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Una generazione "post" per una città che cambia

Luca Molinari



Il libro 011+ Architetture made in Torino, curato da Davide Tommaso Ferrando e recentemente pubblicato da Mondadori Electa, raccoglie le esperienze di 13 giovani studi di architettura torinesi accomunati, come sottolinea l'autore, da una evidente ricerca di rinnovamento di un linguaggio progettuale. Il volume è accompagnato da un testo critico di Luca Molinari, che ARCH'IT anticipa ai lettori insieme a uno dei progetti raccolti nella pubblicazione, l'Atelier Fleuriste di ELASTICO SPA.



 
1. Nel 1997 Paolo Scrivano, in uno dei più recenti tentativi di sintesi della cultura architettonica a Torino del secondo dopoguerra, scriveva: "Delineare i tratti peculiari della cultura architettonica piemontese nell'ultimo ventennio diviene sempre più difficile. Gli anni Ottanta sono caratterizzati da un'esplosione dei linguaggi architettonici di riferimento". (1)

Il quadro che Scrivano tentava di raccontare a chiusura del saggio è un perfetto panorama di una città che in quella fase storica stava vivendo il compimento di un percorso sociale, economico e culturale che l'aveva segnata lungo tutto il secolo. Una città dai destini architettonici confusi tra la generazione dei suoi "maestri" e una nuova on ancora visibile; una città marcata da una presenza industriale in profonda metamorfosi e con un nuovo piano regolatore impostato con il progetto preliminare della Gregotti Associati dal 1992; una città in cerca di una nuova identità simbolica e fisica. L'immagine della città e della sua architettura che si percepiva da quel saggio è interessante perché avviene pochi anni prima della designazione di Torino come centro delle Olimpiadi invernali del 2006; non c'è evidentemente alcuna possibile intuizione di quello che sarebbe avvenuto e soprattutto delle profonde trasformazioni che questa decisione avrebbe comportato.

Ancora alla fine degli anni Novanta, Torino era percepita come una città tra la crisi profonda e la fragile convalescenza. E l'architettura che veniva prodotta in quegli anni ne rappresentava chiaramente i caratteri. Un solido professionismo prodotto dal suo illustre Politecnico; la presenza di alcuni "padri nobili" rappresentati dalla coppia Gabetti e Isola, e da Piero Derossi; il passaggio fulminante di Aldo Rossi e Gianni Braghieri con casa Aurora; la chiamata istituzionale di Renzo Piano per il Lingotto a dare forma nuova alla dismissione problematica dell'industria di casa. Torino sembrava non riuscire ad andare oltre l'atmosfera nebbiosa e operaia di Mimì metallurgico e dei romanzi magistrali di Fruttero e Lucentini. Eppure la fine degli anni novanta comincia a portare anche in città segnali di una trasformazione lenta ma irreversibile che indicano un cambiamento sociale, culturale ed economico sostanziale che in qualche modo si innesta nella preparazione alla Torino olimpica.

Dal 1991 comincia a operare nella facoltà di architettura e quindi in città il gruppo Cliostraat che rappresenta il primo, vero momento di riflessione critica postradicale sulla città, sugli strumenti per raccontarla e per intervenire con una logica diversa verso il progetto di architettura. L'esperienza Cliostraat nasce in perfetta sintonia con quello che avviene in altre Facoltà di architettura italiane come a Roma con Stalker, A12 a Genova e a Napoli con Ventre. Un'esperienza collettiva che si fa network su scala nazionale e che diventa uno dei primi segnali internazionali di un cambiamento di prospettiva e ricerche all'interno dell'architettura contemporanea italiana. E "La Mole rovesciata", il progetto presentato da Cliostraat con Corrado Levi nel 1995 alla Biennale Giovani di Torino, è una potente immagine simbolica della necessità di uno sconquasso radicale e monumentale all'interno del sonno nebbioso e blasé della città. In questo stesso periodo la scena musicale si popola di nuovi gruppi di ricerca tra cui usciranno realtà solide come i Subsonica e Marlene Kuntz, mentre i Murazzi lungo il Po diventeranno l'area di colonizzazione del nuovo tempo libero giovanile, ma insieme una delle zone di autorappresentazione di una cultura underground locale interessante e aperta.

