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40° FESTIVAL DEI POPOLI DI FIRENZE
"Luoghi"? *
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Stando ad alcuni allarmanti proclami,
sembra proprio che nelle società contemporanee la crescente mobilità delle idee, delle
immagini e degli individui stia erodendo la quantità e la qualità di quei particolari
spazi che la nostra frequentazione ci spinge a considerare "luoghi". Luoghi dove
nascere, vivere, incontrarsi, abbandonarsi alla contemplazione; luoghi da cui scappare, da
conquistare, da attraversare, da veder scorrere; luoghi della memoria, dello spirito,
dell'intelletto. Luoghi dell'oblio e dell'eterno ritorno. Una cospicua letteratura ci ha insegnato che l'essenza di un "luogo" sta in un plusvalore che allarga le qualità ricettive di uno spazio altrimenti ordinario; un pezzo di suolo o una costruzione, o le due cose insieme, diventano un "luogo" quando riescono a metabolizzare nella loro essenza minerale un valore simbolico che eccede la semplice disposizione della materia e la sua funzionalità. Riconosciamo un luogo, o meglio "ci" riconosciamo in un luogo quando penetrando fisicamente o mentalmente in uno spazio, riusciamo a sentire un riverbero, una eco ai nostri stati d'animo; e quando questo riverbero ci torna come se fosse sprigionato al di fuori di noi, dallo spazio stesso, al punto da poter generare un'esperienza condivisa. Non c'è "luogo", infatti, che non implichi e stimoli in noi, più o meno consapevolmente, un sentimento di condivisione e dunque una possibilità di comunicazione. Inoltre, abitiamo un "luogo" - e non semplicemente uno spazio- quando questo plusvalore ci appare radicato nella biografia dei fatti urbani locali, nelle tradizioni che li identificano e distinguono. Non c'è luogo che non ci parli della sua storia, prima e oltre che della nostra. Ebbene, come dicevamo, alcune apocalittiche previsioni ci invitano a correre ai ripari contro l'erosione a cui sarebbe oggi sempre più esposto il patrimonio di "luoghi" ereditato nel territorio dalla storia delle nostre società. Un primo allarme ci viene dagli studiosi delle nuove tecnologie informatiche e da chi si occupa di progettare o di descrivere il funzionamento delle "reti" telematiche, informatizzate, etc. Il mondo della telefonia (Internet e le sue declinazioni) , quello della telematica da ufficio, le nuove frontiere della televisione interattiva, le reti e le stazioni del telelavoro sono solo le principali fonti da cui si caricano le armi di una retorica che ripete incessantemente che oggi, con poca spesa e un po' di attenzione, si può fare "tutto dappertutto": lavorare in bagno, faxare in treno, telefonare dal cinema.... Con buona pace dell'identità dei luoghi, che verrebbe stravolta da un dirompente ampliamento delle possibilità prestazionali degli spazi; anche alcuni dei luoghi più frequentati e abitudinari della vita quotidiana verrebbero così ad essere trasfigurati dalla loro nuova natura di "postazioni" di cortocircuitazione tra un "locale" iperdomestico e un "globale" iperpubblico. Mettersi "in rete" se da un lato significa risignificare lo spazio domestico come capsula da viaggio negli ipertesti della comunicazione globale, dall'altro significa ospitare tra le mura di casa un piccolo spiraglio da cui far entrare un imprevedibile - e non del tutto controllabile- tumulto di segni e sollecitazioni. Ed ecco prodursi entro le dinamiche del bunkeraggio domestico l'effetto "Glocal": l'apertura verso infinite possibilità di interazione. Un secondo allarme, forse più serio,
ci arriva invece dalle riflessioni e dagli studi sulla mobilità corporea dei cittadini
delle società ricche nel mondo contemporaneo. Il turismo, nelle sue differenti versioni -
culturale, ludico e "d'affari" - raccoglie oggi una vera e propria "élite
cinetica" che consuma migliaia di chilometri settimanali di spostamenti, che misura
le distanze geografiche ormai solo in termini temporali ("quanto dista?"
significa "quanto tempo occorre per raggiungere?") e che nelle sue pause di vita
intermittente è ospitata da una vasta gamma di "non-luoghi": aereoporti,
stazioni ferroviarie, grandi catene alberghiere, fiere commerciali, centri direzionali.
