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L'architettura, tra teoria e fondamenti

Francesco De Agostini
Francesco De Agostini interviene nel dibattito sull'architettura contemporanea, rispondendo all'articolo di Pier Vittorio Aureli, Andrea Costa, Ilhyun Kim, Giuseppe Mantia, Luka Skansi Città e Architettura. Note a margine della crisi e alle successive note di Massimo Ilardi Controparte politica e realtà del mercato, di Luca Molinari La realtà ha bisogno dell'architettura e di Giovanni Damiani Dell'irreversibilità della storia e altre quisquiglie pubblicate nelle scorse settimane su ARCH'IT.




Mi pare che vi sia un fraintendimento tra teoria e fondamenti.
La teoria, come ben illustra Ilardi, presuppone una politica, ovvero una strategia per il raggiungimento di determinati fini.
Questa si esprime attraverso una teoria, principalmente intesa come sequenza di principi trasmissibili. O meglio, il suo scopo è la trasmissibilità, perché presuppone un fine comune in chi fa propria tale teoria.
Essa si compone di aspetti dimostrativi e prescrittivi. I primi legittimano il sistema, esprimendo i propri dati componenti, ovvero i propri fondamenti. I secondi sono più pragmaticamente la declinazione del sistema, del suo funzionamento, delle regole per farlo funzionare. Infine il manuale, in cui si esprime la pratica, l'esemplificazione della teoria attraverso la tecnica, rappresenta l'aspetto esclusivo del processo dell'architettura. In quanto fatto tecnico è l'aspetto tramandabile per eccellenza, ma non per questo fondamento, quanto piuttosto strumento, della teoria.

[24jan2003]
Gli architetti citati dai veneziani sono tutt'altro che dimenticati o abbandonati. Hanno radici profonde nelle generazioni che oggi sono l'accademia. Damiani li definisce i nonni, e sono d'accordo con lui nel sostenere che sono coloro che ci hanno raccontato le storie più belle della nostra formazione. Storie vissute in prima persona, ricche di orgoglio e energia. Anche di violenza, a volte. Essi si dividono radicalmente –al di la delle differenze generazionali-, proprio sulla questione della teoria.
Rossi, Polesello, Grassi, Aymonino ma credo anche Gregotti sono legati, con tutte le differenze del caso, al tema della teoria come trasmissione del modello, come reazione negli anni '60 ai dogmi degli epigoni modernisti, stilisti oramai senza fondamenti. Questo ha significato un grado zero del linguaggio che poi individualmente i singoli autori hanno creato; una "lingua morta" per rigore intellettuale rispetto alle proprie singole premesse.

Oggi assistiamo per molti aspetti al ripetersi dello stesso processo culturale: la loro scuola, se svuotata dei fondamenti, si riduce ad un esercizio nei confronti della superficie della storia.
De Carlo e Valle invece si svincolano da "a priori", non costruendo di fatto una teoria.
Vi è un atteggiamento tentativo, e in quanto tale inclusivo, che negli epigoni meno talentuosi certo crea il rischio di gesti vuoti, così come invece l'approccio analitico negli esempi peggiori sfocia in un facile determinismo.
La frattura più profonda è proprio sulla questione dell'autonomia dell'architettura, ovvero il rapporto con la realtà, che ancora oggi segna la differenza tra gli esempi costruiti, realtà tangibile che ci hanno lasciato questi architetti.
Il rapporto con la città socialista segna la formazione prima e la ricerca poi dei componenti dalla scuola del centro studi di Casabella.
Ma quale attualità hanno oggi? questo è il punto che mi pare giustamente anche Luca Molinari riprende, al di là del rigore della teoria che innerva quelle esperienze. Storicizzare la loro elaborazione è necessario per renderle attuali.

Alla condizione contemporanea non appartiene il supporto delle grandi narrazioni, bensì la realtà conflittuale di Ilardi, il nichilismo di Damiani, la globalizzazione e via dicendo.
I fondamenti, quindi. Io sono con De Carlo quando dice che l'architettura esisterà fino a che esiste l'uomo, ma che deve uscire da questa fase di isolamento e per farlo deve rientrare nel circuito dei processi di trasformazione della città. Significa che non è l'autonomia, ma la capacità inclusiva dei diversi linguaggi che compongono la città stessa –multiculturali o multietnici- a doverci di nuovo fondare: in termini non tanto ideologici quanto qualitativi, a prescindere dai valori che -con buona pace del Damiani- credo esisteranno sempre, anche se in continuo mutamento. Ed è così che oggi infatti viviamo. Per questo stentano a formarsi scuole che cristallizzano aspetti della realtà. Scuole che, appunto, affilano le strategie ma che non trovano i fondamenti della "città nuova".
Il rapporto con la realtà è poi un'altra cosa, dove la necessità dell'architettura ci è quotidianamente di fronte. Infatti -questa è la mia provocazione- voi vivreste più volentieri in una abitazione progettata da Rossi, Gregotti, Polesello, Grassi, Aymonino, o da De Carlo o Valle?

Francesco De Agostini
francesco-deagostini.uni@archiworld.it

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