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FORUM: TORINO 2006

Olimpiadi. Costruire e dimenticare

Vittorio Gregotti



Pubblichiamo l'intervento apparso il 12 giugno scorso su l'Unità in risposta all'articolo di Carlo Ratti intitolato Olimpiadi piccole piccole, pubblicato sul supplemento Domenica de Il Sole 24 ORE del 2 Giugno. Si ringrazia il quotidiano l'Unità per la gentile concessione.




La scorsa settimana Carlo Ratti in un interessante articolo su "24 Ore" ha sollevato il problema degli effetti delle Olimpiadi 2006 sulla città di Torino e della qualità architettonica delle cose che verranno costruite in quell'occasione. Per la prima questione credo si debba tenere conto del fatto che Torino è una città fortemente strutturata e storicamente ben stratificata, sia del tipo di Olimpiadi che vi si svolgono, cioè giochi sportivi invernali, che si sviluppano principalmente fuori dal centro urbano, per cui i due soli impianti nuovi previsti in città (il padiglione per hockey e lo stadio per le gare di velocità) non saranno certo sufficienti a modificare la struttura urbana di Torino. I problemi saranno soprattutto posti dal loro recupero ad altre funzioni dopo le Olimpiadi (così come previsto anche per i villaggi olimpici con maggiore facilità di trasformazione) ed i problemi di accessibilità che sono assai complessi, specie per lo stadio delle gare di velocità che andrà ad aggravare la già difficilissima situazione del Lingotto.

Naturalmente bisogna tener conto (e sperare) che le Olimpiadi costituiscano una ragione di accelerazione per altre strutture già indipendenti previste, per la realizzazione di altri concorsi già espletati, anche se la qualità architettonica di molti di quest'ultimi lascia sovente ben poco da sperare in fatto di qualità architettonica. Peraltro, Torino non è certo una città di provincia bruttina come Bilbao la cui capacità di attrazione dipende dal successo mediatico di un'architettura; e lo dico contro il mio interesse d'architetto.

Ma come si può tentare di migliorare la qualità architettonica dei risultati? Quasi tutti rispondono, attraverso grandi concorsi internazionali, che rendano meno provinciali le offerte dei progetti.

Mi permetto di dubitarne.

A prescindere dal mistero secondo il quale gli architetti sarebbero obbligati ai concorsi mentre gli avvocati o dentisti no, la storia dell'architettura del XX secolo è punteggiata da importanti progetti perduti in altrettanto importanti concorsi: la Società delle Nazioni, il Centrosoius di Mosca, il Chicago Tribune, etc. etc.

Con il notevole aumento del numero dei laureati architetti i concorsi hanno un unico effetto positivo: facilitare l'ingresso nel mondo dl lavoro dei giovani. Questo solo qualche rara volta, poiché non vi è una politica di concorsi espressamente volta a questo fine. Se i concorsi poi assumono la forma della gara su curriculum il passaggio tra l'obsoleto studio-bottega di architettura e la "società di servizi" (come oggi viene definito dalla burocrazia lo studio professionale) che ha come modello l'impresa e la gestione efficiente, è cosa fatta.

Nessuno riuscirà a battere concentrazioni europee che si sono specializzate in alcuni temi complessi: aeroporti, ospedali, quindi fiere e naturalmente anche, quindi, impianti sportivi.

Naturalmente il concorso obbligatorio recide poi la relazione di fiducia tra cliente e architetto che è alla base di ogni rapporto professionale. Può darsi che siamo entrati in una nuova fase di tale rapporto, con altri caratteri, vantaggi e svantaggi ma non bisogna fingere di ignorarlo.

Tutto questo prescinda da una questione cruciale: chi opera i giudizi di qualità? Non voglio sposare quindi l'affermazione di F. L. Wright che non ha mai partecipato a un concorso perché pensava che coloro che giudicavano erano architetti molto meno bravi di lui, ma la speranza che i concorsi siano indenni da "combine lobbistiche" è una utopia, come pura utopia è affidarsi ad automatici calcoli che dovrebbero sostenere un risultato obiettivo. Il risultato è nei casi migliori sempre risultato della proposizione di un punto di vista sulla disciplina: per la fortuna del suo carattere di pratica artistica.

La scienza è una forma di conoscenza del mondo come è: invece le pratiche dell'arte di un mondo come potrebbe (o dovrebbe) essere.

Tutto questo non esime dal tentare di cogliere alcune occasioni importanti, come quella di Torino, per migliorare l'architettura della città (o almeno non peggiorarla), per uscire dai campanilismi, senza la scusa dello scarso tempo a disposizione, ma anche sperando di evitare l'altro aspetto del provincialismo che pensa di salvarsi l'anima chiamando qualche "star alla moda": purché non italiana.

Vittorio Gregotti
[12jun2002]

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