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Discontinuità Continua: oltre la descrizione. Riflessioni intorno ad una tesi di laurea che esplora nuove forme insediative nel Nord Milano.

Andrea Boschetti
Di fatto, questo intervento è una ricognizione critica intorno al tema del progetto d'architettura ed urbanistica ed insieme l'occasione per raccontare una interessantissima tesi di laurea presentata qualche tempo fa al Politecnico di Milano. Tesi di laurea che ha suscitato non poco dibattito in sede di giudizio -per varie ragioni su cui poi torneremo- ma che mi pare emblematica di un decisa volontà di aprire un dibattito teorico-riflessivo a partire dal senso e significato di un progetto oggi.

[02aug2003]
> RUSSI. DISCONTINUITÀ CONTINUA. NUOVE FORME INSEDIATIVE NEL NORD MILANO
Una ricerca progettuale che porta con sé, a mio modo di vedere, e non di certo senza contraddizioni, una fertile carica esplorativa ed investigativa della realtà contemporanea che descrive; una realtà che però non viene esclusivamente registrata ma che, invece, costituisce la traccia e la chiave interpretativa per un racconto nuovo, ancora a venire. L'oggetto specifico di questa ricerca è il fenomeno dell'urbanizzazione diffusa del "nord Milano", il suo stato di fatto, le sue potenzialità e la costruzione di un possibile scenario progettuale "urbano" unitario e riconoscibile per il suo futuro.

Ma perché tutta questa attenzione intorno ad una tesi di laurea? Prima di tutto, anche se apparirà banale, perché è raro di questi tempi individuare ricerche studentesche in grado di accostare ad un progetto alcune riflessioni di carattere più propriamente teorico, ed in secondo luogo perché il progetto di Nicola Russi è riuscito a sollevare, anzi a scatenare, delle reazioni da parte della commissione di laurea che andavano oltre, a mio avviso, le semplici considerazioni critiche di merito; per alcuni lo stimolo a parlare di questioni per troppo tempo non oggetto di dibattiti collettivi, per altri una vera e propria strenua e disperata difesa, almeno così è parso, di metodi, maniere e presunte certezze, ormai superate dalla realtà che ci circonda. Tuttavia, intorno a questo lavoro, sono stati sollevati nodi problematici importanti della nostra disciplina quali quello dell'autonomia, della comunicazione e del ruolo attuale che riveste il progetto alla scala urbana a dispetto delle dinamiche contemporanee e, soprattutto, di quelle future. Insomma una discussione finalmente interessante senza veli e troppo facili chiusure dentro mondi facilmente dogmatici. Così dovrebbe essere un sano e fertile confronto, no?

Inoltre, mi sembra anche di poter dire che questa tesi di laurea può anche essere letta (seppur con le dovute cautele del caso) come un ulteriore piccolo contributo, teorico-progettuale questa volta, al dibattito innescato da Pippo Ciorra sulle relazioni oggi sempre più assenti tra teoria e progetto; editoriale seguito a ruota rispettivamente da quello del "quintetto veneziano" (Pier Vittorio Aureli, Andrea Costa, Ilhyum Kim, Giuseppe Mantia, Luka Skansi) -dal titolo emblematico Città e architettura. Note al margine della crisi- e successivamente da altri scritti rispettivamente di Massimo Ilardi, Giovanni Damiani, Luca Molinari, Ugo Rosa e ancora dal "quintetto (divenuto sestetto) veneziano".

Il progetto presentato da Nicola Russi titolato discontinuità continua costituisce anche, non a caso, il titolo di questa breve riflessione, le cui motivazioni saranno più chiare in seguito. Titolo a cui ho aggiunto l'enunciazione "oltre la descrizione", per una serie di riflessioni, che come Metrogramma stiamo conducendo in questo periodo e che per sommi capi intendo attraverso la presentazione di questa ricerca proporvi quale riflessione in divenire.

