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40° FESTIVAL DEI POPOLI DI FIRENZE
La città sospesa nel tempo
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Quando per realizzare il film,
"Naissance d'un hôpital" mi sono ispirato al suo diario dei lavori,
l'architetto che ha ideato l'ospedale Robert Debré a Parigi, Pierre Riboulet, stava ormai
lavorando ad altri progetti. Quanto all'ospedale, era già stato ultimato da due anni. Se
il cinema, e a maggior ragione il cinema documentario, filma sempre al presente, in quel
caso mi sono trovato a filmare qualcosa che non c'era più: il lavoro dell'architetto, il
processo creativo in fieri con i suoi dubbi, le sue difficoltà e le incertezze di un
concorso. Filmare il passato, al presente. Così ho proposto a Pierre Riboulet di
rimettersi al tecnigrafo per rifare, integralmente o quasi, schizzi e tavole, rivivendo
per il film le ansie e le emozioni che aveva provato nei mesi in cui, da solo, aveva
lavorato sul progetto di un ospedale pediatrico in una periferia urbana nei pressi della
tangenziale di Parigi. Questione di tempi: l'ospedale c'era, ma non sarebbe più dovuto
esserci. Credo che non sia mai facile riprendere un edificio che c'è: spesso
l'architettura edificata impone al cinema una prospettiva da cartolina. Forse per
avvicinarsi agli edifici, alle piazze o alle strade con una macchina da presa, è
opportuno ricorrere a qualche espediente: magari la finzione delle scene preparate in
studio o, come nel mio caso, un viaggio a ritroso nel tempo per riportare al presente il
foglio bianco e i primi tratti di matita, le linee scritte sul diario e il plastico, le
notti di veglia e i giorni di sogni, con tutte quelle riduzioni e anticipazioni che, a mio
avviso, si adattano meglio al gioco del cinema, o al suo giocare con il tempo e lo
spazio... Per un attimo immaginiamo un film che segua nel corso dei secoli, ma sempre al presente, i meandri della città che cresce, un film in grado di seguire il sovrapporsi degli strati urbani, di perdersi fra le mutevoli pieghe dei palinsesti delle città... Sfortunatamente il cinema è nato solo ieri e le città non sono state lì ad aspettarlo per mettersi in mostra o per nascondersi. Ed è nato come arte urbana, misto di scienza, tecnica e desideri, come ibrido di esposizioni industriali e spettacoli da boulevard. Le prime cineprese girano nei teatri o nelle sale, i primi studi nascono in città come Montreuil, Lione, New York... e, in cambio, le città fanno da sfondo ai primi film con i loro monumenti e le loro strade. Aver perso l'origine e il farsi delle città, in sintesi essere arrivato troppo tardi per avere la pretesa di assistere alla loro nascita, potrebbe essere un motivo sufficiente perché il cinema si impegni a reinventare le città, a rappresentarle come mai nemmeno i loro stessi abitanti le hanno potute vedere. La città del cinema si discosta necessariamente dalla città reale. L'artificio del cinema sottolinea l'esistenza artificiosa della città referenziale, prolungandola e riproponendola come artificio amplificato. Filmare le città? Ma cos'altro filmare se non il tempo? Il tempo urbano, quello più vicino al tempo cinematografico, poiché nelle città come nei film si mescolano tempo dei corpi e tempo delle macchine. Filmare una città significa filmare gesti o flussi che forse passano o forse no, che diventano o meno delle tracce. Come i passanti nelle foto di Atget, quei passanti di cui rimane solo la traccia del passaggio. Passanti? Corpi o macchine, uomini o animali? Proprio come accade nella ripresa cinematografica, su ogni fotogramma il passante, il corpo mobile, non è altro che una traccia, una luce vaga che si sfilaccia. La fisica del cinema (corpi in movimento su cui si fermano spezzoni di sguardo, frammenti mobili animati nel tempo e nello spazio) è relativistica: spazio in divenire-tempo, tempo in divenire- esperienza, vale a dire anche sguardo. Più di qualsiasi altro labirinto, la città rimane schiva, non si concede allo sguardo e rivela i suoi spazi solo inaspettatamente. Perché la città non è altro che tempo accumulato, un prodigioso accumulo di tempo. Tempo qui vuol dire esperienze, e ritorno su questa parola, esperienze di sguardi e sguardi sull'esperienza... Tutto questo tempo accumulato, stratificato, ricoperto da se stesso, non è sempre e comunque visibile. La città del regista pertanto non può essere solo ciò che è visibile della città. Può addirittura darsi che questo scarto rispetto al visibile sia la giusta dimensione del cinema. I fratelli Lumière hanno cominciato col riprendere quel che avevano a portata di