home > files

Files

Dell'irreversibilità della storia e altre quisquiglie

Giovanni Damiani
Pubblichiamo il contributo di Giovanni Damiani che scrive dando seguito all'articolo di Pier Vittorio Aureli, Andrea Costa, Ilhyun Kim, Giuseppe Mantia, Luka Skansi Città e Architettura. Note a margine della crisi e ai successivi interventi di Massimo Ilardi Controparte politica e realtà del mercato e di Luca Molinari La realtà ha bisogno dell'architettura pubblicati nei giorni scorsi su ARCH'IT.




Sono lieto che in questo assordante silenzio qualcuno abbia voglia di dire cose dotate di senso e non solo cavalcare il rumore nella speranza che questo surfing da bassa onda sia il senso proprio del fare del nostro tempo. Sono oltremodo contento che a farlo sia la voce di una generazione che si sta lentamente connotando. Devo dire che è proprio la voglia di parlare e di "uscire dalle nebbie" che mi pare la cosa più interessante dell'intervento del "gruppo dei 5".

[06jan2003]
Parlo di generazione perché credo si possa dire che c'è una discontinuità da chi precede e alcune caratteristiche comuni che forse vanno puntualizzate. Siamo -parlo in prima persona sia perché ne faccio anagraficamente parte, sia perché vorrei dare a tutti questi appunti un tono leggero di lettera aperta- i figli del boom economico più che del Sessantotto, abbiamo vissuto le tragedie degli anni Settanta nell'ovatta della giovinezza. Ricordiamo tutti del tempo in cui esisteva il pensiero, di quando le cose avevano pretesa di essere decisive. Non abbiamo sulle spalle il fallimento culturale di questo paese, svoltosi negli anni Ottanta, e neppure remore a voler capire le avventure del capitale e di come si siano costruiti principi e regole dell'economia e della politica in altre paesi. Non siamo ingenui, sappiamo e abbiamo strumenti per capire la generazione degli "ex splendidi quarantenni" quando parlano di politica con la convinzione di chi ha per lo meno fatto dei tentativi, ma anche del rifiuto netto dei valori come da loro proposti oggi. Si, siamo diversi, sufficientemente diversi per essere altro.

Siamo molto diversi, il nostro muto e duro silenzio è un silenzio dissenso, non ancora quel muro di gelida disapprovazione che sta maturando nelle nostre università da parte dei più giovani che qualcuno scambia per apatia e che invece è semplice presa definitiva di distacco. Noi ancora possiamo capire, sappiamo parlare, vogliamo parlare, ma altresì sappiamo che tutto è radicalmente mutato, che i tempi stanno nuovamente cambiando, che quella benedetta ruota si è rimessa a girare e che sarà diverso il tempo che ci apprestiamo a vivere. Io credo che siamo per certi versi i primi ad accorgerci che tutto è cambiato e che questa trasformazione cancellerà molto della nostra cultura, temo con la stessa muta ferocia con cui sta semplicemente sparendo la FIAT e con lei tutto un settore industriale del nostro paese.

Se continuo a pensare a noi, penso che siamo poi gli ultimi ad aver studiato in una scuola colta e lenta, il cui primo obiettivo non era una presunta produttività, ma la produzione di un sapere. Siamo senza dubbio gli ultimi che si sono confrontati con alcune grande figure dell'architettura italiana, ma anche quelli che hanno affrontato i maestri quando questi non avevano bisogno di rivendicare potere o di demolire le generazioni successive per continuare ad esercitarlo come è avvenuto per anni. Noi ne siamo usciti vivi, integri e credo perché questi maestri non erano i nostri padri, semmai i nostri nonni spirituali. Non ci siamo dovuti liberare di padri scomodi, abbiamo avuto padri deboli schiacciati dai loro e invece nonni forti e saggi che ci hanno insegnato tante storie. Abbiamo potuto dubitare fin da subito dei nostri docenti importanti, ci siamo trovati con tanti di voi cinque che scrivete, ai corsi degli Aldi Rossi, dei Tafuri dei Gregotti. Tanti di noi debbono molto a loro e molto a chi, come Secchi, del nucleo storico di quella scuola ha avuto più energie e coraggio di altri da continuare a cercare cose diverse e confrontarsi con le generazioni successive, ma anche da questa ultima categoria alla fine tutti noi ci siamo dovuti, in modi diversi, discostare.

