare i visitatori prima di tutto inconsciamente rispetto a quanto stavano vedendo. Poi una caratteristica che ha favorito la percezione riuscita della mostra è stata l'unità tra quello che era presentato, il modo in cui era presentato, e il quadro in cui era presentato. Combinazione che si è rivelata fruttuosa. Lo spazio poi è uno spazio inedito in questa configurazione: senza chiusure interne né verso la città.

Le scelte multimediali, così à la page in questo momento, sono assenti dalla mostra che punta più che altro sull'effetto espressivo del legno. Una sensibilità più calda senz'altro ricercata...

La mostra rende conto attraverso i documenti presentati del percorso dell'équipe di Renzo Piano. Ora, le immagini informatiche, il film, tutto ciò che possiamo classificare -per così dire- come "nuove tecnologie di comunicazione" non appartiene all'universo dello studio. Nella mostra si presenta più che altro il sito, lo studio stesso, ma non c'è ricerca di resa attraverso l'infografia, il film o il medium del video perché esce un po' dal loro universo. A Bayeler c'era uno spazio di proiezione audiovisiva insieme all'esposizione ma l'audiovisivo resta più che altro un supporto. Per questa mostra, le tavole-mediateca hanno questo ruolo di integrazione multi-mediale. Da un lato le foto sospese verticalmente appaiono un po' retrograde rispetto alla demoltiplicazione dell'immagine proiettata, dall'altro dobbiamo considerare che la foto è convocata solo come testimone. Invece, per la Biennale di Venezia, l'esposizione sarà presentata insieme al Centro Pompidou a mezzo di proiezioni e interventi multimediali.

Com'è stato concepito il catalogo?

A differenza della mostra il catalogo è stato concepito senza la collaborazione di Piano. Ci ha dato fiducia per la costruzione, la scelta degli autori, le scelte iconografiche, e l'organizzazione generale. Il solo intervento di Piano nel catalogo riguarda i testi brevi che presentano i progetti ancora in via di studio perché a noi è sembrato impossibile commentare progetti per i quali non abbiamo potuto avere le migliori informazioni. Può sembrare paradossale ma ho chiesto io stesso che il catalogo seguisse la mostra come filo conduttore, e che i tre autori fossero disposti all'esercizio di validarne i temi, verificarne la pertinenza decidendo che anche le opere esposte sarebbero state presentate rispetto alle tre famiglie tematiche. In un certo senso il catalogo è organizzato secondo il trittico dei tre temi molto più in profondità della mostra dove i temi non sono esplicitati. La scelta un po' arcaica di un catalogo così tipico "da esposizione" ha funzionato bene ed aiuta a separarsi dalla produzioni anteriori dello studio.

Non si tratta quindi di una semplice documentazione dell'esposizione...

Nella mostra i tre temi erano distribuiti secondo una geografia discreta sottolineata solo da un documento gratuito in distribuzione al pubblico da leggere magari dopo la visita. Piano non voleva che ci fossero frecce ad indicare i temi. Ci siamo chiesti come fare: presentarli attraverso un codice-colore o un titolo ricorrente. In ogni caso mi sembrava importante tematizzare la mostra in questo modo. Il catalogo afferma questa composizione tripartita e devo dire che sarebbe stato paradossale che il lavoro degli autori si fosse trovato in contrasto con la tematizzazione della mostra scoprendo che questo approccio non appartiene affatto al registro dell'architetto. In ogni caso la tematica è stata arricchita anche dagli apporti personali degli autori come Marc Bédarida che ha cominciato il suo saggio sul "sensibile" riferendosi al tipo di collaborazione che può avere Piano con gli uni e con gli altri, i suoi collaboratori, gli ingegneri facendo riferimento anche al cliente. Questo sviluppo che non appartiene affatto alla tematica di partenza ha trovato comunque un suo posto nell'insieme e non penso che ci siamo sbagliati per quanto riguarda la tematica; eravamo guidati dalla visione personale di Piano, lui stesso avrebbe potuto sbagliarsi, avere una visione deformata essendo il primo implicato nel proprio lavoro. E' chiaro che non è stato così.

La mostra ha forse permesso di far emergere direzioni che non erano evidenti nel lavoro degli studi Piano, magari perché le due équipes lavorano separatamente? Quindi direzioni che hanno origini diverse?

