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Rem Koolhaas. Verso un'architettura estrema




Sanford Kwinter, Marco Rainò
"Rem Koolhaas. Verso un'architettura estrema"
Postmediabooks, 2002
pp96, €14,50

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    Una giovane ed eroica, visti i tempi, casa editrice come Postmediabooks ha immesso nel lento mercato italiano un libro davvero interessante: Rem Koolhaas Verso un'architettura estrema. I lettori più attenti si renderanno subito conto che è un intelligente collage che esce dalla traduzione del libro curato da Sanford Kwinter che raccoglieva gli interventi di Koolhaas alla Rice University nei primi anni Novanta (Lessons with the students) e che era chiuso da un saggio davvero notevole dello stesso Kwinter anche esso tradotto, a cui il curatore Rainò ha aggiunto la conferenza Punto e a capo tenuta da Koolhaas al Berlage e una intervista di Jannifer Siegler attualmente direttrice di Hunch. Ne esce un libro agile e molto bello ma di grandissima densità concettuale, a dimostrazione che le due cose possono (e devono) andare di pari passo anche da noi come in tutto il resto del mondo. Una serie di aneddoti curiosi si intersecano con saggi e riflessioni importanti non solo per il dibattito architettonico, ma in senso più generale offrono occasione per una riflessione ampia sulla nostra società. Ne esce un Koolhaas che al suo classico spietato cinismo aggiunge un pizzico di nichilismo a tratti su posizioni quasi tafuriane con grande coscienza della crisi dell'architettura.

Quello che più preme notare è come il tempo passa e affermazioni degli anni Novanta (peraltro ancora inascoltate e tutte da tradursi e leggersi nel nostro Paese) risultino invecchiate dagli eventi e quindi risultino sempre più rinchiuse all'interno della sfera del proprio tempo. Questo oltre a essere interessante di per sé apre anche la porta alla possibilità di studiare in maniera storicamente sensata gli anni immediatamente trascorsi.

Finalmente pronti a uscire dalle botti di invecchiamento, gli anni Novanta sono pronti ad arrivare sulle nostre tavole e così facendo l'opera di Koolhaas sembra arrivata ad aver accumulato una massa critica sufficiente per cui si possa immaginare di applicare strumenti storiografici degni degli studi attenti e meticolosi che questo architetto, così centrale nel nostro tempo, merita.

Ho molto amato il libro di Kwinter Lessons with the students che comprai per caso diversi anni fa a New York e che si incastrò in maniera perfetta in una serie di ragionamenti che stavo facendo, insomma il classico "centro pieno" di quando si gettano le freccette e questa traduzione, oltretutto così ben ampliata, mi ha messo veramente di buon umore, spero sia un segnale di risveglio editoriale di cui tutti sentiamo un grande bisogno. Ho trovato girando per il mio hard disk un saggio che non ho mai pubblicato e che era in gran parte frutto di quelle riflessioni derivate proprio dal saggio di Kwinter; in qualche modo avevo sempre pensato che un giorno si sarebbe dovuto pubblicare anche in italiano quel testo e che questo scritto avrebbe trovato il suo posto.

Oggi che Postemediabooks mi ha anticipato e che Rainò ha avuto lui modo di chiudere il libro con le sue attente parole, il mio piccolo scritto è rimasto orfano. Giubilando che le idee girino e che, come negli ambienti vivi e vivaci, si venga preceduti negli intenti ho pensato di dare al mio scritto una casa che possa accompagnare (e spero invogliare) i lettori nel leggere questo libro. [GD]


  [20jan2003]

 








 

 
    LA MALATTIA COME SALUTE.
REM KOOLHAAS E LA FINE DELLA CRISI

La crisi è finita, si può di nuovo fare architettura, e di conseguenza anche smontarla, criticarla, scriverla, questo vuole essere lo slogan per cominciare a riprovare a costruire delle storie, ma anche dei progetti, degli immaginari. In questi anni un macroperiodo storico si è chiuso definitivamente. Gli anni Settanta sono una membrana che una volta superata non lascia possibilità di tornare indietro, sia solo anche per prendere delle cose, delle figure, degli strumenti.

