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1. Comunicazione e innovazione tecnologica
Il modello culturale occidentale ha la sua radice nella tradizione giudaico-cristiana. Uno dei fondamenti di tale tradizione, insieme ai miti greci, ha, come archetipo, il libro dei libri: la Bibbia. C'è un famoso passo, la Genesi 11, che, secondo il mio punto di vista, può aiutarci a riflettere su quanto accade oggi.
1 Tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse parole.
2 Dirigendosi verso l'Oriente, gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Scinear, e là si stanziarono.
3 Si dissero l'un l'altro: «Venite, facciamo dei mattoni cotti con il fuoco!» Essi adoperarono mattoni anziché pietre, e bitume invece di calce.
4 Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo; acquistiamoci fama, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra».
5 Il SIGNORE discese per vedere la città e la torre che i figli degli uomini costruivano.
6 Il SIGNORE disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è il principio del loro lavoro; ora nulla impedirà loro di condurre a termine ciò che intendono fare.
7 Scendiamo dunque e confondiamo il loro linguaggio, perché l'uno non capisca la lingua dell'altro!»
8 Così il SIGNORE li disperse di là su tutta la faccia della terra ed essi cessarono di costruire la città.
9 Perciò a questa fu dato il nome di Babel, perché là il SIGNORE confuse la lingua di tutta la terra e di là li disperse su tutta la faccia della terra.
Perché questo passo della Bibbia? Perché si parla di comunicazione e di linguaggio; perché' si parla di innovazione tecnologica; perché si parla di conflitto fra gli uomini e il dio-natura. A mio parere ci sono due considerazioni importanti che scaturiscono dall’interpretazione di questo passo e che lo fa essere di straordinaria attualità. La prima, la stretta correlazione tra linguaggio-comunicazione-innovazione tecnologica,
“Tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse parole”. E di seguito
“Si dissero l'un l'altro «Venite, facciamo dei mattoni cotti con il fuoco!»”. Costruire la città, ma soprattutto una torre così alta da raggiungere il cielo è possibile a condizione che si realizzi questa connessione
“questo è il principio del loro lavoro”. La seconda, il conflitto tra gli uomini e la natura, tra l’artificio e la natura (Dio!). Il superamento del limite.
“Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è il principio del loro lavoro; ora nulla impedirà loro di condurre a termine ciò che intendono
fare”. Questo Dio dovrebbe essere felice che i suoi figli siano uniti per realizzare i loro scopi; invece no! Perché? Riflettiamo, qual è lo scopo degli uomini; in realtà, una insensatezza e un atto di superbia, costruire una torre
…la cui cima giunga fino al cielo; la cui finalità è quella di acquisire potere,
…acquistiamoci fama, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la
terra.
Di cosa hanno paura gli uomini? Di perdere la loro unità e di essere dispersi. Sembra questa una preoccupazione eccessiva? Certo, se la mia preoccupazione è quella di risolvere nella forza dell’unità il conflitto.
Uno degli aspetti singolari di questo passo della Bibbia sta nel fatto che il Dio non manda dei fulmini, come Giove greco, non fa scatenare un terremoto, per abbattere la torre, ma confonde gli uomini e il loro sistema di comunicazione, il linguaggio:
“Scendiamo dunque e confondiamo il loro linguaggio, perché l'uno non capisca la lingua
dell'altro!”. Pensiamo alla guerra nel Golfo o all’attacco aereo alla Serbia; questo Dio sembra conoscere la strategia militare contemporanea; attaccare prima il sistema di comunicazione del nemico per confonderlo e assicurarsi una posizione di predominio dei cieli. L’artificio è reso possibile dal linguaggio, dalla comunicazione. La tecnologia è possibile se esiste un linguaggio comune che unisca gli uomini, ma quando l’artificio sfida il cielo, il cielo si ribella e si vendica: come? Confondendo i linguaggi e disperdendo gli uomini. Dov’è allora la salvezza per gli uomini?
In questo passo della Bibbia c’e’ un’altra gran verità, il passo in questione fa parte del libro della Genesi, vale a dire dell’inizio della storia degli uomini, il Dio-Natura confonde i linguaggi, ma disperdendoli dona la possibilità di popolare la terra attraverso la diversità, l’identità e la molteplicità. La Natura non conosce un solo modo di vivere sulla terra, ma i mille modi che ciascuna specie animale o vegetale ha immaginato per sé per procreare, riprodursi, cacciare, difendersi. Questa, a mio parere è l’indicazione necessaria la salvezza degli uomini non è quella di risolvere il conflitto con la natura, ma quella di riconoscersi in essa. Non nell’unità ma nella molteplicità.