Attualmente credo che i tre temi operino come griglie di lettura negli studi; si sovrappongono ad altre griglie come quella dei materiali, la ceramica per esempio e allo stesso modo, una riflessione per famiglie di soluzioni di copertura. Questa nuova griglia di lettura persisterà certamente nello studio almeno per un po' di tempo. Il tema del sensibile per esempio non esisteva in passato...

Come testimone di una tappa importante dell'evoluzione del rapporto di Renzo Piano con la sua opera forse più provocatoria, il centro Pompidou; può dirci come si è sviluppato il suo atteggiamento nei confronti di questo progetto?

Penso che sia un argomento complicato perché ci è difficile avvicinarsi a queste questioni serenamente. E' vero che Piano ha cambiato il suo rapporto con il Pompidou in trent'anni. E' normale. La questione diventa complicata quando cerchiamo di riportare questo rapporto autore/edificio nel contesto più generale dell'evoluzione della società, dei programmi. Piano ha sofferto come Rogers delle modifiche che sono state apportate all'edificio per problemi allo stesso tempo architettonici e di organizzazione come l'abbandono della libera circolazione nella scala mobile esterna e l'accesso attraverso scale mobili sovrapposte nella Bilblioteca. Mi sono chiesto come Piano avrebbe affrontato la questione quando la pressione mediatica ha cominciato a crescere al momento della riapertura del centro. Piano ha tenuto un atteggiamento intelligente che ben gli corrisponde, quindi in un primo tempo si è felicitato per la riuscita dei lavori e in un secondo tempo ha detto "ci siamo battuti al momento della concezione del Centro per un edificio flessibile, non possiamo lamentarci adesso che si verificano evoluzioni in un senso e che più tardi queste cambino di direzione. E' il gioco della flessibilità". L'edificio è sufficientemente forte per assumere le trasformazioni in corso quale che sia la direzione presa. Qualunque cosa succeda, il risultato del Georges Pompidou oggi è quello della partecipazione di diversi direttori dei lavori, RPBW, lo studio Bodin, lo studio Jacob-Mac Farlane...

...e il rapporto di Piano stesso con il Centro le sembra cambiato rispetto ai propositi provocatori dei tempi delle sua concezione?

Quello che trovo delicato in questa discussione è l'impressione che i commenti della stampa e della critica d'architettura scoprano oggi attraverso gli interventi e le soluzioni architettoniche l'evoluzione del progetto Pompidou quando la prima evoluzione da considerare è quella sociale. La provocazione e l'utopia del Beaubourg era veramente in fase con la sua epoca? Non era magari qualcosa di già un po' attardato che magari ha avuto la funzione di rilancio di certe idee? Forse gli edifici sono un modo di percepire tutto questo perché lo cristallizzano. E sono sorpreso in genere del livello assai debole d'analisi e delle critica che si ritrovano nella stampa d'architettura sull'evoluzione del Centro Georges Pompidou. L'attenzione è tutta focalizzata sulla restrizione d'accesso alla scala esterna mentre ci sono cose ben più importanti da considerare.

E qual è l'atteggiamento di Piano?

E' immaginabile che Piano si trovi in un situazione di capacità di realizzazione in fase con la società per poi presentare un progetto ambiguo? Non ci riuscirebbe. Non è Piano che ha inventato la questione della capitalizzazione culturale. In un certo senso le risposte architettoniche che si sono sviluppate in seguito alla concezione del Centro non guastano l'immagine architettonica d'origine. Per quanto riguarda le modifiche d'accesso alla scala esterna Rogers ha dichiarato in reazione "bisogna che Beaubourg resti un edificio per il popolo", temperato da Piano che ha ricordato che people in inglese non ha la stessa connotazione di popolo (peuple, in francese). La preoccupazione era che facendo pagare l'accesso alla scala esterna, l'animazione, la vita, scomparissero. Oggi, dopo la riapertura non si può proprio dire che la scala sia vuota e sul piano dell'architettura l'insieme non ne soffre. L'analisi dell'edificio può attendere che il dibattito si plachi. A mio avviso ci sono regressioni che non possono essere percepite di primo acchito. Un edificio come Beaubourg deve essere apprezzato con la sua frequentazione, più per la sua capacità di funzionamento che per l'estetica. Siamo nel regno dell'efficacia.

(traduzione dal francese di Luca Marchetti)
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