Una grande sfida per questo nuovo secolo che inizia è scrivere di questo passaggio. Questo il compito di una nuova generazione di architetti. Urge studiare il periodo della fine del sistema di valori nato con la rivoluzione francese, è per fare questo è importante capire come e dove si riformulano i nuovi inizi, uno di questi è Rem Koolhaas. Il Koolhaas che si prende qui in esame è quello che mostra la superabilità delle logiche su cui si basa la società borghese prodotta dalla rivoluzione francese, e mostra che non solo si può fare senza quelle regole, ma che si può fare solo ed esclusivamente lasciandoci quel modello sociale alle spalle.

 
 

 

Che quella società alla disperata ricerca di qualità da applicare al suo fare non producesse più architettura è un dato di fatto, ci sono stati cent'anni di tentativi per ridare un senso a quelle logiche, il progetto tafuriano in questo senso è veramente l'ultima bandiera bianca alzata alla storia, una resa che avviene demolendosi all'interno, tritando da soli gli ultimi pezzi interi, sbriciolando i frammenti in nome del fatto che questo attacco a se stessi è l'unico modo di usare quel linguaggio da battaglia che era l'unica lingua. Buttare la bomba come unica e ultima possibilità di agire all'interno di un sistema di pensiero che non è in grado di generare più nulla. Buttare la bomba è anche la posizione a cui giunge Kurtz in Apocalipse now, in questo Kurtz è veramente l'ultimo intellettuale "agente politico militare" l'ultimo architetto in senso Albertiano (1).

Il passaggio straordinario che Koolhaas propone è l'accettare che la guerra sia finita per usare le parole di Tafuri (2), e mentre Tafuri dice: "che non resta altro che declinare con affettuosa ironia, con nostalgia appena dissimulata, i versi di una «Marsigliese» decomposta e surgelata" (3), il Koolhaas propone di spostare la guerra nella metropoli, di rinunciare a ogni etica, a ogni guerra come estensione del duello, e pone dinnanzi l'idea delle cose fine a sé stesse. Le città e gli oggetti/merci che la vivono non portano altri valori che se stessi.

Una somma di oggetti, di per sé privi di ogni valore, possono assumere un senso mediante per principi che esulano dall'oggetto stesso (4), nessuna aura è applicabile a nessun prodotto, tutto è generato su scala industriale, in metropoli non vi è spazio alcuno per la qualità (5). In metropoli nessuna lotta per la difesa di valori è più possibile, visto che non esistono valori, eventualmente, visto che i linguaggi da battaglia evocano memoria si possono riprodurre come prodotto in quanto tale (6). Non c'è un etica in questo, anzi l'importante è solo compiere sacrificio generatore (7) e più questo sarà facile più il risultato immediato (8): in ogni campo potremmo dire che tutto quando più e facile ed economico e tanto più è valido, alla sintesi come prodotto della dialettica si è sostituito il criterio della scelta massimamente vantaggiosa.

Koolhaas traghetta da una società in cui non si può più distinguere fra bene e male a una in cui bene e male semplicemente non esistono più. La metropoli è il luogo del paradosso e il paradosso è l'unico spazio possibile in quanto contiene sempre tutte le posizioni (9), tutto è contemporaneamente bene e male, e per ciò che a noi interessa, il bello è che questo nuovo spazio è edificabile. Si può di nuovo praticare l'architettura, costruire la metropoli, ben sapendo che "dove c'è meno architettura lì è il luogo dove c'è più architettura" per riprendere una frase che sia Koolhaas sia Tschumi usano più volte, dove non c'è qualità, dove i luoghi sono solo luoghi proprio lì si può edificare una architettura che può essere, perché sa di essere solo ed esclusivamente se stessa.
Provando a riprendere il testo di Roland Barthes che Manfredo Tafuri usa per chiudere il suo testo sui Five e, di fatto, il suo operare sul contemporaneo (10):


