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Nel ventre della balena grigia. Una lettura esperienziale del MAXXI a Roma

Gianfranco Bombaci



 
Sono passati alcuni mesi dall'inaugurazione del nuovo MAXXI, il Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo di Roma, realizzato dopo dieci anni di cantiere. Per testimoniare alcune delle prime sue attività arch'it ha scelto di offrire ai lettori, nella sezione Files, una nota di Aldo Aymonino che presenta il progetto di allestimento per una delle esposizioni di apertura, Luigi Moretti architetto. Dal razionalismo all'informale, curata da Bruno Reichlin e Maristella Casciato. Insieme a essa, sono raccolte alcune brevi testimonianze (Maristella Casciato, Margherita Guccione, Bruno Reichlin, Letizia Tedeschi, Annalisa Viati Navone) sulla stessa mostra. Una lettura esperienziale del complessivo intervento architettonico del museo di Zaha Hadid è offerta qui sotto da Gianfranco Bombaci, mentre Ugo Rosa, nella rubrica Lanterna Magica, propone uno sguardo critico sull'opera.



 
L'Arte Contemporanea oggi trasmette esperienze esistenziali più che estetiche, attraverso installazioni che spesso hanno una valenza site-specific, integrata con lo spazio museale, il quale deve riuscire ad assecondarne sia l'espressione che un'adeguata fruizione.
Dare una lettura architettonica del nuovo Museo delle Arti del XXI secolo comporta, quindi, la descrizione più che di una struttura architettonica, di una esperienza spaziale che vede nella sua essenza esplorativa la caratteristica più significativa.
Avendo avuto l'occasione di partecipare ad entrambe le aperture iniziali dello spazio espositivo, una di presentazione dello spazio vuoto, una di inaugurazione dello spazio allestito, riporto un racconto delle mie esperienze all'interno del MAXXI cercando di comprendere le potenzialità e i limiti di una delle opere più importanti realizzate in Italia negli ultimi dieci anni.



[6 dicembre 2010]


Era il 14 novembre del 2009 quando sono entrato per la prima volta al MAXXI in occasione della pre-inaugurazione organizzata per festeggiare la fine di circa sei anni di cantiere e poter finalmente ammirare gli spazi progettati da Zaha Hadid, ancora freschi di tinteggiatura. Provavo la stessa curiosità ed emozione di quando, più di dieci anni prima come giovane studente di architettura, attraversavo l'Europa in lungo e in largo, con un biglietto Inter-rail, alla caccia di opere di architettura.


Pianta del piano terra.

Accedo da via Guido Reni alla piccola piazza antistante la struttura che, imponente, ma sostanzialmente proporzionata al contesto, quasi scompare sullo sfondo blu cobalto di una serena serata romana di metà novembre. Dall'esterno la struttura può evocare similitudini zoomorfe, e con le sue eleganti curve grigie, mi viene in mente un'opera di Claudia Losi, il Balena Project (1), una balena gonfiabile che l'artista installa in spazi pubblici o espositivi: una balena spiaggiata, un gigantesco capodoglio inspiegabilmente incastonato nel tessuto di caserme ed alte palazzine residenziali del quartiere Flaminio. Timoroso, mi faccio coraggio e mi dirigo verso la bocca luminosa del cetaceo di cemento, che identifico come inequivocabile ingresso.


Pianta del primo piano.


Pianta del secondo piano.


Pianta delle coperture.





Sezioni.



La spazialità della hall è emozionante: un piranesiano intreccio di scale, rampe e ponti, definisce un gomitolo di percorsi neri all'interno di un enorme spazio rarefatto, dove il contrasto di colore e la luce sembrano proiettarmi su un set di Stanley Kubrik. La hall è piena di visitatori in attesa che l'installazione coreografica di Sasha Waltz (2) ci accompagni nell'esplorazione del museo. Al centro campeggia un bianco bancone reception "Zaha style", che ovviamente si sposa perfettamente con l'intorno. Lo spettacolo comincia in maniera quasi tribale, un rituale d'iniziazione per preparare le menti degli ignari visitatori a uno spettacolo meraviglioso. Al termine della performance introduttiva siamo finalmente liberi di cominciare l'esplorazione del tanto agognato e discusso MAXXI. Mi lancio quindi sul vertiginoso nastro di scale che conduce ai piani superiori.