Qualche anno dopo viene inaugurata in città la sede urbana della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (2002), a segnare la tensione costante verso l'arte contemporanea rappresentata da una città che accoglie alcuni tra i migliori e più sofisticati collezionisti e galleristi del secolo scorso. L'edificio è posto nella periferia della città con il disegno minimalista di Silvestrin, ma soprattutto indica la volontà di cercare nei margini esterni della metropoli le risorse e le energie necessarie a individuare virus vitali per il futuro. Insieme alla Sandretto Re Rebaudengo, la GAM (Galleria d'Arte Moderna) e il Castello di Rivoli definiscono un polo unico per l'arte contemporanea in tutta Italia che nutre la città e soprattutto le sue nuove generazioni, alla ricerca, soprattutto lontano dalle Scuole, di stimoli e strumenti per ricomporre una nuova figura di professionismo di ricerca in città e nel territorio. La lenta riforma urbana di Torino passa attraverso buoni strumenti di amministrazione e costruzione territoriale, come il nuovo piano regolatore della Gregotti Associati che individua un sistema di centralità esterne alla città capaci di regolare e gerarchizzare la sua crescita, e insieme si sovrappone agli strumenti straordinari della Torino olimpica che portano a una accelerazione sorprendente e necessaria per fare fronte agli impegni presi. Ma la vittoria della candidatura olimpica avviene in un anno simbolico per la città perché si sovrappone alla scomparsa del suo ultimo monarca illuminato: l'avvocato Gianni Agnelli. Il 2003 è un anno centrale per i destini della Torino contemporanea, è come un punto di non ritorno e insieme l'inizio di una sfida urbana molto interessante per la scena contemporanea italiana. Credo che cercare di raccontare la scena contemporanea degli studi emergenti torinesi oggi non possa prescindere da questa breve introduzione, perché l'architettura si nutre di occasioni e si forma nel contesto in cui opera e cresce culturalmente. Gli studi di cui si parla in questo volume sono nati tra il 1995 e il 2005 e hanno soprattutto operato in una città che stava cambiando sotto i loro occhi e che ne ha nutrito l'immaginario.



2. Osservare e cercare di dare forma allo sviluppo recente della cultura architettonica italiana oggi credo sia un'operazione ardua malgrado alcuni caratteri si siano progressivamente chiariti. Dai primi anni Novanta abbiamo assistito a fasi alterne e sovrapposte di reazione all'accademia e ai suoi "maestri" riconosciuti attraverso la definizione di strumenti nuovi per osservare la realtà, ascoltarla e interpretarla, cercando con maggiore difficoltà di trasportare queste azioni in una pratica per il progetto.

La metamorfosi del ruolo e del mestiere dell'architetto ha inevitabilmente generato riflessioni eterogenee e non sempre coerenti sui suoi strumenti, sulle parole chiave e sulle modalità con cui affrontare il progetto. Soprattutto durante gli anni Novanta questa tensione si è vista rappresentare da un approccio post-situazionista e di marca radicale con l'azione di gruppi come Stalker, Cliostraat, A12 e Ventre, con una esperienza in network che nasceva come filiazione dell'esperienza della Pantera e delle ultime grandi occupazioni universitarie tra il 1989 e il 1991, e che vede un ulteriore, importante sviluppo nell'azione di Multiplicity e quindi nella linea culturale impressa da Stefano Boeri nella sua direzione di "Domus". Un secondo approccio nasce invece sotto l'influenza della cultura blob e decostruttivista olandese e nord-americana. Il digitale sembra diventare lo strumento di una nuova rivoluzione concettuale e linguistica liberando una generazione dall'assillante confronto con l'architettura disegnata e accademica dei suoi "maestri" italiani. Ma in entrambi i casi assistiamo, dopo la prima fase "eroica" di ricerche, manifesti e provocazioni, alla grande fragilità dei risultati spaziali e linguistici di queste azioni che sembrano soprattutto esaurire le proprie energie nella definizione degli strumenti e dei confini in cui muoversi. Rimane in sospeso, lungo tutti questi anni, il "problema" determinato dal fatto che l'architettura, oltre a essere un sofisticato processo dialogico, produce anche linguaggi, forme e spazi, e che con questi, in ultima analisi, si rappresenta nella realtà.