Lasciamo continuare Barthes: «Il piacere del testo non ha preferenze quanto a ideologie. Tuttavia: questa impertinenza non viene dal liberalismo ma dalla perversione: il testo, la sua lettura, sono scissi. Di superato, di rotto, c'è l'unità morale che la società esige da ogni prodotto umano. Leggiamo un testo (di piacere) come una mosca vola nel volume di una stanza: a gomiti bruschi, falsamente definitivi, indaffarati e inutili: l'ideologia passa sul testo e sulla lettura come s'imporpora il viso (...) nel testo di piacere, le forze contrarie non sono in stato di repressione ma di divenire: niente è veramente antagonistico, tutto è plurale. Attraverso leggermente la notte reazionaria.» In momenti di estatica solitudine, seguire ipnoticamente quel volo di mosca falsamente definitivo, indaffarato e inutile può illudere di recuperare un'esperienza del «tempo interiore». Al risveglio, il mondo dei fatti si incaricherà di ristabilire lo spietato muro fra l'immagine dell'estraneazione e la realtà delle sue leggi.
(11)


Quello che Tafuri non può comprendere in quel tempo è che la mosca in questo "tutto è plurale", che non lascia traccia alcuna di ipotesi dialettiche (e per tanto non auspica la sintesi), trova proprie soddisfazioni proprio nella perversione della cosa in sé. In qualche modo accettato lo slogan I can get no soddisfaction (12) vi è ancora piacere, e questo è nella perversione dell'essere i Rolling Stones, è nell'essenza stessa del Pop che si cela una soddisfazione, che non è mai una soddisfazione densa di una pienezza, di un assoluto di qualunque natura, è sempre disperata, ma che, nel suo non poter più cercare più l'intero, trova un piacere proprio: un mi soddisfo a non trovare ciò che non esiste. La nostra mosca sa che il suo volare è falsamente definitivo, indaffarato e inutile, ma non per questo non ne ricava una soddisfazione al partecipare alla perversione. L'architettura si comporta allo stesso modo, conoscendo (ma anche da non consapevoli) che non ha più alcuna ragione di essere, non potendo rappresentare più nulla, nemmeno se stessa, trova un suo modo per essere di nuovo.

Il lavoro di Tschumi sul piacere dell'architettura è illuminante:
"In modo analogo (a quello che aveva compreso De Sade, nda), quello dell'architettura è un gioco intricato con regole che uno può accettare o meno. Indifferentemente chiamata système des Beaux-Arts o precetti del movimento moderno, questa rete di leggi coercitive complica la progettazione architettonica. Queste regole, così come tanti nodi che non possono essere sciolti, sono generalmente una costrizione paralizzante. Tuttavia, quando manipolate, assumono il significato erotico di bondage. Differenziare fra le regole e le funi è qui cosa irrilevante. Ciò che importa è che non c'è una tecnica semplice del bondage: più le costrizioni sono numerose e sofisticate, più grande è il piacere." (13).

L'architettura ha senso quindi proprio perché non ne possiede alcuno, "niente è architettura come ciò che non lo è" ha quindi un significato precisissimo e contiene un progetto storico e politico di grande respiro; il volo della nostra mosca non cerca di recuperare più nessun tempo interiore, vola per il puro senso del volare, che è inutile già come condizione di partenza. Il problema del discorso di Tafuri è l'attesa di un risveglio, di un disperato sforzo di pensare che il giorno successivo sarà in continuità al giorno precedente e alla lunga notte che aveva generato. Questo però è un utopismo, è una nostalgia, e nell'universo pluralistico del mondo Pop non vi è spazio alcuno per la nostalgia come lo stesso Tafuri ci ha insegnato. L'alba newyorkese (14), all'uscita dei club degli anni ottanta, non porta nessun sol dell'avvenire, ma solo il lavoro instancabile degli ultimi spazzini che ripuliscono e preparano una normale giornata successiva (15), nessuna nostalgia, nessuna integrità da rimpiangere, nessuna qualità, la vita non rappresenta più nulla che se stessa, non c'è spazio per le interrogazioni, si ripropone un nuovo tempo dell'agire.