2. Dalla comunicazione alla rappresentazione
Ciò che ci distinque dal resto del mondo, dal mondo animale a quello vegetale, non è tanto la capacità di comunicare quanto quella di rappresentarci e di rappresentare il mondo. Attraverso la rappresentazione noi esprimiamo la nostra consapevolezza di esserci e di essere. Noi architetti lavoriamo con il linguaggio, un linguaggio fatto dalle immagini, ma soprattutto lavoriamo con l’immaginario collettivo e proprio per questo il nostro lavoro si deve fondare su alcuni valori comuni. Rappresentare significa: mostrare, rendere visibile, percepibile, evidente la realtà, ma anche simboleggiare, portare in scena, interpretare. Noi presentiamo la realtà attraverso un mezzo: immagini, disegni, foto, modelli, modelli virtuali, per rappresentare ci serviamo di strumenti, d’arnesi semplici o, ricercati: matite, fogli, computer ecc.
Gli strumenti, gli attrezzi, gli arnesi influenzano la rappresentazione? Sono neutri o condizionano il linguaggio? Sono neutri, cioè mezzi di rappresentazione di un pensiero, di un idea e nello stesso tempo bisogna fare i conti con i vincoli e i gradi di libertà che quel mezzo assicura. Dunque esiste anche un linguaggio del mezzo, tipo di disegno, modo di fotografare, tipo di cinema, di televisione, tipo di software, internet ecc. Bisogna precisare che quando parliamo di progettazione architettonica la rappresentazione non è solo uno stato finale, cioè la comunicazione agli altri, ma soprattutto un mezzo che esiste durante, cioè la rappresentazione a sé. Esiste un terzo livello che potremmo definire la rappresentazione come prodotto, quando la rappresentazione esce dal rapporto diretto fra due soggetti e assume una vita propria; quando, cioè diventa film, video, CDROM, ecc. In questo caso il linguaggio tradizionale dell’architetto deve confrontarsi con i linguaggi specifici dei singoli mezzi: il linguaggio del cinema, quello del soft-ware, della televisione…
Pensiamo a come può influenzare un progetto il suo sistema di rappresentazione: la prospettiva al posto dell’assonometria, un immagine trattata con Photoshop o un rendering. Una prima considerazione è necessaria: fisse o in movimento tutte appartengono al campo percettivo delle due dimensioni, per quanto ricercato possa essere il mezzo, sono sempre rappresentazioni sul piano, foglio o monitor che sia. Cosa accadrà quando entreremo tridimensionalmente nello spazio rappresentato? Come influenzerà la progettazione? Se penso a ciò che è accaduto semplicemente sostituendo il tecnigrafo con Archicad piuttosto che Form Z nelle scelte progettuali, non oso pensare a ciò che accadrà con una rappresentazione olografica. Cosa c’è di nuovo nella rappresentazione e cosa d’antico? La risposta potrebbe essere, da un lato niente di nuovo sotto il sole, dall’altro che tutto è cambiato. Ma in che senso tutto e niente? Nel senso forse che da un lato i nuovi mezzi certamente aggiungono e contemporaneamente tolgono; aggiungono, danno altre possibilità, per esempio:
- la simultaneità delle viste cioè della percezione, non più e solamente una vista prospettica o assonometrica, pianta, sezione o prospetto, ma tutte queste quasi contemporaneamente;
- la rapidità, la velocità in cui queste si presentano o meglio si rappresentano e la necessità di scegliere e decidere, rapidamente;
- la precisione con cui rappresenti, quasi che il caso non esista: pensiamo allo studio delle ombre, delle riflessioni ecc.
Gli strumenti sembrano appunto darti qualcosa di più, niente e affidato al caso. Cos’è che toglie? Probabilmente il grado d’incertezza, il caso, la scoperta, la meraviglia tra ciò che è stato pensato è ciò che poi esiste nella realtà. In altri termini noi perdiamo l’innocenza, la nostra capacità di esserci.
La rappresentazione tende a sostituire l’esperienza diretta, si fa interprete, mediatrice. Rappresentare è un modo di comunicare: meglio la rappresentazione presuppone la comunicazione; la comunicazione ha bisogno del linguaggio: la necessità della comunicazione determina il linguaggio; senza identità non c’è comunicazione; l’identità è data dall’appartenenza a sé, alla propria storia personale, a quella della propria comunità, a tutto ciò che rappresenta la nostra memoria. Che cosa c’è di nuovo allora nella comunicazione, cosa d’antico?
Il pericolo e che il linguaggio diventi non solo mezzo, ma anche fine. La domanda che bisogna porsi è: comunicare e rappresentare, che cosa?
Il linguaggio si è liberato della sua condizione di mezzo per diventare fine. Pensiamo alla poesia; essa usa il linguaggio semplicemente come fine, però, nello stesso tempo è un mezzo per comunicare, qualcosa di nobile, d’alto, magari solo stati d’animo, magari solo la bellezza.Un linguaggio liberato, senza fine, senza scopo, diventa puro estetismo che parla solo a se stesso. Questa è la maledizione della torre di Babele: sfidare la natura con l’artifizio ci rende incomprensibili, non riusciamo più a comunicare e il fine si smarrisce.
Carlo Terpolilli
Dipartimento PMPE
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