Condannati piacevolmente alla solitudine e costretti a scovare tecniche nostre per emergere, costretti a cavarcela all'estero a imparare lingue, a vedere altri progetti, a progettare in e per altri mercati. Siamo la prima generazione che pur di continuare a cercare è andata via con tanta leggerezza, trovando il mondo come naturale casa e vedendolo un luogo aperto senza confini come aperto lo avevano visto generazioni precedenti alla nostra che avevano vissuto altri a e meno feroci e tragici anni Settanta di quelli Italiani.

Siamo diversi, non so se ancora sappiamo cosa vogliamo o solo ciò che non desideriamo per noi e il nostro paese, ma siamo diversi e per questo la vostra uscita pubblica mi ha spinto a rispondervi. Solo perché so che abbiamo capito certe cose tutti assieme, generazionalmente, non per merito delle intuizioni o delle intelligenze del singolo, credo di poter non essere d'accordo con voi. Non sono d'accordo nella necessità di ritrovare un peso della teoria, non sono d'accordo con l'idea di cercare nel passato supporti, non sono d'accordo con nessuna forma di autonomia disciplinare, non sono poi d'accordo sul fatto che si possa cercare delle nuove ideologie che reggano idee. A ben guardare credo che tutto ruoti attorno ad una idea di storia che io vedo come comunque continua e in movimento. Di certo non lineare, di certo non continua e densa, non credo progressiva o foriera di giustizie e luminosi domani, ma in moto e con un verso. Non mi pongo eccessivamente il problema del verso di questa progressione, ma non riesco a vedere una storia che sia ciclica o che possa ripetersi. È vero che alcune cose ritornano (a volte), ma ritornano, o meglio ci sembrano simili, perché alcuni problemi si ripetono, ma il contesto –la storia appunto- è diverso.

Quando vi sento parlare della vostra voglia di teoria io leggo una malcelata nostalgia dei bei tempi che furono, "quando esisteva un pensiero", ma a questi bei tempi io non credo, anzi il non credere "ai bei tempi" mi sembrerebbe proprio uno dei punti più interessanti da cui ripartire. Reputo questa presa di coscienza nichilista di poter costruire con il nulla e sul nulla la base di quello che saremmo chiamati a fare. Nessuna nostalgia è concessa, altrimenti Rossi è invincibile e ha già detto e fatto tutto. La sconfitta dell'ideologia è strutturata e totale, non ammette repliche se non posticce, non mi pare assolutamente che questo sia un limite, anzi mi sembra una risorsa. Se qualcosa abbiamo imparato dalle nostre incursioni all'estro è proprio che la crisi è una risorsa, le difficoltà sono occasioni per crescere, non per lamentarsi. Questi sono strumenti che abbiamo solo noi e che ci siamo conquistati andandocene per il mondo a capire mentre altri si lagnavano standosene a bar con i maestri a guardare che belle cravatte avessero. Non buttiamola via.

È il sistema che ha retto e strutturato la modernità, parta essa dalla costruzione dell'Ospedale degli Innocenti, dalla scoperta delle Americhe o dalla Rivoluzione Francese, che si è decomposto sino a questa poltiglia che è il pensiero oggi, non speriamo di fermare la storia o di farne un luogo neutrale. È la modernità in toto che è collassata su se stessa, dimostrando che tutto questo sbracciarsi avanguardistico aveva il suo senso e che averlo visto "solo" come provocazione o avventura colta è stato poco lungimirante. Non c'era nulla di provocatorio nel fare "assurdo" di un Hugo Ball: era solo realismo, una cinica visione del mondo così come si intravedeva esplodere dietro le tende del palazzo. Che qualcuno abbia preferito far suonare musica di "qualità" e bearsi del suo essere "dentro", al caldo, questo è davvero poco significativo. La storia ha dato e ci da continuamente modo di vedere che quel "dentro" non esiste più, che non ci sono più dei "dentro" possibili, che tutti sono sulla strada, definitivamente. Che Rossi si ammali di voglia disperata di quegli interni smarriti è e deve essere un problema suo, un problema personale che ha tanta nobiltà di essere proprio perché privato, ma gli interni rossiani sono gli interni del suo mondo, non hanno pretesa folle di essere il dentro del palazzo di tutti.

Il palazzo non c'è più, è crollato sotto le bordate definitive (e in questo a mio giudizio sane) del Novecento, oggi si tratta di capire come -e se- si può edificare il nostro tempo, che è un tempo senza confine fra il dentro e il fuori. Non so se si possa fare un'architettura che rappresenti istituzioni e una società che non ha più distanza fra bene e male, fra dentro e fuori appunto, un tempo dove il potere è sempre in trattativa e discussione. Forse non si può proprio, forse l'architettura capace di dire cose è davvero finita nel crollo del Moderno, ma se questo non fosse, non è ricostruendo palazzi densi di senso o cercando il senso proprio dell'architettura che si apriranno delle strade. Credo che la realtà sia ancora la cosa più interessante del nostro tempo e che prima della ricerca di teoria o di pretese riletture delle ideologie sia interessante ricominciare delle analisi serie del nostro tempo.