Al risveglio nessun mondo dei fatti ristabilirà lo "spietato muro fra l'immagine dell'estraneazione e la realtà delle sue leggi" (16), quel muro, che Tafuri difendeva disperatamente come tentativo ultimo di procurarsi un riparo (17), non esiste più, come nessun muro esiste più, nessun nomos e nessuna possibilità di stabilire dentro fuori, nessuna casa, nessun luogo come nessuna differenza e per una realtà che è sia reale che falsa, che è in perenne contraddizione e paradossale, ma il paradosso, si è già detto, contiene sempre tutti i punti della pluralità reciprocamente (18).

In questo contesto trova luogo il progetto culturale di una nuova generazione di architetti che, a pochi anni dalla dichiarazione ultima di resa di Tafuri, accetta la nuova condizione della metropoli. Una metropoli continua, infinita, priva di limiti in cui nessuna differenza è identificabile e sopra questa realtà, con questa realtà, comincia a costruire. Non c'è regola, non ci sono valori, non c'è intero né tanto meno assoluto, non c'è soddisfazione, ma nella sfera del perverso che la mancanza di regole, di intero, di assoluto pone come quotidianità si ritrova la possibilità di regole (sregolate), di interi (disintegrati), di assoluti (assolutamente relativi). La pratica è praticare, il piacere è solo piacere di non provare piacere, la soddisfazione è percorrere la non soddisfazione, it's only rock'n'roll, but I like it (19).

"Non c'è appoggio, ma non c'è via –non c'è niente da aspettare, niente da temere– né dagli uomini né dalle cose. Questa è la via." (20).

La via si compie nella metropoli: nel nuovo giorno c'è una luce potente che dissolve la nebbia che avvolge il lavoro di Michelstaedter all'inizio del secolo; la macchina non cigola più (21), essa è altresì immutabile e indistruttibile, ma ormai ogni ingranaggio si muove oliato e pulito come impone il capitalismo avanzatissimo di oggi, così diverso dalla fabbrica fordiana. La metropoli non si controlla, il problema non si risolve perché non c'è problema, la crisi è un dato di partenza, la mancanza di salute è un dato certo, non c'è cura, e per cui non ha senso alcuno immaginare l'architetto demiurgo e dottore della città, non ha senso provare a curare ciò che è in quanto è malato, non vi sono altre vie percorribili che non siano quelle della declinazione infinita e sadica della malattia. Più le cose sono malate e più sono sane. In qualche modo più l'architettura non vuole curare nulla, dare qualità alcuna e più essa serve, in altri termini "meno è architettura e più è architettura", meno è utile e più serve. L'architettura che vuole essere sana e sanificatrice non serve a nulla, solo quella che non vuole servire ha un senso. La mosca non ha nessun motivo di volare e per questo può anche volare, un'opzione fra tante in mezzo a una realtà di infinite combinazioni tutte ugualmente valide, il problema, caso mai, non è più se volare o no, ma volare bene, avere degli strumenti nuovi per controllare l'incontrollabile, pilotare il volo, sapendo che il pilotare oggi è operazione complessissima e impossibile per le normali risorse umane.

Koolhaas capisce perfettamente questo meccanismo e quando dice che l'architettura è una professione pericolosa (22) ha ben chiaro che l'operazione di pilotaggio dei meccanismi del mercato è esercizio che ha che fare con l'estremo che si pone per natura nel limite e che proprio il fatto che il limite non esista rende il tutto ancora più complesso. In queste condizioni si può quindi di nuovo volare, provare a controllare la metropoli proprio perché essa è incontrollabile, ma nuovi strumenti si rendono necessari, strumenti che parlino la lingua della consapevolezza che si può agire solo sapendo che agire è inutile. Trovare gli strumenti, ripartire dall'abc (23), ecco che diviene un'operazione densa di senso a patto di partire dal reale stato di fatto, da città che sono metropoli, che non si controllano, in cui l'unica attività che permette qualcosa di simile al pilotaggio è la speculazione, intesa come massimizzazione dell'economia, ovvero il pilotaggio estremo alla guida di un aereo da combattimento non certo da turismo.
Il bigness koolhaasiano è il luogo in cui tutte le contraddizioni si fondono, dove lo spazio non è gestibile, dove tutto avviene non necessariamente per logiche lineari, anzi è il luogo dove tutto è sempre massimamente complesso, dove lo spazio in cui si vola non è più cartesiano, dove tutto è lecito e dove, anche con tutti gli strumenti più sofisticati, della contemporaneità non si è certi del risultato.