mano: Lione, Parigi, La Ciotat. Città, frammenti di città. Ma torniamo a quel che vediamo nei primi film: degli operai all'uscita della fabbrica che si dirigono verso la macchina da presa che li sta riprendendo; bambini, operai, poliziotti o borghesi che attraversano l'Avenue de l'Opéra e il campo visivo, entrando e uscendo dall'inquadratura; dei viaggiatori che aspettano il treno alla stazione. Dei corpi filmati sullo sfondo urbano. La grande novità del cinema esordiente sta proprio nei corpi, di cui il cinema non smetterà più di occuparsi. I paesaggi e addirittura gli ambienti urbani (una strada, il binario di una stazione, una piazza) si presentano sempre con una visibilità che supera inevitabilmente l'inquadratura cinematografica, mentre il corpo umano può essere ripreso per intero o in parte, avvicinarsi o allontanarsi dai limiti dell'inquadratura, entrare nel campo o uscirne, fare esistere così gli istanti del suo apparire e scomparire, passare dal visibile all'invisibile e lasciar credere allo spettatore in virtù di questo che al di fuori dell'inquadratura perdurino i movimenti o le azioni che prima ne facevano parte. In queste opere fondamentali della cinematografia la mobilità dei corpi (e a maggior ragione quella dei veicoli come auto, treni, omnibus, carri...) si contrappone alla fissità dell'inquadratura e gioca - amorevolmente - sia con i suoi limiti laterali che con la stupefacente profondità di campo raggiunta dall'obiettivo di quei primissimi tempi. In realtà si affrontano o si mescolano momenti e durate: i luoghi racchiudono ovviamente dei tempi, una storia, un'epoca, un ritmo (le operaie escono in fretta dalla fabbrica), ma i corpi contrappongono all'ordine storico, temporale e ritmico dei luoghi urbani un'altra temporalità, quella dei desideri e dei bisogni, delle pulsioni e delle passioni, una motricità che fa variare velocità e durata come delle intensità legate alla diversità dei corpi e al disordine delle loro traiettorie. Filmati dalla macchina da presa, i corpi che passano nella città diventano corpi che passano nell'inquadratura, ovverosia delle durate, dei tempi di esposizione. La misura della città del cinema è quella del tempo necessario a chi la percorre (uomini o animali, corpi o macchine) per riempire o svuotare l'inquadratura, per animarla e giocare con essa. Una scrittura temporale dello spazio. Diffido di ciò che si offre alla vista, credo che filmare voglia dire stabilire una relazione fra ciò che si vede e ciò che non si vede. Lo sguardo presupposto e indotto dal cinema è uno sguardo che è sempre racchiuso nell'inquadratura, vale a dire privato di una parte del visibile e obbligato a non vedere tutto. La storia dell'occhio-cinepresa è una storia di frustrazione. L'onnipotenza dell'organo della visione, la preponderanza della pulsione scopica sono continuamente smentite e combattute al cinema dal gioco fra inquadratura e pressione del fuori campo. Da questa riserva che consiste nel sottrarre spazio per aggiungere tempo, credo nasca l'affinità del cinema con la città. Le città amate dal cinema sono filmate come enigmi. Ci sono senza esserci, si nascondono mettendosi in mostra, sfuggono condensandosi nei corpi che le incarnano, scomparendo in essi. Se il cinema ci appassiona è perché ci spinge a dubitare di quel che vediamo, perché ammanta le evidenze sensibili e le certezze ideologiche di un dubbio che è più reale di quanto esse siano. Una volta filmato, il visibile accoglie tutte le incertezze dell'invisibile. È proprio questa la parte oscura della città colta dal cinema, la parte inafferrabile, sfuggente, opaca pur nelle sue sembianze più luminose, quell'errare che riunisce e allontana e che esprimono così bene le inquadrature fisse dei primi film. Il mio film è su un architetto, non su un edificio: allo stesso modo ho filmato i marsigliesi e le marsigliesi, non Marsiglia. La città che non c'è e che non ci appartiene. Quel che si può fare, che si fa girando un film, è produrne frammenti, apparizioni, fenomeni che sono innanzitutto relazioni con quel particolare tipo di spettatore che è lo spettatore del cinema, uno che non vuole solamente o in primo luogo uno spettacolo, che non si accontenta del visibile, che vuole sentire e commuoversi, sperimentare e non semplicemente "visitare". Fatalmente la più figurativa fra le arti (a questo serve la nota impressione di realtà) il cinema privilegia ancora la figura, il corpo umano, di cui offre ai giorni d'oggi la rappresentazione più compiuta. La città disperde quei corpi che il cinema celebra.
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