E su questo versante, apparentemente più tradizionale, ma in effetti più denso e problematico, si consumano alcune ricerche individuali che provano a fissare una terza strada a cavallo tra il formalismo accademico e l'ambiguità del regionalismo critico. Si tratta di un percorso che si nutre del confronto critico e attivo con alcune esperienze europee contemporanee e che insieme tenta di dare forma a un modo diverso e spesso sperimentale di professionismo. È la strada seguita da Italo Rota, Cherubino Gambardella, Beniamino Servino, Archea, Camillo Botticini, C+S, Pietro Carlo Pellegrini, Marco Navarra, ma0, Al.Bo.Ri., Metrogramma, +Arch, 5+1, Labics e che a Torino ha visto in questo ultimo decennio nuove realtà come Studioata, ELASTICO SPA, Frlan+Jansen, MARC (Bonino & Mukerjee), UdA e Benedetto Camerana. Si tratta di una dimensione più composita che si muove tra l'università, il territorio, una relazione consapevole e attiva con il dibattito e la produzione contemporanea, e una pratica sperimentale sulla materia dell'architettura e i suoi strumenti operativi. È la generazione che sancisce il definitivo superamento della separazione dolorosa e masochistica tra professionismo e ricerca, ma che soprattutto sta tracciando oggi la possibilità di una via originale dell'architettura italiana alla contemporaneità, cercando di evitare le pericolose strettoie tra il folclore rassicurante dello stile regionale e la deriva del secondo International Style. Un secondo elemento sembra caratterizzare questa fase dell'architettura italiana: la mancanza di maestri di riferimento che siano condivisi collettivamente. La giovane architettura italiana ha passato l'ultimo decennio nel tentativo di liberarsi dall'ombra pesante dei suoi "maestri" d'accademia con la convinzione che si entrasse in una fase nuova, senza padri.

Ma se invece guardiamo con attenzione alla scena contemporanea europea o giapponese le ascendenze appaiono in alcuni casi molto chiare: in Olanda con Rem Koolhaas verso MVRDV, NL Architects, SS3; in Francia con Nouvel verso Périphériques, Rudy Ricciotti; in Portogallo con Alvaro Siza verso Eduardo Souto De Moura e la scuola di Oporto; in Spagna con Moneo verso Mansilla+Tuñón, o con Baldeweg verso Abalos&Herreros; in Giappone con Ito verso Sejima, Atelier Bow-Wow e Tezuka Architects. Ma in Italia il quadro appare molto più frammentario e complesso. Forse solo autori come Franco Purini, Antonio Monestiroli, Gabetti e Isola e Francesco Cellini hanno avuto la forza e la capacità di crescere una scuola con caratteri e temi riconoscibili anche al di fuori dell'università, mentre nella dimensione professionale oggi possiamo identificare alcuni allievi "di bottega" di Renzo Piano (Cucinella, Visconti, Frigerio) e di Massimiliano Fuksas (IaN+, Metrogramma). Il quadro appare comunque ancora troppo frammentato per definire delle supremazie capaci di diventare un fenomeno nazionale riconoscibile dall'esterno. Ma probabilmente questa è una condizione in cui l'architettura italiana continuerà a muoversi così come ha fatto per tutto il Novecento, irresistibilmente divisa tra dichiarazioni d'intenti comuni e ricerca linguistica fortemente individualizzata.