Le ricerche più estreme concettualmente di questo secolo divengono casi di studio, come per la nuova città il catalogo diviene la città contemporanea stessa (24); così le declinazioni di Mies van der Rohe del tema dell'assoluto sono irrinunciabili in quanto punto topico del lavoro sulla forma (25), e irrinunciabile è il Le Corbusier che si accorge di quello che può succedere all'uomo messo in contatto con un aeroplano, con il problema che volare è condizione base per abitare nel moderno (26) e di quanto sia impossibile essere architetto designer senza essere demiurgo organizzatore della produzione edilizia (27). Koolhaas è consapevole che un architetto che sappia lavorare nel marketing di una metropoli è di nuovo una figura di cui c'è bisogno. Le sue capacità necessarie almeno quanto quelle straordinarie di un Chuck Yeager per pilotare un caccia supersonico (28). Per pilotare le supertecnologie come del resto il mercato bisogna essere dentro, divenire un tutt'uno con la macchina, accettare la componente sciamanica della fusione biomeccanica (29). In un mondo dove non vi è più spazio per nessuna classe, dove in nessuna produzione razionale vi è spazio per l'uomo, l'unica figura di cui c'è assoluto bisogno è l'organizzatore, che deve tenere insieme la programmazione e prevedere il futuro per pilotare in anticipo il proprio aereo, le proprie azioni (30). Un architetto, quello che immagina Koolhaas, progettando sé stesso e il suo mito pop (31), nuovamente utile all'economia, alla società, anche se immerso in un lavoro improbo, dove, al minimo errore, il prezzo da pagare è massimo; mestiere nuovamente pericoloso, perché pericoloso è sempre avere a che fare con i destini del mondo.

Koolhaas, ben lontano da un facile ottimismo, si rende conto della gravità della sfida che cerca, destina la sua architettura a "sperimentare le nuove potenzialità dell'esistente", per usare sue parole, con lucide convinzioni di ragionevolezza. Sa che per esistere (e non essere esistiti dalla televisione) non si può essere altro che Pop Star, obbligati a riprodurre se stessi sempre diversi, ma sempre riconoscibili senza sbagliare mai (32), pena divenire vita di altri: precipitare, nella certezza che un pilota che precipita non serve più a nulla e che mai nella competizione iper esasperata del mercato globale vi è una chance per chi sbaglia. Nella necessaria assoluta concentrazione della fusione fra sé e i propri strumenti (33) non sembra esserci più spazio per nessuna nostalgia, il pilota è ormai solo colui che è meglio capace di pilotare, nessun rampollo di buona famiglia ha diritto acquisito a scrivere la storia. Nessuna nostalgia e nessuna utopia sono possibili, nel volo supersonico non vi è tempo per guardare le Ande come faceva Saint-Exupéry, l'uomo-aereo "della prima età della macchina"; alle velocità supersoniche non basta vedere "dove gli occhi non vedono", bisogna vedere contemporaneamente ovunque, bisogna vedere le cose prima che accadano, come dice il maestro Chuck Yeager: "If you have to think, you're dead".

Lo spazio da controllare è liquido, le prospettive cartesiane inutilizzabili, la crisi è finita, è ora di agire.

Giovanni Damiani
gdamiani@architecture.it
 
NOTE:

(1) Sul tema faccio riferimento al mio intervento Oltre l'apocalisse nella serata del 11.01.2000 negli incontri Tuesday night fever, che spero di rendere presto on line nelle pagine del sito www.architecture.it

(2) Manfredo Tafuri, Five Architects N.Y., Roma, Officina, 1981, pp. 28-30.