La fluidità dello spazio è coerente con l'immagine esterna. La spazialità complessiva è molto semplice, con spazi ben proporzionati, per lo più obliqui. Scatto alcune foto e mi rendo conto che, a prescindere della mia volontà e dalle impostazioni della mia macchina digitale, le immagini hanno quell'eleganza tipica delle foto in bianco e nero. Ebbene sì, non c'è colore al MAXXI, dove il cemento, la resina del pavimento, l'intonaco bianco, le rifiniture in lamiera nera e le infinite lame di luce fredda al neon, definiscono i contorni di uno spazio dinamico, accelerato da quella famosa copertura a brise soleil verticali, che ai tempi del concorso ci chiedevamo tutti come avrebbero realizzato.





Nel frattempo scorrono tra i visitatori le performance diffuse dei ballerini della Waltz, anch'essi rigorosamente in bianco e nero, che con i loro movimenti, lenti e incessanti, esaltano l'ambiente surreale nel quale vaghiamo senza meta. Mi perdo più volte, cosa che di per sé ritengo positiva, fino a raggiungere finalmente l'occhio del MAXXI, la grande vetrata affacciata sulla città, a strapiombo sulla piazza di ingresso. Non c'è che dire, mi trovo all'interno di una grande architettura, assolutamente contemporanea, malgrado il lungo tempo di gestazione dal concepimento alla sua realizzazione.
Torno a casa soddisfatto, come architetto e come romano, fiero di poter finalmente annoverare uno spazio espositivo appartenente al presente, nella mia difficile città eterna.



28 maggio 2010. Sono passati sei mesi dal "primo assaggio" del MAXXI, ed è finalmente giunta l'ora di vederlo alla prova di ciò per cui è stato pensato: esporre. L'atmosfera è la stessa della pre-inaugurazione, ma questa volta la scena è diurna e l'estate comincia a farsi sentire in una limpida giornata di sole. Sono più lucido, l'emozione della "prima volta" è più labile. Al mio arrivo sto nuovamente ripensando alla metafora cetacea che ancora mi ronza nella testa quando vengo colto da una inattesa visione: ai piedi della struttura, proprio di fronte all'ingresso, campeggia un gigantesco scheletro che, a giudicare dal naso, non può che essere di un'altrettanto gigante Pinocchio. Casualità ha voluto che tra le prime mostre allestite ci fosse una completa ed esauriente personale di Gino De Dominicis il quale, inconsapevolmente, con Calamita Cosmica ha dato epica sostanza ai miei ossessivi paragoni zoomorfi.



Passo accanto all'enorme cadavere dal grande naso ed entro. Il fascino vertiginoso della hall di ingresso è sempre molto forte. Risalgo le scale, ma questa volta noto un dettaglio che mi fa storcere il naso. Le pedate sono realizzate in grigliato Keller, sovrapposte a pannelli in metacrilato opalino che fungono da diffusori di luce per l'intradosso delle scale stesse. Da sotto, l'effetto scenografico è notevole, ma percorrendo le scale ci si rende conto che l'interstizio tra la Keller e il plexiglas è un ottimo raccoglitore di polvere e sporcizia che, inevitabilmente, sarà anche piuttosto rognoso rimuovere: probabilmente un altro interessante soggetto per un nuovo film di Ila Bêka e Louise Lemoine. (3) Comincio ad attraversare gli spazi espositivi, aiutato da una segnaletica leggermente ridondante con le forme architettoniche: dapprima la monografica su Moretti, nel grande ambiente espositivo al piano terra, successivamente, salendo attraverso il corpo scala di fondo alla sala, raggiungo gli spazi espositivi del primo piano dove si articola una selezione di opere della collezione del MAXXI. Raggiungo il ponte sospeso sopra l'ingresso e, da un'ampia vetrata sulla piazza, rivedo dall'alto lo scheletro del mio povero Pinocchio appena sputato dalla balena.