Discutere a partire da un caso progettuale specifico potrebbe apparire un pochino pretestuoso se non addirittura presuntuoso. Tuttavia, la volontà di porre un progetto -al centro di una riflessione che ha come oggetto le relazioni che intercorrono tra teoria e progetto oggi- suggerisce al contrario, secondo me, una atto di responsabilità e chiarezza importante nonostante tutta la relatività del caso; inoltre lo ritengo necessario se si intende, finalmente, ed in modo concreto, tornare a parlarne. Perché necessario? Perché troppo spesso accade che ci si trova un pochino spiazzati e disorientati di fronte ai significati latenti contenuti in alcune posizioni ed enunciazioni. Mi riferisco in particolare allo scritto del "quintetto/sestetto" ove apertamente si dichiara una sincera nostalgia nei confronti di una forte teoria del progetto. Affermazioni che però in assenza di una scelta chiara di riferimenti (progetti) attuali con cui confrontarsi, vale a dire di exempla critici di sfondo –e non di un "atlante" dei rimandi storici, per quanto di assoluta eccellenza- mi lascia personalmente molti dubbi e, credo, legittimi sospetti in merito. Mi chiedo infatti che senso ha tutto ciò? Quali sono gli obiettivi di tale excursus nella memoria (per quanto sempre utile ed interessante). Di quale forma di autonomia disciplinare si parla? Non è forse necessario andare a ridefinire il concetto di interdisciplinarità prima di riaprire i sarcofagi reali?

Che in Italia sia congenita una mentalità piuttosto conservatrice è nei fatti della storia ed i nostri giorni più che mai ce lo dimostrano. Debolezza di pensieri (o pensieri deboli come meglio dir si voglia), insicurezza, incertezza ed eccessiva provvisorietà stanno alimentato soprattutto anche all'interno di coloro che svolgono ricerca a ridosso dei temi inerenti la città contemporanea, un generale bisogno di "rassicurante". Tutto questo in un momento in cui ci sarebbe invece, come ha ben ricordato proprio Giancarlo De Carlo introducendo la premiazione della Medaglia d'Oro all'Architettura Italiana, una grande necessità di rinnovamento, ricerca e sperimentazione per tentare di "comprendere, ma soprattutto proiettare in avanti il senso della contemporaneità". Spero insomma che l'obiettivo alla base dei due articoli dei "veneziani" non ricalchi quindi una posizione troppo spesso (per il tempo in cui viviamo) ricorrente e persistente cioè quella di un neoaccademismo un po' reazionario. Lasciamo tale "privilegio" ai raduni nostalgici di taluni architetti della cosiddetta ex identità italiana. Mi riservo comunque il beneficio del dubbio... come sempre!! Ma è anche possibile altresì, come sinceramente spero -e qui mi troverei totalmente in accordo- che lo scritto dei "veneziani" costituisca invece una legittima rivendicazione di un piano di riflessione coesistente e consistente oggi sempre più assente nel mondo dell'architettura e dell'urbanistica; un grido di sofferenza che intende invece esprimere con chiarezza la convinzione che per uscire dalla crisi è ancora una volta necessario radunare le energie intellettuali in nome di una ridefinizione necessaria dei compiti e delle istanze operative di questa disciplina. In poche parole la voglia di superare la fase "iperdescrittiva" del mondo in cui viviamo e abitiamo; ma questa è una questione su cui tornerò dopo. Inoltre, a causa della mia irreversibile inclinazione di architetto, preferisco parlare di idee, di immagini propositive e critiche piuttosto che di crisi... perché è di questo che forse, si sente oggi veramente la necessità. Solamente così, infatti, si può forse sperare di tornare ad orientarsi all'interno del "diluvio" di immagini e forme -come alcuni autorevoli ricercatori hanno scritto in questi anni- in cui viviamo quotidianamente! Anche per questo motivo quindi, piuttosto che discutere di crisi mi interessa più parlare di idee e di come queste si possano affermare quali presupposti teorici e critici. Credo, da questo punto di vista, per tornare al lavoro che sto presentando, che il progetto di Nicola Russi apra un orizzonte di questioni piuttosto interessante.

Innanzitutto mi pare che il progetto di Nicola Russi esprima chiaramente la necessità di tornare ad affrontare i contesti urbani contemporanei attraverso grandi progetti urbani dalle forme riconoscibili capaci di divenire immagini strutturanti del territorio nel suo complesso. Progetti che non hanno la pretesa di prevedere in modo esaustivo ed estensivo i processi di trasformazione in divenire ma che invece fissano e mettono in evidenza i nodi cruciali, strategici e talvolta più problematici delle modificazioni in corso. In questo senso il lavoro sui "margini" colloca lo spazio aperto collettivo in cima alla lista dei "materiali urbani" in grado di garantire grandi processi di trasformazione nel tempo. Un tema, come anche quello del concetto d'infrastruttura (questione affrontata dal progetto di Nicola Russi), su cui è ancora possibile, forse, proiettare nel tempo certezze progettuali condivise.