(3) Manfredo Tafuri, Five Architects N.Y., Roma, Officina, 1981, p. 29.

(4) È il caso di Atlanta, in Rem Koolhaas, S, M, L, XL, Rotterdam, 010, 1995, p.832. o di Huston in Rem Koolhaas, Conversation with students, New York, Princeton Press, 1996.

(5) Quello di applicare un'aura alla produzione di massa è stato il tema centrale di tutta l'avanguardia degli ultimi centocinquanta anni, da Morris, alle WiennerWerkstaette, al Bauhaus fino alla comunità olivettiana e ai neoavanguardismi americani degli anni Sessanta e Settanta. In questa direzione è ancora un testo fondamentale Manfredo Tafuri, La sfera e il labirinto, Torino, Einaudi, 1980.

(6) Cfr. Hans Magnus Henzensberger, Prospettive sulla guerra civile, Torino, Einaudi, 1994, molto interessante è il saggio di Toni Negri Usa ed Europa dopo la guerra del Golfo e la rivolta di Los Angeles in Toni Negri, L'inverno è finito, Roma, Castelvecchi, 1996, dove il passaggio alla reaganizzazione della repubblica americana (quanto questo processo sia vicino alla società dello spettacolo è, mi sembra ben evidente, ben oltre il semplice, ma eloquente fatto, che Reagan sia un attore) è messa in relazione con il nuovo ordine mondiale e con la fine di un sistema di immaginare lo stato.

(7) Reputo molto interessante che nella Casabella di febbraio 2000 ci sia uno scritto di Jünger a tal riguardo. Il sangue è ancora necessario anche se il sacrificio non fonda più nulla. Cfr. Ernst Jünger, Al muro del tempo, Roma, Volpe, 1965, p 47. e anche in Casabella, 675, febbraio 2000, Milano, Electa. "Nei grandi sacrifici cruenti di questi ultimi anni non si può vedere qualcosa di corrispondente a quelli di una guerra di religione (ad esempio, di una crociata) e nemmeno qualcosa di mitico e di eroico, come al tempo dei nostri padri: non lo possono né lo storico, né il poeta, né chi siede presso un focolare deserto. È vero, tuttavia, che sulla terra non vi è mai stata una trasformazione che non abbia richiesto del sangue. Non sappiamo se e in che senso oggi vengano compiuti sacrifici aventi un vero valore. Non possiamo però dubitare che del sangue viene chiesto. Che ciò non abbia il significato supposto da coloro che spargono il loro sangue, non solo è verosimile ma è anche l'unica idea che prometta una liberazione, una riconciliazione.
Paghiamo un tributo, pur non vedendo un sacrificio."

(8) Hans Magnus Henzensberger, Prospettive sulla guerra civile, Torino, Einaudi, 1994, pp. 11-18, capitolo III, Guerra civile molecolare, perdita di principi.

(9) Cfr. Bernard Tschumi, Architecture and disjunction, Cambridge Mass., MIT press, 1996.

(10) Roland Barthes, Il piacere del testo, Torino, Einaudi, 1975.

(11) Manfredo Tafuri, Five Architects N.Y., Roma, Officina, 1981, p. 30.

(12) (I can't get no) Satisfaction, The Rolling Stone, in Big Hits (high tide green grass), London, Decca, 1966.

(13) Bernard Tschumi, Architecture and disjunction, Cambridge Mass. MIT press, 1996, p. 88, Fragment 4 Metaphor of Order-Bondage.

(14) E qui New York è metropoli e per usare la definizione di metropoli koolhaasiana dove questa è, per estensione, il mondo. Cfr. Rem Koolhaas, S, M, L, XL, Rotterdam, 010, 1995, p. 926.

(15) Cfr. " E quelle erano le ragioni, e quella era New York, per cui ci affannavamo per i soldi e la carne", da Chelsea hotel in Leonard Cohen, New skin for old ceremony, 1974. Per i testi in Leonard Cohen, Stranger Music, Milano, Baldini & Castaldi, 1997, p. 255.