Passato il ponte, una brusca inversione di marcia mi conduce al secondo piano, in un cul-de-sac affacciato sugli spazi del piano sottostante. Riprendo una rampa che riporta al primo piano, scendo nuovamente al piano terra, riprendo le scale e imbocco il percorso che porta al grande occhio dove è ospitata la mostra di Gino De Dominicis. Non v'è dubbio che l'idea di uno spazio esperienziale qui si sia concretizzata con grande sapienza. Gli spazi pensati dalla Hadid mi sembrano rispondere bene funzionalmente, considerato che, oltretutto, le opere esposte non sono del tutto afferenti al secolo XXI.



Si appende, si installa, il sistema di illuminazione artificiale è adeguato e la luce che penetra dai brise soleil è opportunamente diffusa e schermata. Certo, alcuni allestimenti sembrano più riusciti, altri meno, ma in generale non ho la sensazione di disagio provata nella visita del Museo Ebraico di Berlino di Libeskind, prima e dopo l'allestimento. L'unica situazione critica mi sembra quella dell'occhio dove è stata allestita buona parte della personale di De Dominicis. Qui il piano del pavimento è inclinato e, come confermato da un ex collaboratore del mio studio che ha lavorato alla progettazione dell'allestimento, la definizione dei setti in MDF su cui appendere i quadri non deve essere stata semplice. D'altronde, controllando a posteriori le tavole di concorso (4), ho verificato che questo spazio era stato inizialmente pensato per ospitare la sala conferenze, la quale, per motivi a me ignoti, ma immagino di natura funzionale, è stata spostata al piano terra. Meno chiaro è se queste modifiche siano state fatte in corso d'opera, in extremis, senza poter aggiornare il progetto. Ciò spiegherebbe il piano inclinato e l'assenza di un'impiantistica adeguata alla flessibilità espositiva che ritroviamo in tutte le altre sale del museo.

Ripercorro quindi l'avvolgente percorso espositivo a ritroso e vado a sbirciare la sala conferenze alla quale si accede in prossimità della hall. Coerentemente, lo spazio è anch'esso in bianco e nero, ampio e caratterizzato da una controsoffittatura tempestata di rettangoli luminosi, degna, questa volta, di una scenografia di Star Trek. Il bookshop è un po' deludente, a mio avviso sottodimensionato, per una struttura espositiva che è facile immaginare visitata da centinaia di migliaia di persone l'anno. Esco fuori a prendere una boccata d'aria e mi rendo contro della presenza di installazioni anche nel giardino che si configura ovviamente come ulteriore interessante spazio espositivo esterno. Sempre riguardando le tavole di concorso mi rendo conto che da progetto iniziale era previsto un altro flusso dinamico, un'estensione del museo nella piazza, destinato a ospitare negozi e gallerie d'arte. Forse non è stata una cattiva idea troncarlo. La caffetteria, situata in posizione diametralmente opposta agli spazi espositivi temporanei ospitati nell'unico frammento di preesistenza su cui la struttura si abbarbica, è decorosa, ma la fila è tanta e rinuncio al caffè.



Stordito dai contenuti e dal contenitore, mi avvio verso l'uscita. Il cemento liscio delle pareti sembra quasi luccicare sotto il sole di maggio. Mi dirigo verso casa, passando accanto al Palazzetto dello Sport e allo Stadio Flaminio di Nervi, all'Auditorium di Piano e al Villaggio Olimpico di Moretti. Sarà stata la giornata di sole e i primi tepori estivi, ma quel giorno Roma mi è sembrata davvero più bella.

Gianfranco Bombaci
gianfranco.bombaci@2ap.it
NOTE:

1. Maggiori informazioni su Balena Project: http://www.balenaproject.info
2. Video della preinaugurazione: http://www.youtube.com/watch?v=2xgplD9l38A.
3. Vedi Beka Films: http://www.bekafilms.it.
4. Francesco Garofalo a cura di, Arte futura. Opere e progetti del centro per le arti contemporanee a Roma, Electa, Milano 1999.
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