Spazi ormai del tutto dediti alle necessità di uno stile di vita erratico che cerca
ovunque le stesse comodità (e lo stesso "ambiente"?) e che dunque tende ad
omologare i contenitori che temporaneamente abita. Ed ecco allora l'annullamento di tutto
ciò che sa di tradizione locale o di "vernacolare" in nome del tracotante
imperio degli open space, delle luci diffuse, degli annunci con sottofondo, il trionfo del
condizionamento ovunque e comunque... Piccoli indizi di storia locale resistono a volte
solo sotto le antine di plexiglass delle tavole calde. Se tuttavia prestiamo attenzione ad alcune esperienze di vita quotidiana, possiamo sospettare che le cose non stiano del tutto così. Tre esempi ci possono aiutare. Il primo riguarda il telefono cellulare, vera grande innovazione tecnico/comportamentale dei paesaggi italiani contemporanei. Bene, pur situandosi tra la mobilità delle idee e quella degli individui, il "telefonino" è uno straordinario dispositivo di risignificazione - e non di annullamento- dell'identità dei luoghi. Anzi, addirittura di creazione di luoghi. Non solo perché da qualche anno ci capita di "vedere" spazi solitamente marginali o di passaggio abitarsi di presenze indaffarate in conversazioni animose, private, sussurrate; di immaginare brani e intrighi di vite annodate guardando distrattamente dei panorami urbani ordinari e freddi (la coda di un semaforo o la galleria di una metropolitana). Ma soprattutto perché da qualche anno ci capita di collegare inconsapevolmente visi e sentimenti a paesaggi del tutto incongrui, di associare a territori altrettanto ordinari delle fette di emotività che affondano nella nostra memoria solo perché li abbiamo proiettati su un particolare spazio nel corso di una conversazione e da lì, da questa bizzarra e casuale associazione non riusciamo più a distorglierli. Un secondo esempio riguarda le stazioni ferroviarie e areoportuali. Emblemi del "non-luogo", sono tuttavia spazi dove oggi si manifestano alcune importanti forme di interazione privata, interpersonale. Pensiamo all'abitudine a stabilire appuntamenti in questi grandi ambienti di passaggio; oppure alla presenza di comportamenti - le prostitute che si cambiano, i clochard che dimorano, i giovani che schettinano- che li abitano come se si trattasse di grandi contenitori che sanno tollerare l'intera gamma delle possibilità di interazione che solitamente appartiene alle piazze e alle strade urbane. Un terzo esempio, infine, riguarda il modo con cui solitamente viviamo i grandi contenitori ludico/commerciali che da qualche anno popolano le aree suburbane italiane. Li viviamo come se fossero il punto centrale di un'esperienza percettiva simmetrica che inizia molto prima e finisce molto dopo il lasso di tempo passato al loro interno a comprare, incontrarsi, mangiare etc. E' come se ci sintonizzassimo sulla banda percettiva del "consumo+intrattenimento" fin da quando usciamo di casa, saliamo in automobile, attraversiamo lunghi tratti di città "diffusa", parcheggiamo nell'unico momento di "esterno/esterno" per poi infilarci in uno spazio artificiale dove molti nostri simili/leggermente diversi compiono gesti simili/leggermente diversi. Per poi uscirne e ripercorrere in senso inverso gli stessi spazi, sempre sintonizzati sull'attitudine ad una percezione rapida e distratta di ciò che ci circonda: gli scaffali e le insegne, i paesaggi e le commesse. Cosa ci dicono questi tre esempi? Innanzitutto che il significato di un luogo - ma anche la nostra identità di cittadini - è sempre più il prodotto del montaggio in sequenza di esperienze di vita e percettive, piuttosto che di una semplice giustapposizione tra un significato individuale e uno spazio individuale. Poi, ci dicono che la natura di molti "luoghi" della società contemporanea è sempre più data dalla loro capacità di ospitare entro un certo preciso quadro di vincoli materiali e geografici una moltitudine di significati e di proiezioni. E' una natura "aperta" a molteplici interpretazioni e insieme localizzata; vaga e insieme statica, radicata in uno spazio preciso. Infine ci suggeriscono che forse i problemi maggiori all'identità locale e storicamente radicata degli spazi urbani non derivano dall'estensione della mobilità e dalla diffusione delle reti, ma dall'abitudine a pensare in modo superficiale e semplificato la dimensione simbolica nella vita urbana. Per esempio dall'abitudine a confondere, cioè a non distinguere tra il grado di stabilità e quello di staticità di un "luogo". La società contemporanea ha prodotto una proliferazione dei codici di significazione della città: codici che stanno fissi nella materia delle cose, (testimoni di comportamenti passati o di stili di vita ancora attivi) e codici mobili e plurali, che accompagnano la vita erratica delle molteplici popolazioni che abitano temporaneamente le diverse parti del territorio. Codici da riconoscere nello spazio e codici proiettati sullo spazio stesso; è il loro rapporto a decidere della attribuzione di una condizione di "luogo" ad uno spazio abitato. Il punto è che entrambi sono sempre più compresenti negli stessi territori della vita quotidiana, fino a generare delle complesse e mutevoli intersezioni di attese, proiezioni, reazioni di significato su uno stesso luogo. Dunque l'identità di un luogo è sempre meno, se mai lo è stata, una qualità stabile definita una volta per tutte e per tutte le variegate classi di utenti (residenti, residenti temporanei, turisti occasionali, semplici voyeur..). Ma al contempo l'identità di un luogo resta fortemente ancorata ad una dimensione statica, formale, materiale di uno spazio, che fissa una certa propensione di significato grazie alla sua posizione geografica e alla sua costituzione. Anche il più "immateriale" dei terminali di accesso ad una rete conserva una forma e produce un ambiente. Anche per queste ragioni dunque, nonostante i proclami sull'immaterialità e gli allarmismi sui "non-luoghi", molti degli spazi statici e instabili che vibrano nella "semiosi infinita" della contemporaneità, continueranno a servirci da buoni e saldi riferimento nella geografia "interna" della nostra vita.
* Una prima versione di questo testo è stata pubblicata sulla rivista "Equilibri", Il Mulino, Bologna 1998.
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