(16) Manfredo Tafuri, Five Architects N.Y., Roma, Officina, 1981, p. 30.

(17) Non a caso verrà abbandonato dopo che il progetto Five si dimostrerà troppo debole per abitarvi, scappando dalla storia nella storia.

(18) Cfr. Bernard Tschumi, Architecture and disjunction, Cambridge Mass. MIT press, 1996.

(19) It's only Rock'n'roll (but I like it), The Rolling Stone, It's only rock'n'roll, London, Rolling Stones records, 1974.

(20) Carlo Michaelstaedter, Il dialogo della salute, Milano, Adelphi, 1988, p. 81.

(21) Cfr. Carlo Michaelstaedter, Il dialogo della salute, Milano, Adelphi, 1988, p. 73: "Lo senti come cigola la macchina in tutte le sue commessure? – Ma non temere – non si sfascia – è questo il suo modo d'essere – e non c'è mutamento per questa nebbia. – poiché la sua vita è il piccolo e continuo mutamento d'ogni atomo."

(22) Rem Koolhaas, Conversation with students, New York, Princeton Press, 1996, p. 12.

(23) S, M, L, XL è del resto un dizionario, oltre a molte altre cose e a tal riguardo scrive Luigi Prestinenza Puglisi in, Rem Koolhaas trasparenze metropolitane, Torino, Testo&immagine, 1997.

(24) Cfr. Rem Koolhaas, Delirious New York, New York, Monacelli, 1984.

(25) ll Seagram è la forma, è il monolite kubrikiano, chiude completamente un intero capitolo della storia contemporanea e la ricerca sulla forma, parafrasando l'arazzo di Picasso dinnanzi al Four Season possiamo dire che il problema è risolto, le trombe squillano e i cavalli portano via il toro oramai matado, la corrida è finita, la lotta mortale per la forma si è conclusa, la natura vinta e la borghesia può andare a mangiare.

(26) Le Corbusier, Verso un'architettura, Milano, Longanesi, 1966. e Le Corbusier, Aircraft, Milano, Segesta, 1996 con il suo motto "L'avion acuse...".

(27) Cfr. Manfredo Tafuri, Progetto e utopia, Roma Bari, Laterza, 1973, pp. 115-139. Il capito 6. La crisi dell'utopia: Le Corbusier ad Algeri.

(28) Chuck Yeager è il pilota che per primo supera il muro del suono. È, giustamente, citato da Sanford Kwinter nel suo saggio Flying the Bullets or When did the future begin? In Rem Koolhaas, Conversations with students, New York, Princeton Press, 1996.

(29) L'uomo macchina è il tema di tutta la stagione del Pop inglese in cui Koolhaas si è formato e nutrito, si veda a tal riguardo l'opera di Paolozzi. Sul contributo del mondo pop inglese sul lavoro di tutta la generazione che qui stiamo trattando bisognerebbe intensificare gli studi, visto che tutti i nostri si incontrano all'AA negli anni Settanta. Sul periodo si legga La Londra dei Beatles, caso abbastanza raro di un testo in italiano che riesca ad avere un tono scientifico. Sugli incontri all'AA andrebbe costruita un bibliografia, in questo momento cfr. Field Trip: (A)A Memori The Berlin Wall as Architecture in Rem Koolhaas, S, M, L, XL, Rotterdam, 010, 1995, p. 212 e l'intervista a Zaha Hadid operata da Boyarsky in GA international, n.5, 1986. Anche interessante è l'intervista sul numero 6 di GA extra dedicato a Steven Holl.

(30) Azioni nella doppia accezione del termine, sulla cui valenza non si può non fermarsi a riflettere.

(31) S,M,L,XL cosa non è se non un'operazione di automitizzazione pop. Cfr. Rem Koolhaas, S,M,L,XL, New York, Monacelli Press, 1996.

(32) L'unico modo di avere soddisfazione è essere i Rolling Stones, che diamine!

(33) Sulla fusione fra pilota ed aeroplano cfr. Antoine Saint-Exupéry, Volo di notte, Milano, Mondadori.
 
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Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






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