Il vostro scritto mi pare significativo quando parte dal fastidio per una teoria ridotta a "tre parole" o al cercare di capire la società resa banalissimo "mapping", piuttosto che al progettare il proprio tempo ridotto a "concept", ma questo fastidio (condivisibilissimo e condiviso per altro) non può offuscare anche il nostro guardare.

Se alcuni architetti e critici pensano che tutto sia risolvibile in maniera semplice e la realtà sia fotografabile o rappresentabile con qualche gioco del computer o con la scoperta della telecamera è e deve essere problema suo, non certo nostro. Non si può impostare una battaglia culturale su un fastidio per il miserrimo livello del dibattito del nostro tempo o sulla pochezza delle nostre scuole e degli attuali insegnanti. Se prima di noi non hanno saputo dire o proporre cose interessanti capaci di dare idee alla società (questo è il punto davvero importante, ha pienamente ragione Molinari) tanto meglio, è un problema loro non facciamone una questione decisiva. Mi pare che porsi come obbiettivo il superare questo stallo o affermare che certi progetti alla moda siano scadenti sia avvero poco ambizioso.

È ora di decidere cosa siamo e cosa vogliamo, farlo noi con coscienza e la maturità che le generazioni precedenti non hanno saputo e, soprattutto, potuto avere. Non è impossibile muoversi nel mondo ipercomplesso di oggi, il fatto che altri prima di noi abbiano sostanzialmente fallito non ci autorizza a smettere di provarci, se i tempi non erano maturi questo non vuol dire che tutto sia irreversibile. La storia non è irreversibile e i tempi mutano velocemente, la nostra condizione è davvero tanto diversa da quella del tempo che voi vi proponete di rileggere; dice bene Ilardi che la condizione metropolitana ha altre leggi e deve avere altri strumenti per fare la sua architettura. Per favore non chiudiamoci in un'altro degli aspetti generazionali che ho taciuto nel mio stucchevole inizio, ovvero un certo conservatorismo, una ricerca di presunti "valori" da contrapporre alle generazioni prive di radici capaci di renderle stabili alberi che ci precedono.

I "valori" non esistono più, sono scomparsi trascinati dal gorgo della storia assieme alla modernità, questa crisi che voi vedete come elemento da controbattere io la vedo come la più grande risorsa in nostra mano: la crisi è la base del nostro tempo, al punto che senza crisi non ci sarebbe più neppure il nostro agire. È ora di fare un'architettura "della" crisi non "contro" di essa, tornare a combattere davvero una battaglia seria "con" il nostro tempo e non "contro" di esso. Impariamo a leggere le nostre metropoli -scusate ma se parlate di città, una cosa che io non credo neppure esista più, come faccio a essere d'accordo– a vivere e a costruire rapporti, possibilmente pacifici, fra persone e razze diverse, prima di avere l'ansia di costruire il nuovo palazzo del re o con quali leggi costruirlo. Altrimenti poi non capiamo che il re non c'è più e che la società ci stava chiedendo altre cose.

Insomma, priorità alla comprensione delle strutture al seguito del ribaltamento che è già avvenuto e -caso mai- dopo ci metteremo a riedificare i nuovi centri del potere che verrà, o meglio "vi" metterete perché a me questo interessa davvero poco. Credo che la cultura italiana debba leggere e studiare tanto dei libri degli ultimi venti-trent'anni più che rileggere per l'ennesima volta Albini, Gardella e gli altri di quell'Italia che non c'è più, non per non voler leggere gli antichi maestri o non voler scavare tra le tante cose interessanti che ci sono in quegli anni in questo paese, tutt'altro, ma per capire prima che farsene di questi studi da farsi, per (ri)dare senso al nostro agire.

Giovanni Damiani
gdamiani@architecture.it

> CITTÀ E ARCHITETTURA. NOTE A MARGINE DELLA CRISI

Per qualsiasi comunicazione
 è possibile contattare la
redazione di ARCH'IT


laboratorio
informa
scaffale
servizi
in rete


archit.gif (990 byte)

iscriviti gratuitamente al bollettino ARCH'IT news







© Copyright DADA architetti associati
Contents provided by iMage