L'idea di progetto urbano, secondo Nicola Russi, mi sembra si possa inserire a pieno titolo nella tradizione mediterranea soprattutto di lettura e descrizione sensibile dei luoghi e dei paesaggi in cui va ad operare. Un punto di vista che però non rimane ancorato all'idea di vincolo e/o presupposto conservativo; logica che spesso conduce alla banalizzazione ed eccessiva semplificazione della realtà. Pare emergere invece un sguardo capace di mettere in evidenza le potenzialità della particolare forma urbana esplorata. Un'ottica decisamente operativa e indirizzata alla trasformazione. Sembra che con questo atteggiamento Nicola Russi ci voglia dire che le forme urbane che conosciamo e abitualmente abitiamo rappresentano solo una tra le possibili configurazioni spaziali del nostro ordinamento sociale, e che oggi uno dei compiti della nostra disciplina è anche e soprattutto quello di formulare "scenari" diversi, immaginando nuove e migliori soluzioni.

Un altro tema importante, sollevato da questo lavoro, e direttamente connesso a ciò che ho messo in evidenza precedentemente, è la riproposizione del progetto urbano quale strumento urbanistico concreto e rilevante. Una progettazione tradotta e messa in opera da azioni progettuali concrete e circoscritte. La risposta ai problemi urbani, che investono il territorio nella sua interezza, può infatti concretizzarsi in punti riconoscibili per il loro valore strategico e strutturante; fatti architettonici che contengono in se l'idea stessa di città che li presuppone, e che corrispondono ad una sua infinitesima ma cruciale porzione. Questo ambizioso lavoro sembra suggerirci la necessità di tornare a discutere di quanto possa incidere l'architettura sulla realtà, di quali siano gli strumenti, e soprattutto di quali e quanti siano i problemi che essa è in grado di risolvere. La difficoltà non sta nel mettersi d'accordo sulla risposta, o tanto meno sul linguaggio, poiché esso assume caratteristiche diverse in base alle diverse soggettività coinvolte, ma definire quali siano le sue possibilità e i suoi limiti dentro la realtà che abitiamo. Tuttavia la cosa più importante da sottolineare in questo lavoro, in sintesi, è la voglia di restituire all'architettura e all'urbanistica il ruolo importante di disegnare nuove immagini possibili di città, restituendo a queste discipline il delicato ruolo "strategico" di prefigurare e quindi d'indirizzare la città di domani.

Infatti, un punto critico, anzi forse proprio il nodo centrale e più problematico della stagione scientifico-disciplinare che abbiamo attraversato, è rintracciabile nel pervasivo sforzo descrittivo che ha caratterizzato, per lo più, il passaggio tra modernità e contemporaneità. Uno sforzo sviluppatosi come ha scritto Bernardo Secchi (1) "lungo diverse direzioni, facendo ricorso ad un vocabolario in continua espansione e straordinariamente denso di termini metaforici; uno sforzo che ha contribuito a mettere a punto tattiche e strategie cognitive differenti, chiamando a collaborare discipline, aree di studio e di espressione artistica non sempre usuali... che tante conseguenze ha avuto per il nostro modo di osservare ed immaginare...". Tuttavia, la deriva banalizzante e semplicistica, frutto di una cattiva interpretazione a questo approccio, o di troppo "modesti" exempla progettuali di riferimento, ha fatto sì purtroppo che sia andata incrementandosi un'attitudine, anzi una prassi vera e propria del progetto, fondata sempre di più su una "rappresentazione istantanea della realtà". Una posizione che, in effetti, ha posto il progetto non sempre come una controparte significativa dei fenomeni urbani che osservava e con cui doveva interagire. Questa attitudine diffusa, che nulla ha a che fare con la necessità di conoscenza e svelamento di cui è costituito invece il senso alto di questo sforzo in origine, ha trasformato comunque il progetto in uno strumento piatto, indifferente, acritico nei confronti della realtà che ci circonda; solamente nel migliore dei casi lo ha reso strumento mimetico, di maniera o di una modestia invisibile e spesso insignificante... In ogni caso incapace, il più delle volte, di rivelare le potenzialità di cui è costituita la realtà contemporanea. Ciò è un problema non solo italiano, basti osservare la crisi in cui versa l'Olanda oggi, declinazione estrema di tale sforzo descrittivo al limite dell'assolutezza deterministica; in definitiva, una strada senza uscita.