3. Appare quindi molto interessante il tentativo portato avanti da questa pubblicazione di fare una prima lettura problematica di una generazione di architetti torinesi "post". Dove la Torino in cui operano è "post" (olimpica, industriale e operaia); dove il rapporto con i "maestri" appare "post"; dove il rapporto con il mestiere tradizionale dell'architettura in alcuni elementi appare come "post". Non si tratta di una rottura radicale e collettiva, né di una nuova ola sperimentale che potremmo guardare come inizio di una interessante scuola locale, quanto piuttosto della presenza di frammenti diversificati che operano in città e nel territorio, in attesa che la somma dei loro interventi possa rappresentare un elemento significativo di trasformazione della città e delle sue identità assommandosi agli interventi di nuova monumentalità che si realizzeranno con la sede di San Paolo IMI di Renzo Piano, la nuova torre della Regione Piemonte di Massimiliano Fuksas e la Biblioteca centrale di Mario Bellini. Questo gruppo eterogeneo di autori ha tutti i caratteri propri della condizione dell'architettura contemporanea: la capacità/necessità di lavorare in network; la consapevolezza del valore mediatico dell'architettura; l'idea di un professionismo evoluto e rassicurante; la capacità di guardare ad altre discipline attivando dialoghi e scambi concettuali e linguistici inediti; l'idea di guardare contemporaneamente al mercato locale e a quello globale come a una necessaria unità.

Si tratta di un professionismo capace di confrontarsi con i colleghi europei nelle competizioni e nella gamma delle opere prodotte, ma che solo con poche eccezioni, rappresentate soprattutto da Cliostraat, MARC, Elastico spa, UdA e Frlan+Jansen, cerca di andare oltre la risposta alle domande della committenza, con un uso educato e ben orchestrato delle materie della progettazione. Questo tema appare soprattutto nella questione residenziale, vero elemento di debolezza nell'architettura italiana, con poche occasioni di fare vera sperimentazione e schiacciato dal mercato immobiliare, incapace di pensare che l'offerta abitativa deve cambiare per come sta modificando progressivamente la società italiana. La dimostrazione è evidente nel Villaggio Olimpico di Benedetto Camerana costretto, come molti architetti, a concentrarsi sulla pelle dell'edificio perché impossibilitato a lavorare seriamente sulla struttura degli alloggi, nelle torri residenziali nella periferia di Torino disegnate da Picco Architetti, oppure nell'opera elegante e ricercata per le abitazioni unifamiliari di UdA, Archicura, Studioata e Guidacci, che importano il linguaggio elementare e mediterraneo dell'esperienza minimal e portoghese.

Un altro tema che coinvolge decisamente l'anima profonda della città in trasformazione è rappresentato dalle riconversioni industriali, tema che però non ha visto la nuova generazione intervenire come attore principale, quanto piuttosto in una serie di frammenti, come nel caso del Villaggio Media Vitali, risolto dallo Studio Granma con una serie di interventi che enfatizzassero positivamente il ruolo dello spazio pubblico nell'opera di trasformazione dei manufatti industriali, oppure nell'intervento nella periferia di Collegno di Frlan+Jansen con la nuova torre di uffici che stabilisce un diverso landmark nei margini anonimi torinesi. Come spesso è capitato per l'architettura italiana, l'esercizio sugli spazi interni temporanei diventa un'occasione importante di laboratorio e sperimentazione. È così per Cliostraat con gli allestimenti museali per Pitti e la Sandretto Re Rebaudengo, MARC, brh+, Carlo Ratti Associati e UdA in alcuni padiglioni pubblici e negozi e per Elastico spa, forse lo studio che più di tutti ha lavorato sperimentalmente sui materiali e la loro potenzialità architettonica, con una serie di edifici residenziali e spazi pubblici di grande forza espressiva e impatto emozionale.

Si tratta di un quadro necessariamente frammentario che in questa logica cerca di riconoscere elementi di un racconto che verrà, ma che soprattutto descrive una fragile identità in fase di costruzione. Questo vale per una Torino diversa, che ha svoltato l'angolo e che sta costruendo faticosamente, attraverso una mirata politica di eventi internazionali (Torino 2008 World Design Capital, il XXIII Congresso UIA ) e di opere strutturali (Alta Velocità), una identità metropolitana inedita. Questo vale ancora di più per il destino di questi studi e di quelli che verranno, chiamati a dare un contributo necessario a questa trasformazione e alle visioni di cui Torino avrà necessariamente bisogno.

Luca Molinari
[5 settembre 2008]
NOTE:

1. Paolo Scrivano, "Torino", in Storia dell'architettura italiana. Il secondo Novecento, a cura di Francesco Dal Co, Electa, Milano 1997, p. 118.

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