L'approccio "iperdescrittivo" alla realtà ha infatti privilegiato i codici lessicali, materiali e formali a discapito delle idee e soprattutto del senso che da esse scaturisce. Sì, le idee, talvolta così indeterminate, imprecise, magari un po' arroganti o megalomani, ma in grado tuttavia, in qualsiasi epoca o stagione, di proiettare lungo la sospensione del tempo, narrazioni di città ancora inesistenti. Solamente tornando ad enfatizzare il valore profondo delle idee, cioè tornando a sperimentare, ha affermato qualche tempo fa Giancarlo de Carlo (2), si potrà restituire al progetto la forza di incidere sulla realtà in modo concreto. Abbiamo una forte necessità di restituire alle immagini, ai disegni, ai progetti, un po' di sana prospettiva.

Manfredo Tafuri affermava spesso che "chiamare a sé la responsabilità di edificare la realtà è la massima espressione di ricerca...". Fare ricerca attraverso teoria e progetti dovrebbe soprattutto significare questo, cioè percorrere strade spesso sconosciute dove non vi sono certezze e dove sbagliare un'enunciazione, può rappresentare solamente un punto di partenza; tuttavia continuare a produrre idee ed immagini fertili per il nostro futuro. Vorremmo infatti che architetti ed urbanisti tornassero coraggiosamente a discutere di idee progettuali e non di quanto le discipline urbane siano in crisi. Da sempre come ci ricorda Françoise Choay (3), e certamente dalla nascita della società industriale, le realizzazioni dell'urbanistica (4) sono divenute ovunque oggetto di controversie e discussioni; non per questo si può oggi rinunciare alla produzione di idee, le uniche in grado di far emergere una chiara angolatura dei problemi. (5) Un'angolatura proposta pensando alle "alte ed esemplari" realizzazioni dell'urbanistica moderna, disegnate proprio intorno a grandi prefigurazioni meta-progettuali -dalla città progressista di Le Corbusier, a quella culturalista di Sitte e Howard, a quella naturalista di Wright, a quella antropologica di Geddes e Lynch, per arrivare sino alla città storicista di Rossi e a quella retroattiva di Koolhaas. Verità relative che come la storia dell'urbanistica del secolo passato ci ha insegnato dipendono soprattutto dal punto di vista specifico attraverso cui l'architetto e l'urbanista osserva i fenomeni, li interpreta ed infine li sospinge oltre le realtà esplorate, verso nuove idee di città. Questa però è l'unica strada per mettere in cantiere concrete trasformazioni e cambiamenti.

Spero quindi che questo mio intervento, collocato sullo sfondo del progetto di Nicola Russi, possa costituire anche un fertile precedente capace di stimolare, all'interno di questa rivista (vivace sismografo delle dinamiche progettuali contemporanee), un dibattito critico intorno al ruolo e alla capacità dell'architettura di incidere oggi sulle trasformazioni del mondo a partire da enunciati progettuali nuovamente intrisi di scenari in divenire. Trovo che oggi più che mai sia necessario tornare a progettare il futuro; un futuro in grado di farci reagire, costruendo discontinuità continue, cioè spingendoci ancora ad avanzare, sperimentare, rallentare, sospendere ed ancora rilanciare.

Forse solamente così riusciremo a non rimanere sempre indietro ed in ritardo.

Andrea Boschetti
mga@metrogramma.com

Parte di questo testo è stato tratto dal capitolo "Oltre la descrizione", a cura di A. Boschetti e A. Francini, contenuto in Superinfrastrutture, Faenza Editore, Collana UB, uscita programmata per settembre 2003.

NOTE:

1. Bernardo Secchi, Scenari, Planum: Diario di un Urbanista, www.planum.net, 2002.

2. Relazione introduttiva al Premio organizzato dalla Triennale di Milano, edizione 2003, "Medaglia d'oro all'Architettura Italiana"; premio che ha visto proprio la città di Bolzano attraverso il lavoro di Metrogramma HabitatBZ01 tra le 5 città finaliste della Medaglia d'Oro alla Committenza Pubblica; riconoscimento rivolto alla capacità delle Amministrazioni di investire su ricerca e sperimentazione quali motori essenziali di una innovativa pratica di trasformazione e modificazione dei territori contemporanei.

3. Francoise Choay, La città. Utopie e realtà, Einaudi Editore, Torino, 2000.

4. Op. cit, p. 4. Secondo G. Bardet (L'urbanisme, PUF, Paris, 1959) il termine "urbanisme" pare sia apparso per la prima volta nel 1910, nel Bulletin de la Société géographique de Neuchàtel, in uno scritto di P. Clerget.

5. Citazione non proprio conforme alla celeberrima definizione di urbanistica di Le Corbusier che aggiungeva a tale definizione l'aggettivo "vera" aprendo di fatto la stagione della storia e della teoria urbanistica del periodo moderno.

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